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La Fabbrichetta

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POVERI EQUILIBRISTI -Sintesi dell’incontro con don Roberto Davanzo, Direttore della Caritas Ambrosiana, a LA FABBRICHETTA di via Pepe 38- Mercoledì 19 ottobre 2005

September 30, 2015 By admin

P.Vito Antoniazzi presenta don Davanzo. Assistente regionale dei boy-scout’s,poi parroco alla Fontana e da 10 mesi Direttore Caritas,un osservatorio “privilegiato” rispetto alle povertà, ai problemi della città…
“10 mesi sono pochi per una realtà come questa-attacca don Davanzo- sto imparando…Persino la “giornata mondiale della povertà”,inventata da un prete e fatta propria dall’ONU,mi era sconosciuta. Del resto in Italia non molti la celebrano. C’è “Terre di Mezzo” una delle realtà che lavora con gli homeless (un’altra che promuoviamo noi è “Scarp de tennis” con l’idea di tenere viva un’attenzione culturale e di dare insieme lavoro a questo popolo fragile) che l’ha onorata con “la notte dei senza fissa dimora”, una notte all’aperto in piazza S.Stefano il 17 ottobre.
Io non mi entusiasmo troppo per “gli eventi”,per gli spettacoli (nemmeno per le adunate oceaniche…). Mi sembrano episodici,quasi che poi il giorno dopo il problema non ci sia più oppure sia solo “affar nostro”, di “delegati permanenti all’emarginazione”. Non voglio essere “il cerotto” per l’occasione. Certo è però che secondo la retorica dell’amministrazione ci sarebbero più posti letto contro “l’emergenza freddo” che domande. Figuriamoci! Se vai a vedere di 1660 posti annunciati, 1500 sono quelli stabili,già occupati tutto l’anno…
Qui c’è la prima questione da porre. L’Ente locale deve assumersi responsabilità, deve avere uno sguardo complessivo. La Legge 238 del 2000 prevede che l’Ente locale apra un tavolo col Terzo Settore, con il no-profit per discutere la Programmazione dei servizi.
Solo ora, al secondo biennio di Piani,il Comune di Milano,stimolato dalla Regione, chiama a un tavolo il Terzo Settore. Ma con incertezza e poca voglia di ascoltare.
Su 1100 parrocchie della Diocesi Ambrosiana (oltre a Milano,Lecco,Varese,Treviglio) abbiamo 800 Caritas,ma soprattutto abbiamo 260 Centri di ascolto che ogni settimana sono aperti ai problemi della povera gente (di tutti i colori e di tutte le religioni). I comuni si facciano aiutare dal terzo settore non per una sorta di pancooperativismo che punti a gestire tutti i servizi,ma prima di tutto per capire la domanda.
Seconda questione : la sicurezza è diventato un tema esplosivo. Un tema spesso “emotivo”, enfatizzato, che fa paura e paralizza. Mi è capitato ultimamente di occuparmi di Rom. Assicuro che non c’è niente di poetico e letterario. Però la risposta non può essere “la cultura dello sgombero”.
Persino questore e prefetto l’hanno detto: è inefficace ed antieconomica pure. Ci vuole integrazione,ma non è facile. Bisogna lavorare sull’educazione,sui giovani e conoscere la loro tradizione.
Luca Gadola racconta dell’esperienza di “tolleranza zero” in Canton Ticino (sassi nei campi dove si accampavano..):fallimentare. Esperienze positive sono state invece dove l’amministrazione svizzera ha cercato di facilitare il recupero di tradizionali attività artigiana.
Massimo Cingolati , a conferma dell’enfasi sulla sicurezza,dice che le assicurazioni (che basano le loro tariffe sulle statistiche e le probabilità di evento) riducono ogni anno le tariffe sui furti a milano,mentre aumentano in altre località.
Davanzo ricorda l’esempio coraggioso della Amministrazione di Rho che si è assunta la responsabilità di un campo per i Rom anche in presenza di un referendum contrario leghista.
Occorre creare una rete informale di solidarietà,di prossimità. Milano ha ancora tante risorse umane in questo senso. Non è tollerabile che nell’estate scorsa a Milano ci siano stati 29 anziani trovati morti in casa loro dopo diverso tempo (mentre nello stesso periodo nell’hinterland ci sono stati solo 2 casi simili). Lo stesso carcere non riesce nella sua teorica missione di rieducazione. Persone che escono dal carcere(o potrebbero uscire se…) non hanno casa, lavoro, nessuna rete relazionale che li aiuti. Ci sono stranieri “fragili”, ci sono sofferenti psichici, ci sono disabili destinati a rimanere soli (e i parenti si pongono il problema del “dopodinoi”).
Ci sono per fortuna esempi virtuosi. Condomini solidali,comuni che si mettono in rete e assumono responsabilità,tanta gente che cerca di lasciare meno sole le persone in questa città.
 

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“STRADE NUOVE NELL’URBANISTICA MILANESE”

September 30, 2015 By admin

Incontro con il prof. Alessandro Balducci,
Direttore del Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano.
 
Se quella della Fabbrichetta è almeno in parte la scommessa generazionale sulla possibilità di ritrovare una sintesi tra competenza tecnica e passione politica che ha costituito per esempio la forza di quel “socialismo municipale” milanese di inizio secolo che così tanto ha caratterizzato le istituzioni locali, Alessandro Balducci è tra i più qualificati ad intervenire. Non solo per il suo brillante percorso professionale, ma per la lunga e coerente attività pubblica, dagli esordi con la tesi di laurea sui primi passi di Berlusconi (pubblicata dalle Acli “Dal Parco Sud al cemento armato”), alla sua esperienza come giovanissimo consigliere comunale di San Donato, alla sua presenza nei momenti di forte partecipazione alle scelte urbanistiche in diverse aree cittadine.
In effetti senza risalire toppo indietro nel tempo, alcune recenti esperienze alimentano la mia relazione:
– la redazione del Libro Bianco sulla casa per il Prefetto di Milano
– lo studio di fattibilità per il Fondo Sociale Immobiliare della Cariplo
– il Progetto per il Villaggio Urbano alla Barona
– i Contratti di Quartiere per il Comune di Milano
– il progetto Città Sane

Il problema della casa ha tali caratteri di drammaticità da rivestire un ruolo centrale nella vita cittadina, ma è praticamente scomparso dalle agende politiche. In parte per la scomparsa dei partiti stessi, ma anche per il mutamento cittadino che ha realizzato di fatto l’espulsione dalle città delle categorie che esprimevano tradizionalmente il bisogno della casa.
Per verificare questo mutamento è sufficiente confrontare una fotografia aerea di Milano oggi con quella di trent’anni fa, e verificare come dall’esistenza evidente di una città costituita da centro e periferia, si è passati a quella nebulosa di cui già ci ha parlato Stefano Boeri in un suo precedente intervento. In questo passaggio si è verificato lo spostamento non solo da Milano, ma dalla Provincia di Milano, a vantaggio di Bergamo, Lodi, Lecco, tutte Province limitrofe, che hanno aumenti di popolazione nell’ordine del 10 % negli ultimi vent’anni. Questo il motivo quantitativo per cui il problema della casa non si concretizza a Milano in una domanda politica significativa.
Ma c’è anche un aspetto qualitativo, perché la domanda si è fatta più articolata, inglobando accanto all’evoluzione delle forme tradizionali della domanda abitativa, anche forme nuove di disagio.
Anzitutto si registra un fenomeno di rischio, una vulnerabilità nuova che colpisce fasce ampie del ceto medio, che per evitare nuove forme di strozzamento economico, devono assolutamente farsi ascoltare dalla città. Ci sono poi, con una grande varietà di casistica, forme di disagio rispetto all’accesso all’alloggio e vere e proprie forme di esclusione per i casi più marcati e duri, come quelli degli immigrati, delle tossicodipendenze.
Di fatto i numeri dicono che in pochi anni a Milano si è passati dal 50% delle case in affitto a solo il 20% , che si compone di un 5% di forme di affitto dalla mano pubblica, che si trasformano per la loro durata e resistenza in forme di quasi proprietà, e di un 15% che si ricicla sul mercato, ma solo per una fascia particolare, caratterizzata dall’ampia disponibilità di spesa e dal prezzo altissimo.
A fronte di questo cambiamento epocale, la totale disattenzione della politica cittadina, che nei tre bandi dal 1997 ha ricevuto 17.000 domande nel 1997, 12.000 nel 1999, ed ancora nel 2003 di fronte a 9.000 sfratti per morosità e 2.000 per finita locazione, ha offerto 495 nuovi alloggi comunali di edilizia sociale e 1.300 assegnazioni di case popolari. Le assegnazioni finiscono per testimoniare lo stato di difficoltà, perché le poche case che si liberano finiscono per essere assegnate alle persone che sono portatrici di gravi situazioni di disagio, quali la presenza di malati lungo degenti o portatori di handicap
Il patrimonio complessivo ammonta a 42.000 alloggi ALER e 20.000 del Comune di Milano, all’interno dei quali la popolazione ha un invecchiamento anche superiore alla già alta media cittadina, cui si aggiungono i problemi dati dall’abusivismo, nell’impossibilità per l’ALER di fare controlli. I motivi stanno in una scarsa efficienza storica dell’ente, visto che altre realtà analoghe in Lombardia, per tutte Brescia, funzionano relativamente bene.
Il cambiamento della città che si accompagna non è governato con gli strumenti esistenti, quali il Piano Regionale per l’Edilizia Pubblica o il Piano di riutilizzo dei Fondi Gescal, che risale al Ministro Nesi alla fine degli anni novanta. Infatti se con questi strumenti si sono potuti attivare alcuni fenomeni virtuosi, come alcuni bandi, i contratti di quartiere, è certo che la situazione complessivamente presenta troppe lacune. Ad esempio solo il piano Lombardo prevede un fabbisogno di 60.000 case, per le quali gli unici interventi sono dei programmi di facilitazione dell’accesso al mutuo.
In definitiva la rilocalizzazione della popolazione trasferisce costi enormi, senza dare benefici corrispondenti. Infatti il differenziale fra prezzo pagato per l’abitazione fuori città finisce per essere largamente compensato dai costi evidenti (trasporto) e da costi occulti, primi fra i quali il tempo e la qualità della vita. Si è creato un modello dissipativo di risorse, difficilmente controllabile. Certo non si può dire che si tratti di un fenomeno che non abbia alcuni aspetti positivi, soprattutto in prospettiva, ma al momento prevalgono le criticità.

A fianco della trasformazione del problema della casa, sta la trasformazione del vivere la città, in particolare in relazione ai quartieri cittadini.
Secondo alcune ricerche di Ilvo Diamanti sulla sicurezza, nell’attesa di sicurezza da parte delle popolazioni del nord Italia, cresce la parte riservata alle relazioni di tipo individualistico (famiglia – lavoro) a scapito dell’attesa di risposte provenienti dalle relazioni sociali ed istituzionali.
Ne sono esempi evidenti le situazioni che si creano in molti quartieri dell’area metropolitana di Milano. Uno per tutti un quartiere urbanisticamente bello e ricco di verde pubblico come il Sant’Amborgio a Milano, che vede una forte difficoltà nella vita di tutti i giorni, fra una popolazione invecchiata e la difficoltà dei giovani e giovanissimi di vivere normalmente in situazioni di degrado sociale e di insicurezza.
Milano è stato sempre storicamente una città di quartieri, che davano un senso di identificazione molto forte, accompagnando realmente tutta la vita dei cittadini. Oggi nei quartieri si sono anzitutto svuotati quei meccanismi intergenerazionali a cui si dovevano molti fenomeni di appartenenza. Anzitutto nei quartieri la mobilità è molto bassa, sino ad assistere a fenomeni di invecchiamento collettivo di interi quartieri che si erano popolati inizialmente di famiglie estremamente omogenee. Si è quindi assistito alla trasformazione dei circoli scolastici in comprensori, alla riduzione del numero dei Consigli di Zona e delle sedi ASL, e così la ridotta capacità economica della macchina comunale ha allontanato ed in molti casi del tutto eliminato la presenza ed il supporto del settore pubblico.
La crisi del modello del quartiere è diventata quasi irreversibile per questi fenomeni di eliminazione dei servizi di prossimità, proprio mentre invece si è data grande eco ad aspetti repressivi della risposta al bisogno di sicurezza, quali il vigile di quartiere e la polizia di quartiere.
Come per la casa, anche per i quartieri è importante distinguere le aree di intervento: per la casa il rilancio dell’affitto per dare nuova sicurezza ed aspettativa di vita migliore, e riduzione del disagio sociale, per il quartiere la valorizzazione di aspetti apparentemente esteriori diventa valorizzazione della vita civile e recupero di spazi di vivibilità altrimenti non riconquistabili. E’ essenziale non continuare a ripetere gli errori del passato, come si è fatto ancora una volta al quartiere Sant’Ambrogio, dove gli spazi commerciali sono stati vandalizzati e ripristinati più volte, ma senza mai pensare un intervento che li mettesse al riparo dai vandali rendendoli vivi e funzionanti. Avrebbe sempre senso un piano di recupero ed inserimento di dimensioni poli funzionali, non come fatto a Ponte Lambro nel progetto di Renzo Piano.

Per chi osserva anche la realtà internazionale è evidente che una delle nostre particolarità sta ad esempio nell’incapacità di mettere d’accordo diverse istanze istituzionali e nella perdita da parte della politica della capacità di mediare fra interessi e bisogni. Un esempio concreto: a Madrid ad Atocha la municipalità ha realizzato un nuovo polo dei trasporti eliminando le orrende e intasate sopraelevate, ed integrando nella nuova sistemazione anche un polo di edilizia residenziale ed il Museo Reina Sofia. A Milano in questo momento, nella nuova area della Fiera a Rho, assistiamo alla realizzazione di due stazioni dell’Alta velocità e della Metropolitana, distinte e lontane fra loro oltre 1 km. La politica dovrebbe recuperare la capacità di coordinamento degli interventi, che sono sempre più monolaterali, nel senso che hanno un solo protagonista, proprio per la sopravvenuta impossibilità di trovare accordi fra diversi interessi. In questo modo si perdono gradi opportunità.

Un esempio di uso mirato delle risorse è dato dai contratti di quartiere, un istituto che per chi lo ha voluto e vissuto è rapidamente passato dalla fase iniziale delle minacce a quella del giubilo popolare per le realizzazioni, come nel caso di Cinisello Balsamo.
I contratti di quartiere a Milano si sono concretizzati in un finanziamento di 220 milioni di € sui cinque quartieri a proprietà pubblica, con il fine di evitare che una volta finanziato l’intervento, il Comune ne abbandoni il controllo in senso sociale e non strettamente contabile.
Per fare questo si sono programmati interventi articolati di:
– inserimento di attività economiche
– rifacimento di alcune tipologie di appartamenti ormai obsolete
– inserimento di progetti sociali
– riqualificazione del verde
– partecipazione dei cittadini alle scelte ed alle realizzazioni

Questa tiplogia di intervento nasce dai programmi Urban della UE, che partono dal presupposto che senza dare agli abitanti un senso di appartenenza, non si riesce a cambiare lo stato di degrado delle città. La dimensione contrattuale per il coinvolgimento degli abitanti sarebbe un requisito necessario nei bandi di concorso.
Un comitato di sorveglianza coordina gli interventi ed arriva anche a gestirne la realizzazione. Gli interventi possono essere i più diversi, ed andare dalla trasformazione di spazi pubblici inutilizzati in spazi di servizio, all’affidamento a cooperative di giovani dei servizi di trasloco interni al quartiere.
Il risultato viene raggiunto nella totale assenza della macchina comunale tradizionale, che non è minimamente coinvolta. Ad esempio a Milano benché quattro dei cinque quartieri interessati siano all’interno di una sola zona, il Consiglio di zona non solo non ha alcun ruolo nel contratto, ma non se ne è nemmeno interessato.

Se si cercasse una risposta in termini politici, c’è invece una connessione fra problemi della casa e problemi dei quartieri, perché costruendo una politica vera della casa si potrebbero affrontare anche i disagi dei quartieri. E vero che quella della casa non è una questione solo di livello cittadino, ma è anche vero che non ripetendo gli errori del passato (PRU) una migliore selezione degli interventi può consentire un utilizzo migliore delle risorse disponibili.
A dimostrazione e conclusione l’esempio del Fondo Sociale Immobiliare Cariplo, che pur restando nei limiti statutari delle proprie obbligazioni istituzionali, ha sostenuto progetti di edilizia sociale, garantendosi la possibilità di finanziare al 4% il capitale investito (al netto del costo dell’area). Posto che nel passato c’erano costruttori di nicchia capaci di ritagliarsi un ruolo ed una remunerazione proprio nella costruzione di edilizia sociale, questo dimostra che anche oggi è possibile operare in questa fascia con interventi che senza essere speculativi, siano economicamente sostenibili.

Il costo sociale della delocalizzazione in provincia potrebbe essere maggiormente evidenziato, per sottolineare i problemi ed i disagi sociali che questa comporta.

Assistiamo nel campo del valore delle aree edificabili e già edificate, ad un rafforzamento della rendita di posizione per chi possiede aree cittadine, o ne ha fatto scambi con aree semi centrali, ottenendo in cambio vantaggi urbanistici. La rendita su questo tipo di area ha assunto dimensioni oggi imponenti., che erano inimmaginabili sino a pochi anni fa.

Rispetto all’eccesso di terziario e davanti ai vecchi interventi degli anni ’80 sulle aree dimesse, sarebbe anche interessante valutare la possibilità di recuperare a fini abitativi molti immobili deserti. Questo non ostante la valutazione di Alessandro Balducci sulla sostanziale certa anti economicità di questo tipo di interventi (riconversione diretta da uffici ad abitazioni).

Anche gli investitori istituzionali privati come banche ed assicurazioni hanno abbandonato il loro patrimonio immobiliare, dimesso con forme selvagge che hanno premiato solo alcuni più fortunati. Infatti quelli fra gli inquilini che potevano rispondere ad offerte sostenibili, hanno acquistato, gli altri sono stati espulsi dalla speculazione successiva. E’ un segno della dimensione economica del problema della casa.

Permane una visione pessimistica sullo sviluppo della città, al di là delle volontà politiche che sarà possibile esprimere. Infatti il seguito del fenomeno di delocalizzazione descritto, sta nella sopravvivenza in città solo di una fascia di cittadini ricchi insieme ad una fascia di sostanziali manutentori della città stessa, al servizio delle attività economiche ed espositive e degli abitanti ricchi. Il ceto medio viene inevitabilmente espulso da una città nella quale la qualità della vita tende allo zero. La volontà politica delle amministrazioni passate si è esaurita nella politica degli annunci, e non ha capito che la qualità della vita non sta nel sistema del global service ma nel coinvolgimento dei cittadini.

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MAURIZIO AMBROSINI Professore di “Sociologia dei processi migratori” presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Statale di Milano

September 30, 2015 By admin

 
Riprende l’attività della Fabbrichetta con l’incontro con Maurizio Ambrosini, dal titolo “Da braccia a persone, il nodo della cittadinanza” . L’argomento è importante perché “in prima pagina” da alcuni anni,per il suo sviluppo quantitativo, ma anche per i provvedimenti governativi allo studio e quindi per le innumerevoli polemiche scatenate.
Il nostro taglio vuole sempre essere milanese, con la voglia di fare proposte, e quindi chiediamo ai relatori di aiutarci a fare emergere qualche idea, perché le città hanno bisogno di progetti anche al di là dello schieramento politico.
Il tema della cittadinanza è in questo senso centrale, e su di esso vorremmo coinvolgere altre associazioni ed istituzioni, con la voglia di trasformare in politica i progetti culturali, creando consenso ed aggregazione.
Cercherò di accogliere l’invito a far scaturire idee,anche se per chi fa il mio mestiere spesso è più facile fare analisi che proposte, ma sulla base di quattro considerazioni di fondo, qualche proposta potrà alla fine essere fatta.

1) Da braccia a persone
il titolo del mio intervento è significativo di una cosa che nella nostra città oggi possiamo dire di avere capito, a differenza di 15 anni fa: gli immigrati sono “utili invasori”, malvisti, ma che svolgono un’attività positiva nella nostra società. La rappresentazione che ci facciamo del clandestino è quella di un maschio, arabo, impegnato in attività losche dopo essere arrivato da noi con il barcone. I veri irregolari però sono statisticamente perlopiù donne, arrivate in aereo con un permesso di soggiorno in genere turistico e rimaste a lavorare in gran parte nelle nostre famiglie.
Qualunque cifra venga fatta sul numero di questi irregolari è falsa, ed è meglio cercare degli indicatori: agli sportelli delle poste in occasione dell’ultima sanatoria si sono presentati in 500.000, mentre a Lampedusa in un anno sono sbarcate 16.000 persone.
A fronte di questo fenomeno, lo strumento fondamentale di politica dell’immigrazione è stato rappresentato dalle sanatorie, cinque in quindici anni, più il movimento generato dal decreto flussi che costituisce un altro tipo di sanatoria.
Questi immigrati sono desiderati ma non benvenuti, perché vanno bene per alcuni lavori, ma certamente non come vicini di casa, o potenziali mariti delle nostre figlie, benché si sia piuttosto
verificato in proposito un fenomeno di matrimoni di maschi italiani con donne straniere (70% dei matrimoni misti).

2) La repressione delle irregolarità
Su sbarchi e repressione fioriscono i luoghi comuni: anzitutto non è vero che basti volerlo per rimandare indietro quelli che vengono intercettati, perché le garanzie personali proprie del nostro ordinamento liberale, rendono difficile l’espulsione immediata ed automatica. Si può essere più rigidi, come avviene a Singapore o in Nigeria, o in Kuwait, ma si tratta di paesi che lasciano a desiderare sotto il profilo della tutela dei diritti umani. Le scorciatoie in nome dell’efficienza si pagano in termini di diritti, come si è visto in occasione del coinvolgimento della Libia, il cui sdoganamento dall’etichetta di stato canaglia si è accompagnato con la disattenzione umanitaria su quello che viene fatto in quel paese ai migranti.
In secondo luogo c’è un argomento molto terra – terra: reprimere le irregolarità con le espulsioni costa moltissimo in termini di uomini e mezzi, ed in definitiva soldi. Già allo stato attuale delle cose la Corte dei Conti ha rilevato che per ogni euro speso dal governo Berlusconi per integrare l’immigrazione, se ne sono spesi due per le espulsioni. Espellere di più vorrebbe dire peggiorare ancora questo rapporto.
In realtà nessun paese civile è andato oltre la soglia del 15% di espulsione di immigrati irregolari individuati. Anche perché i paesi di origine pongono difficoltà ad accettare i rimpatri (servono appositi accordi, e neppure quelli sono a costo zero), e perché il 50% degli irregolari individuati viene rilasciato perché non è possibile fare un’identificazione certa della nazione di origine o perché manca un accordo di riammissione. I soldi poi si spendono male, e in modo casuale: pochi mesi fa a Genova si è fatta una retata espellendo a casaccio qualche decina di lavoratori irregolari ecuadoriani solo perché c’era un charter disponibile. Le autorità spesso sanno dove stanno i piccoli malavitosi, italiani e stranieri. ma preferiscono per varie ragioni non colpirli, utilizzandoli anzi per alimentare il circuito informativo.
A cosa servono le politiche repressive ? Ad assolvere ad una funzione deterrente e a una simbolica: la prima è un monito verso gli immigrati, la seconda tende a rassicurare la pubblica opinione sul fatto che i governi difendono i confini. A queste due funzioni è difficile rinunciare, così come ad esempio non si rinuncerà ai CPT.

3) Cittadinanza e diritti
Quando è esploso il caso Padova, l’allora ministro Fini ha espresso la certezza che 5 anni per arrivare alla cittadinanza sono pochi. Non a caso a Padova la giunta (ulivista) ha alzato il muro, ignorando che se ci sono spacciatori immigrati ci sono clienti cittadini.
La questione della cittadinanza nazionale muove corde emotive profonde. Michael Walzer ricorda che nell’antica Atene la cittadinanza era limitata ai maschi liberi ateniesi, escludendo le donne, gli schiavi ed i meteci: lavoratori stranieri ammessi in quanto utili, ma non riconosciuti come concittadini. Oggi nelle nostre società stiamo riproducendo questa situazione, ovvero una forma di tirannia di una parte della popolazione che vive in un certo territorio (i cittadini nazionali), prendendo le decisioni che riguardano anche un’altra parte (gli immigrati residenti stabili).
Negli anni sessanta nelle nostre città gli umori diffusi erano analoghi a quelli di oggi, ma l’oggetto erano i meridionali. Questi malumori sono rimasti però a livello di senso comune, senza arrivare ai piani alti della politica, perché quelli erano cittadini e votavano.
Il tema delle cittadinanza è importante al di là dell’effettiva propensione al voto degli immigrati, perché responsabilizza le istituzioni e ridefinisce i termini della solidarietà nazionale. La nostra identità è di tipo tribale, basata sui vincoli di sangue e sul legame familiare (si può facilmente diventare italiani per matrimonio).
La legge che ha alzato a 10 anni il periodo di residenza necessario per ottenere la cittadinanza è del 1992, approvata con voto unanime delle forze politiche. E’ una legge di chiusura etnica della cittadinanza, che aggiunge ai molti anni i tempi lunghi ed incerti di esame delle richieste, tanto più che il 50% delle richieste vengono respinte. E’ istruttivo il fatto che in tutto il mondo già scricchiola l’impianto dei 5 anni, criterio seguito in USA Francia e Inghilterra, mentre in Canada sono solo 3 ed in Australia addirittura 2.

4) Religione e identità nazionale
Si tratta di un tema molto ampio, che ha caratteristiche proprie anche al di là della questione della migrazione.
Nell’America del diciannovesimo secolo certe categorie di immigrati erano considerate non assimilabili nella società del nuovo mondo per motivi religiosi. Erano i cattolici, sospettati di obbedire ad un’autorità religiosa straniera, il Papa, ed alla gerarchia ecclesiastica, ed erano osteggiati ufficialmente e anche con violenza anche da apposite associazioni, frequentate persino da personaggi illustri come Samuel Morse, l’inventore del telegrafo. Però i cattolici, e gli ebrei dopo di loro, hanno costruito le loro chiese, poi vicino alle chiese le scuole e infine gli ospedali. Così sono diventati cittadini, elaborando un’identità americana rispettosa delle loro radici religiose.
E’ una vecchia storia che ritorna: l’identità nazionale viene messa in questione dall’identità religiosa. E’ ancora un fatto etnico: le nazioni europee sono sorte sul legame suolo –lingua- sangue – religione. Oggi è più difficile capire cosa ci tiene insieme, e allora anche la religione rischia di tornare ad assumere una funzione etnica, come collante che ci unisce contrapponendoci ad altri.

Sulla base di queste quattro considerazioni di fondo, quali sono le possibili proposte sul piano operativo ? Manca un impegno serio contro le discriminazioni etniche e religiose, impegno che dovrebbe trovare spazio anche a livello locale. Serve un’authority o un’apposita agenzia che individui e persegua le discriminazioni ai vari livelli.
Gli stranieri da noi sono quelli che fanno i lavori delle cinque P: Pesanti – Pericolosi – Poco pagati – Precari – Penalizzati socialmente.
Questo fatto entra indisturbato nella normalità della nostra vita, producendo gli stereotipi sugli stranieri, per cui per esempio i filippini sono considerati adatti ad accudire la nostra casa ed i nostri figli. C’è però un aspetto pericoloso: il passaporto finisce per determinare le attitudini. Così per esempio i sikh vengono impropriamente etichettati come abili custodi di vacche, per ragioni religiose, mentre nulla hanno a che vedere con il culto della vacca sacra.
Con o senza agenzia dedicata, un impegno istituzionale servirebbe per promuovere il riconoscimento dei titoli di studio e delle competenze acquisite dagli immigrati: per es., traducendo la documentazione, verificando i programmi di studio, aprendo negoziati con università e ordini professionali
La questione del diritto di voto è importante anche a livello amministrativo. Forse si potrebbe fare una battaglia per dare a Milano il diritto di voto agli immigrati almeno nei Consigli di Zona, che sono per di più organi a carattere consultivo. Nel programma della zona 9 c’è l’ipotesi di una consulta interculturale per avere un organismo che riconosca la presenza di quel 10% di immigrati censiti in zona.
Questo faciliterebbe il superamento dello stereotipo e l’aumento del dialogo.

La lingua è uno strumento essenziale su cui lavorare, perché è uno strumento di integrazione a basso costo, accosta all’identità locale. Che cittadino può essere quello che non parla la lingua locale ?

Quali cittadini creiamo con l’esclusione ? Come è possibile rifiutare la cittadinanza ad un bambino che è nato in Italia o che ha fatto tutte le scuole in Italia ?

Abbiamo una cultura capace di accogliere ? Il linguaggio, l’approccio tradiscono una scarsa cultura dell’altro.

Le politiche dell’immigrazione dovrebbero tendere ad evitare che si costituiscano nuovi ghetti, che sono in sé pericolosi e radicalizzano il problema.

Sul tema del diritto di voto ci sono state fughe in avanti (proposta Fini), ma del tutto sterili; il problema si sgonfia se diminuisce il tempo necessario per ottenere la cittadinanza, altrimenti il diritto di voto può diventare un passaggio intermedio, prima di accedere alla piena cittadinanza

La questione della lingua è essenziale, e facilmente affrontabile: si potrebbe pensare a un test per i candidati all’ingresso, preferibile ai corsi di formazione professionale all’estero, che hanno un sapore vagamente coloniale (presuppongono che nel resto del mondo non ci siano scuole e università in grado di preparare le persone) Dovrebbe anche includere l’educazione civica, la stessa che si dovrebbe studiare nelle nostre scuole, Diverso, e orrendo, sarebbe un test volto a sondare i valori: quali sono i valori che possono essere definiti come nazionali ? La polemica sarebbe lunghissima.

Circa la questione della cultura dell’accoglienza dell’altro, è vero che assistiamo a pratiche quotidiane di esclusione, anche a livello istituzionale, ma dall’altra parte ci sono mille iniziative che servono ad aggirare le difficoltà dell’integrazione.
Una di esse si è vista proprio sulla questione dell’accoglimento dei figli di irregolari nelle scuole: dapprima qualche preside, poi qualche provveditore, infine una legge dello stato.
Le seconde generazioni dovrebbero avere maggiori diritti e invece anche nella Francia della cittadinanza “di suolo” sono stati fatti passi indietro, ma si è anche visto in occasione dei disordini nelle “banlieues” che la cittadinanza non è una bacchetta magica. Infatti i fermati erano quasi tutti cittadini francesi
A Milano un bambino su quattro nasce con almeno un genitore “straniero”, questo impone la ricerca di percorsi di contaminazione interculturale.
Circa la questione dei ghetti, l’esperienza francese ed americana dimostra che i ghetti si creano per la fuga dei cittadini bianchi di fronte all’insediamento dei neri o degli immigrati. Le politiche giuste devono essere volte a creare quartieri che abbiano diverse componenti. Oltre al ghetto spaziale, c’è quello occupazionale: se ci saranno immigrati medici, giornalisti, insegnanti,ecc. e non solo manovali, domestici,portinai,… i loro figli saranno più accettati come compagni di scuola dei nostri figli a pieno titolo.

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LA “BANCA DEL VERDE” Una proposta presentata da Massimo Ferlini, Presidente di Compagnia delle Opere Milano, a La Fabbrichetta il 15 novembre 2006.

September 30, 2015 By admin

La “banca del verde” è innanzitutto un’idea, nata al tavolo di consultazione comune che Lega cooperative e Cdo hanno a Milano e da cui sono scaturite in passato iniziative come “OBIETTIVO LAVORO” (Agenzia per il lavoro interinale) e, più recentemente, il Consorzio per sviluppare il “cohousing sociale”.
Nella esperienza di Cdo ci sono i precedenti del “Banco Alimentare” e del “Banco farmaceutico” che raccolgono e ridistribuiscono sul territorio dove c’è il bisogno e dove ci sono reti di solidarietà di tipo vario.
L’idea è stata certamente stimolata dall’occasione del Bando progettuale della Provincia “Città di città” al quale concorriamo e di cui tra un mese sapremo l’esito.
Al confronto con altre metropoli Milano ha scarsità di verde. Gli ultimi grandi Parchi sono stati il Nord e il Forlanini. C’è la questione Parco Agricolo Sud che non sempre è in buone condizioni di vivibilità.
L’idea di Boeri e della Provincia di un “Metrobosco”,quella dell’Assessore Comunale Masseroli di una “cintura verde” (la cui fattibilità ha fatto studiare a Kippar), tutte vanno nel senso di collegare, di estendere il verde. Ma dove si trovano le risorse? Come si sviluppa la partecipazione?
Mi sembrano queste le due domande centrali a cui si vuole rispondere con la “Banca del Verde”. Da un lato vorremmo costituire una Fondazione,che sia “la cassaforte” del verde, quella a cui vengono conferiti (in donazione, in comodato) aree verdi per la loro piantumazione e manutenzione.
La Fondazione potrebbe raccogliere risorse,sia territoriali che economiche, da privati e da enti pubblici. Gli enti locali potrebbero trovare un patner che valorizza e mantiene aree pervenute a scomputo d’oneri per esempio. I privati potrebbero essere interessati sia ad un “risarcimento ambientale” (soprattutto per chi ha un’attività che consuma ossigeno o produce CO2,come chi usa carta,produce energia,vetro,combustibili,..) sia ad un’azione da inserire nel loro bilancio di responsabilità sociale.
L’attuazione dell’accordo di Kioto procede a rilento in Italia, ma la borsa del CO2 è attiva e i “Certificati verdi” (quelli connessi alle energie rinnovabili e che non consumano fossili) sono già in funzione. Mancano ancora i “Certificati Bianchi” quelli riferiti alla forestazione di aree.
L’altro nodo è quello della “partecipazione”. Dove si è “osato” i riscontri sono stati positivi. Per esempio nella gestione degli orti regolamentati. Per esempio in alcuni campi bocce dati ad anziani. Diversa è stata l’esperienza “Verde in Comune” a Milano, più una sponsorizzazione centralizzata, che un coinvolgimento del territorio. Ambientalisti, agricoltori, cittadini potrebbero essere coinvolti in un processo anche gestionale del verde che diviene vivibile, esperienza di responsabilità e vita sociale.
Cooperative sociali potrebbero lavorare alla manutenzione inserendo al lavoro persone svantaggiate. A partire da una scelta volontaria e di compensazione,può svilupparsi un grande progetto di responsabilità sociale ed ambientale i cui aspetti di comunicazione sono particolarmente significativi. Siamo al lavoro.
Puntiamo sull’area metropolitana, ma qualche progetto urbano non è escluso.
L’obiettivo è presentare a gennaio la Fondazione con le prime aree acquisite e con una struttura operativa. Tra un anno possiamo vederci a fare un primo bilancio.
 

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“QUALE SINDACO PER MILANIA ?”

September 30, 2015 By admin

Incontro con Piero Bassetti
alla Fabbrichetta, 1 marzo 2006

Piero Bassetti è stato protagonista di varie stagioni milanesi. Esponente di punta della corrente della “Base” DC (quella di Mattei, Marcora, Granelli…), è stato pluriassessore per sette anni con il sindaco Cassinis. Grande sostenitore del regionalismo è stato negli anni ‘70 il primo Presidente della Regione Lombardia. Presidente della Camera di Commercio negli anni 90 ha seguito le trasformazioni di questa città. A lui, a cui piace usare il termine “Milania” per indicare la nuova globalcity, La Fabbrichetta chiede di parlare di come Milano è cambiata.

“Mi piace parlare con gente che si fa domande,che cerca di capire e che crede ancora nella politica.
In fondo certi giornali come “il Foglio” o “il Riformista” sono un residuato di questa cultura:ma chi li legge ? Oggi i giornali vivono di pubblicità, in funzione degli inserzionisti. E la “telecrazia” non è il presente…è il futuro!!!
Sbaglia chi crede che siamo di fronte ad una “crisi” congiunturale.La “crisi” è mondiale, epocale. E quando cambia il mondo non puoi cercare i tuoi riferimenti nel passato, non puoi essere “retroverso”. Lo schema destra/sinistra non funziona più.. Invece se uno pensa a quale sindaco ci vuole, riparte da lì..ma è sbagliato.
E’ il punto centrale per la sinistra. Se si pensa di essere a sinistra rievocando i valori e le lotte del passato si sbaglia. Erano belle le lotte operaie…ma quegli operai non ci sono più, quelle fabbriche non ci sono più.
Può essere il Comune,l’istituzione l’elemento aggregante? Ma anche quel comune (quello in cui sono stato a lungo assessore) non c’è più. Ci vorrebbe una rivoluzione piuttosto che un amministrazione (altro che condominio!). Le cose vanno cambiate non “aggiustate”. La sinistra è più in difficoltà anche perché è fuori dal governo locale da parecchio tempo. Non conosce quello che si sta impastando,quello che sta lievitando,cosa si muove in città.
E’ cambiata la città e anche l’idea di città. Una volta la città era dove abitavano i cittadini,diversi dagli abitanti dei dintorni e della campagna. Una volta la città aveva un solo centro. Oggi la mobilità ha cambiato il rapporto funzione/territorio. Le elite non sono più sempre in centro… Questo movimento è in più direzioni. Non è vera l’immagine che Milano ogni giorno sia soltanto invasa da migliaia di “esterni” che la usano, le persone che escono dalla città in auto sono più di quelle che entrano ogni mattina!
Il successo delle Multisale fuori città è un esempio del cambiamento: una volta si andava al cinema in Vittorio Emmanuele, nessuno avrebbe pensato di andare a divertirsi a Melzo o Vimercate o Pioltello!
E così non si può fare il conto su 10.000 residenti in meno. La città si riorganizza,si distribuisce sul territorio. Se giovani coppie hanno trovato casa a Novate o a Peschiera o a Brugherio, sono per questo meno milanesi ?
Dobbiamo porci la domanda: cos’è Milano oggi, a cosa serve Milano oggi ?
Capitale morale ?di che ? E’ l’Italia il nostro riferimento ? E’ la regione ? E’ la Padania? E’ l’Europa?
Certo non si può pensare alla cinta daziaria.
Milano, anzi Milania , è una delle 10 più importanti città globali, ovvero un “nodo delle reti globali”,secondo una ricerca, fatta da noi e pubblicata da Bruno Mondatori. Non perché abbia il primato in alcune reti/settori, ma perché è eccellente in molti (nelle università, nella moda, nelle professioni,ecc.).
Certo il bacino va da Torino a Trieste. Torino Olimpica è anche un nodo di questa rete. Le appartenenze oggi sono più per comunità di pratica che per territorio. Persino i cattolici scelgono la parrocchia che preferiscono e non quella sotto casa…I figli (se escono di casa..ma questo è un altro problema) cambiano città, scelgono base al lavoro,all’opportunità,non in base all’appartenenza locale. Persino il tifo calcistico non è più localistico (la Juve ha,sempre più, tifosi anche a Milano…)
Le istituzioni sono per natura rigide, prendono atto (di solito in ritardo) dei cambiamenti,raramente li precedono. Non possiamo aspettarci troppo….”

“Eppure-interloquisce Pier Vito Antoniazzi-ci sono stati sindaci come Caldara che hanno anticipato,che hanno dialogato con la cultura scientifica, che hanno rappresentato una unità ed una identità solidaristica anche in momenti difficili come i tempi di guerra. Il Sindaco è sempre stato amato dai milanesi. Ha sempre goduto di una sorta di luna di miele. Tranne in questo ultimo decennio in cui la sensazione è stata quella di un autocrate,in dialogo solo con i poteri forti e piuttosto punitivo (vedi politica delle multe) nei confronti dei cittadini. Non possiamo tornare a sperare in un sindaco “amico dei cittadini” ?”
Le città hanno sempre bisogno di un simbolo,di una spinta emotiva. Ma non possiamo aspettarci una mamma di ieri che ci risolve tutti i problemi di oggi. Ci vuole un sindaco che interpreti la trasformazione nel senso sociale e popolare della sinistra. Non una persona organica ai poteri forti ma piuttosto qualcuno che cerchi ti trasformare l’assetto istituzionale. Da questo punto di vista un ex prefetto può avere le competenze giuste… Come si fa a ritrovare la fiducia ? Basterebbe che un sindaco riconoscesse le domande dei cittadini. Sarebbe la prima e più importante delle cose. Guardate Veltroni. I romani stanno facendo grandi cose. Non è il leader politico a realizzare grandi cose, ma è il catalizzatore, colui che comunica suggestioni. La più importante delle quali è la sensazione di avere un amministratore che capisce, che considera, che valorizza. Allora ci facciamo in quattro,perché questa è la volta buona…Certo il leader può essere anche negativo, proporti di non pagare le tasse (tanto fa i condoni). Una sorta di “bagulun del luster” ,letteralmente “il ballista del lustro da scarpe” come i milanesi chiamavano i venditori di fole,riprendendo l’immagine dai venditori ambulanti del lucido “BRILL”….
“Quale ruolo può avere l’Università milanese in questo cambiamento che è anche culturale?” chiede la professoressa Irene Buzzi Donato.
“Se guardiamo le classifiche Milano è una delle prime cinque in Europa per ricerca (soprattutto applicata ma anche teorica..). Abbiamo poli di ricerca avanzata,per esempio nella medicina.
-riprende il ragionamento Bassetti- Ma se devo chiedermi “questa sapienza è in grado di animare una politica culturale che nuovamente attragga verso Milano ?”, allora devo ammettere di essere dubbioso. C’è un eccesso “umanistico” nella cultura milanese, c’è,soprattutto a sinistra, un pregiudizio “antiscientista”. Ci aspetta una società del sapere… Milano deve mediare,connettere, il sapere. Milano è stata la prima nel mondo ad inventarsi l’ospedale. Questa idea di “Milano=grande famiglia”, Milano che accoglie, Milano che cura…va rinnovato altrimenti lo perdiamo”.
“Come sifa a ritrovare la fiducia smarrita ?” chiede l’architetto Francesco Florulli.
“E’ una sfida epocale!-ritorna sul tema d’apertura Bassetti- La risposta non è a Milano ma a Milania. Una “global city”, un nodo della rete globale. Non una ma tante reti. La moda certo ,dove noi abbiamo superato Parigi,aggirando l’haute couture con il nostro prait a portèr, la convention del design nel 2008,che oggi ci siamo fatti soffiare da Torino (anche se, forse, sempre Mlania è).
La Lirica per esempio,una rete importante,che non può vivere per i soli palchettisti.
Era bella quella Scala e quell’epoca,ma non possiamo restare agli amori di gioventù…
Bisogna amare Milano,recuperandone il passato e la vocazione ma cambiandolo per salvarlo.
E’ una vecchia consuetudine milanese, nulla si spreca, nulla si rompe. Si va cercando il bello, il diverso, il migliore senza buttare niente…”
 

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C’E’ QUALCOSA DI NUOVO NELL’ARIA L’inquinamento a Milano

September 30, 2015 By admin

Ennio Rota
Vice Presidente Legambiente Lombardia

La Fabbrichetta ha cercato nei suoi percorsi di analisi della realtà milanese, di evitare i luoghi comuni e gli argomenti troppo evidenti e dibattuti. Ma non è possibile esimersi da una valutazione dell’inquinamento dell’aria che respiriamo. Lo facciamo con un osservatore privilegiato, Ennio Rota, medico, dirigente della Regione Lombardia e vice presidente di Legambiente.
Partiamo dall’oggi: perché un’aria così brutta e perché in gennaio ? E’ ovvia l’osservazione che con il freddo tipico di questa stagione aumenta il ricorso al riscaldamento, e persino le auto sono meno efficienti, come chiunque può constatare controllando i propri consumi, e quindi consumano di più. La situazione meteorologica ha fattori anche più sottili: fa più freddo al livello del mare, mentre in quota la temperatura è più alta. Basta una differenza di 1° sopra le nostre teste per rendere difficile il ricambio dell’aria, e quando la quota di inversione termica è più bassa l’aria fredda resta schiacciata anche dall’aumento della pressione dell’aria, gli inquinanti sono più stabili e l’inquinamento la fa da padrone. I venti dell’est arrivano meno in questa stagione, e anche le perturbazioni sono limitate così niente libera l’aria.
La rete di monitoraggio esistente permette di dire che tutti gli inquinanti controllati sono statisticamente in discesa, eccetto l’ozono, che rappresenta un problema prettamente estivo, in quanto scatenato dal sole.
I dati lombardi sono analoghi a quelli del resto della pianura padana, dove in termini di media mensile dei dati rilevati in gennaio storicamente, la concentrazione dell’ossido di carbonio si è ridotta così come si è ridotta, anche se in modo meno sensibile, quella dell’ossido di azoto. Il biossido di zolfo (prodotto da gasolio e carbone) dalla seconda metà degli anni ’50, quando ancora era prevalente l’uso del carbone per il riscaldamento domestico, è diminuito del 1.100%, e tuttavia è ancora una componente dell’inquinamento attuale.
Le polveri sono diminuite in generale, ma va considerato che il PM10 è monitorato solo dal 1997, e sappiamo che questo rappresenta 80% delle polveri totali. E’ in calo il benzene che dal 1994 ad oggi si è ridotto di quasi il 400%.
La ragione di questa situazioni non ha una spiegazione unica, ma deriva da diversi fattori: la metanizzazione ha ridotto drasticamente l’uso di carbone, esattamente come a Londra si eliminò lo “smog” all’inizio degli anni ’50 dopo la proibizione dell’uso del carbone.
In termini statistici è ormai assodato che ad un picco di inquinamento corrisponde un picco di ricoveri ospedalieri ed un correlato aumento del tasso di mortalità.
C’è una corrispondenza sicura fra il traffico, specialmente pesante, e picchi di IPA (Idrocarburi Policiclici Aromatici) . I veicoli diesel sembrano i maggiori responsabili dell’inquinamento da traffico, ma in realtà il PM10 trova origine da diverse fonti. Le emissioni primarie di PM10 sono quelle più evidenti, ma visto che primarie sono quelle prodotte direttamente dalla combustione e che possono essere bloccate dai filtri, mentre hanno importanza anche quelle secondarie, ovvero date dai gas di scarico. Ora più è alta la concentrazione di PM10, più è importante la quota di emissioni secondarie. Per questo il blocco temporaneo del traffico colpisce direttamente il primario che in un giorno si riduce anche del 30%, ma influisce solo in tempi più lungi sulle emissioni secondarie. In questo senso il blocco non ha ovviamente un effetto risolutivo, ma costituisce un contributo rilevante alla riduzione degli effetti dell’inquinamento. Le fonti di PM10 primario per importanza di quota vengono stimate dalle Agenzie Regionali per l’ambiente secondo INEMAR, la speciale struttura che in base al bollettino petrolifero che rileva con certezza i consumi di benzina, consente di calcolare con modelli matematici i fattori di emissione:
a) primario: diesel 32%; legna 32%; altre fonti 20%
b) secondario: 50% traffico
Non deve stupire il dato relativo alla legna, che se quasi scomparsa dalle grandi aree urbane come combustibile da riscaldamento, ha trovato nuovamente largo uso nelle zone montane e pre alpine grazie alla diffusione delle stufe ad alto rendimento.
Il traffico resta un elemento decisivo, su cui molto si sta facendo con il miglioramento delle tecnologie, basti pensare alla progressiva del fattore di emissione per km percorso, che per un’auto “euro 4” è ridotta a 0,8 per km, mentre per un motore diesel tradizionale arriva a 30 per km, in termini di PM10 ma anche di biossido di azoto.
Purtroppo l’incremento delle immatricolazioni di vetture diesel ha compensato in negativo i miglioramenti raggiunti sui motori a benzina. Di qui la polemica sulla richiesta di introduzione del filtro anti particolato, sul quale è in corso un vero braccio di ferro fra costruttori e governo, con i primi che sono disposti all’introduzione, ma a patto di significativi contributi governativi per l’adeguamento degli impianti produttivi. Si tratta peraltro di un elemento importante ma non conclusivo, se si considera che i filtri abbattono il PM10 ma non IPA e tutti gli altri inquinanti.
Va detto che la riduzione di polveri da traffico non è possibile al 100%, ma va ridotta tendenzialmente, considerando che se è vero che l’indice di produzione di polveri per tipo di veicolo è quella che segue (in mg per km percorso):
– euro 0 sotto 3,5 ton 198
– euro 0 gasolio sopra 3,5 ton 571
– auto euro 4 benzina 0,8
– mezzo ATM con retro fit 150
– motociclo 4 tempi euro 1 15
il puro attrito produce 0,8 mg per km di polveri, e in qualche misura questo è ineliminabile, visto che avviene anche per una bicicletta.
Preoccupa poi la considerazione che una quota del PM10 secondario sia composta da ammoniaca, il che si spiega probabilmente con la presenza di tale elemento in agricoltura nei fertilizzanti usati nelle campagne. Si tratta quindi di un fattore sul quale risulta particolarmente difficile impegnativo intervenire, vista la lunghezza della catena che lo produce. La conseguenza è che solo in Lombardia, rispetto a Milano ed al suo traffico che hanno 116 come indice di PM10, Lodi ha indice 133, e Cremona 113.
La Lombardia presenta quindi una situazione complessa e sfavorevole, con condizioni meteo sfavorevoli, al pari delle regioni più colpite d’Euorpa come la Ruhr in Germania, per motivi simili ai nostri. Esistono però anche situazioni come quella del Belgio, la cui alta concentrazione di PM10 viene attribuita con certezza per la presenza di un alto livello di cadmio, a polveri portate dai venti dell’est, in particolare dalla Polonia. Altrettanto dicasi per la concentrazione registrata in Spagna di polveri provenienti dal Sahara. Purtroppo il PM10 delle nostre regioni è tutto nostro, e per questo in sede comunitaria saremo sanzionati, con circa 500 milioni annui di mancati trasferimenti da UE, per il supermento permanente dei livelli ammessi di concentrazione di PM10.
Ci sono strumenti per fare interventi strategici, che però possono essere solo il frutto di scelte politiche coraggiose: la decisione di questi giorni a livello di governo nazionale di bruciare olio combustibile per compensare il molto reclamizzato mancato apporto del gas russo, ci riporta indietro di vent’anni. Questa decisione non è giustificata dalla situazione attuale, alla fine di un pur rigido inverno, ma è direttamente funzionale alla difesa di interessi petroliferi ed automobilistici.
Altrettanto strategica e frutto di mancanza di coraggio politico, è la scelta di continuare a puntare sulle autostrade per lo sviluppo della mobilità, invece di progettare nuove e più efficienti linee ferroviarie, come è il caso dei due progetti lombardi di cui si parla da anni.
Concludendo:
– c’è un trend positivo nel lungo periodo, ma con singoli picchi negativi stagionali
– la colpa è del sistema nel suo complesso, con responsabilità diffuse ad ogni livello istituzionale e decisionale
– serve una maggiore organicità degli interventi perchè c’è un livello di complessità ed interdipendenza tale che ogni azione va coordinata e graduata con attenzione
– serve una svolta nella produzione di energia: turbogas, eolico, solare, fotovoltaico, sono tutte realtà che permettono importanti risparmi, ma ad oggi sotto utilizzate, anche perché pur in presenza di importanti risparmi di sistema, gli incentivi (ad esempio 300 megawatt di credito nel conto energico per l’uso di queste formule) sono ancora più limitati delle risorse naturali disponibili; l’ultimo esempio è dato dalla Finanziaria che ha eliminato la possibilità di dare contributi a privati in materia di risparmio energetico, tagliando tutto lo sviluppo possibile all’utilizzo di energie alternative in ambito privato

Si deve insistere nell’adozione di piccoli ma costanti e precisi interventi tesi ad ottenere risultati a lunga scadenza, anche se si deve dare per scontato che gli effetti non saranno lineari, perché ad ogni azione spesso corrisponde una reazione inattesa, non ostante il perfezionamento dei metodi matematici utilizzati.

Il saldo di chiusura dei centri urbani al traffico è solo parzialmente positivo, perché pur con qualche risultato al centro, la congestione nelle aree periferiche compensa in negativo. L’effetto più importante anche se minimo e di lunghissimo periodo, sta nella scoperta dell’uso dei mezzi pubblici o comunque di mezzi alternativi all’auto, il cui uso si riduce a lungo termine.

L’uso del bio diesel ha un senso limitato e non un impatto di sistema , visto il suo impatto ridotto per la possibilità di produzione limitata per legge, e perché il ciclo industriale di tale combustibile ha un costo analogo a quello del diesel tradizionale, ma risulta favorito dagli sgravi fiscali. L’adozione da parte dei mezzi dell’Azienda Tranviaria si è accompagnata all’adozione dei filtri anti particolato sui mezzi, ma purtroppo l’esempio non è stato seguito dalle altre amministrazioni pubbliche che incidono sul nostro territorio.

Il problema dell’inquinamento da traffico sta anche nei fattori esterni, per i quali esistono molti tentativi di analisi.
A livello di sistema la fine del modello della fabbrica fordista, e l’adozione del sistema Toyota del “just in time”, ha fatto sì che nell’odierno sistema produttivo l’industria non produca più per il magazzino, ma per la consegna immediata. Grazie al contemporaneo sviluppo dei sistemi di gestione dell’informazione, che hanno fatto nascere la logistica come sistema di gestione e controllo del movimento merci, questo si è tradotto in un enorme aumento di traffico di piccoli veicoli commerciali, spesso diesel, per le consegne rapide.

A livello strettamente politico, leggendo il primo documento del candidato sindaco del centro – destra, non può non risaltare il fatto che i primi 10 “progetti” siano di tema, ambito e persino linguaggio ambientalista. Forse c’è un pericolo di confusione delle identità su questi temi, ma è certo che senza una politica di scelte radicali e coraggiose, la sinistra non sarà più riconoscibile come tale neanche sulle tematiche ambientaliste, sulle quali riesce a sembrare più radicale ed innovatrice l’amministrazione Formigoni.

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