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La Fabbrichetta

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MILANO CHIAMA L’ASSICURATORE

September 30, 2015 By admin

Francesco Bizzotto
Già Ufficio Studi FIBA CISL

Da alcuni anni alcune persone di diversa estrazione, ma accomunate dalla passione politica e dall’esperienza assicurativa, hanno messo a disposizione le loro competenze, dando vita all’Ulivo delle Assicurazioni.
Il riscontro purtroppo non è stato positivo: i partiti sono refrattari a recepire competenze che non possano essere strumentalizzate e quindi non hanno dato la sponda che ci si aspettava.
Quella delle competenze è la questione della società civile, nel senso che una società civile organizzata pone la questione della rappresentanza in modo alternativo rispetto a quello proposto dai partiti.
Nella professione assicurativa ci sono ampie riserve di competenza, benché poco conosciute tanto a destra che a sinistra, a causa di una scarsa considerazione in cui la politica tiene la cultura d’impresa in generale e quella del rischio in particolare.

Il settore assicurativo ha una ricca produzione di cultura aziendale, ad esempio nel CINEAS “Consorzio Universitario per l’ingegneria nelle assicurazioni”, all’interno del quale Politecnico di Milano e industria assicurativa promuovono lo studio ingenieristico del rischio (risk engineering) con la tecnica propria della gestione degli eventi dannosi (loss adjusting). Il tutto arrivando anche alla produzione di corsi formativi per attività di servizio a tutto vantaggio della collettività, quali quelli di “Hospital Risk management”.
Il mondo assicurativo sta cercando in molti suoi settori di abbandonare l’autoreferenzialità ancorata al passato nella misurazioni dei rischi, che è entrata in crisi.

Da esperienze innovative di questo genere possono venire dei suggerimenti per l’amministrazione cittadina, che sia di stimolo per un nuovo approccio comune fra compagnie e cittadini ai problemi legati alla copertura dei rischi. In questo senso molto interessante sarebbe l’idea che il comune spinga le compagnie a proporre nell’area metropolitana forme di copertura veramente ampia (cosiddetta all risk), che non si basi sul tradizionale rimpallo fra garanzie ed esclusioni, ma copra per intero una categoria di rischi. Se si prova ad applicare questo approccio alle polizze dei condomini, si ha un’idea immediata di quale ritorno possa esserci per i cittadini intermini di maggiore sicurezza. Infatti insieme amministrazione e cittadini investirebbero in una iniziativa di lungo periodo, volta all’equilibrio ed alla stabilità di un importante settore della vita cittadina, tale da favorire il controllo di una serie non trascurabile di rischi.

Oltre che per progetti particolari come questo, gli assicuratori cittadini, che sono molti ed importanti non solo all’interno della categoria, potrebbero essere chiamati dalla nuova amministrazione a partecipare ad un tavolo nel quale far convergere la ricerca di soluzioni a problemi di ordine generale della città.
Il traffico ed i suoi legami con la copertura assicurativa per antonomasia, quella di RC auto, ma anche i temi dell’autosufficienza, che possono vedere un approccio multidisciplinare fra volontariato, istituzioni e privati, limando gli sprechi dovuti alla cronica duplicazione di interventi, ed arrivando fino quasi a fornire uno sportello unico delle soluzioni a questo grave problema tipico della città che invecchia.
Il mondo assicurativo ha in sé competenze e cultura che possono permettergli di essere utilmente messo se non al servizio, quanto meno in sintonia con una nuova politica di una nuova amministrazione cittadina.

Dobbiamo capire cosa può fare l’amministrazione per ridurre veramente i rischi dei cittadini, all’interno di una politica vera dell’emergenza. Probabilmente il primo compito dell’amministrazione è quello di prevenire ed informare: cercare di prevenire le situazioni di rischio, e nel contempo dare il massimo di informazione e trasparenza su questi temi.

Nell’economia nazionale la componente assicurativa milanese ha un peso molto rilevante, che non ha un adeguato ritorno verso la città. A Milano vengono sottoscritti, a seconda delle valutazioni, fra il 20 ed il 27% dei contratti di assicurazione che annualmente si accendono in Italia. Cosa resta di questo a Milano: sempre meno in termini occupazionali, benché non sia ancora cominciata una vera delocalizzazione, ma soprattutto molto poco sul piano sociale.

C’è anche una visione meno ottimistica del mondo assicurativo, che è sempre più improntato alla logica del breve periodo ed all’assorbimento nella logica finanziaria di quella che dovrebbe essere un’industria di servizi. Esistono dubbi che effettivamente azionisti e manager vogliano e possano impegnarsi in iniziative che non rientrino nella loro visione di immediato ritorno di utilità.
 
Nota per La Fabbrichetta di Francesco Bizzotto
 
Il mercato. Premi incassati ogni anno in Italia: 100 miliardi di euro (65 Vita, 18 RCA e 17 altri rami Danni). Per il 12,5% (Vita), 11,1% (Danni) e 7,3% (RCA) in provincia di Milano.
Riserve e investimenti per 500 miliardi.
 
Tipico servizio della Società, con la sua mediazione ha reso possibile l’iniziativa individuale (che esplora la possibilità, rischia). Non si contrappone ma aggiunge valore alle Comunità.
 
Le domande. Quale servizio è in campo a Milano? Quali innovazioni sono mature, necessarie? Cosa ritorna alla città in termini di investimenti? È possibile un dialogo che apra allo sviluppo e associ l’assicuratore, soggetto di Welfare e investitore istituzionale di equilibrio (il suo 1° interesse)?
 
Sì. Su tre terreni in particolare Milano chiama l’assicuratore a crescere e innovare:
Aiutare di più le nostre IMPRESE che competono nel mondo: con polizze All Risks e con informazioni sistematiche sui rischi specifici (in Usa l’80% degli assicuratori promuove servizi di completa gestione dei rischi; in Inghilterra il 30%; in Italia il 6%).
Definire una nuova polizza SALUTE per la FAMIGLIA, che consenta di scegliere differenze di prestazioni nel pubblico (solventi): per personalizzare la cura, premiare le eccellenze mediche e far affluire risorse agli ospedali. Una polizza che preveda e incentivi percorsi di Prevenzione.
Ripensare la RCA. Il sistema di Indennizzo diretto è buona occasione per: assicurare la Patente e legare la dinamica del premio al comportamento di guida (il vero rischio) anziché al sinistro (il caso); investire in Prevenzione (Francia); Assistere nel sinistro (intervento immediato).
VIVIBILITA’. L’assicuratore ha un preciso interesse alla salute dell’uomo e dell’ambiente. È l’attore di mercato per eccellenza di questi equilibri. Come coinvolgerlo? Ascoltarlo, parlarne!

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POVERI EQUILIBRISTI -Sintesi dell’incontro con don Roberto Davanzo, Direttore della Caritas Ambrosiana, a LA FABBRICHETTA di via Pepe 38- Mercoledì 19 ottobre 2005

September 30, 2015 By admin

P.Vito Antoniazzi presenta don Davanzo. Assistente regionale dei boy-scout’s,poi parroco alla Fontana e da 10 mesi Direttore Caritas,un osservatorio “privilegiato” rispetto alle povertà, ai problemi della città…
“10 mesi sono pochi per una realtà come questa-attacca don Davanzo- sto imparando…Persino la “giornata mondiale della povertà”,inventata da un prete e fatta propria dall’ONU,mi era sconosciuta. Del resto in Italia non molti la celebrano. C’è “Terre di Mezzo” una delle realtà che lavora con gli homeless (un’altra che promuoviamo noi è “Scarp de tennis” con l’idea di tenere viva un’attenzione culturale e di dare insieme lavoro a questo popolo fragile) che l’ha onorata con “la notte dei senza fissa dimora”, una notte all’aperto in piazza S.Stefano il 17 ottobre.
Io non mi entusiasmo troppo per “gli eventi”,per gli spettacoli (nemmeno per le adunate oceaniche…). Mi sembrano episodici,quasi che poi il giorno dopo il problema non ci sia più oppure sia solo “affar nostro”, di “delegati permanenti all’emarginazione”. Non voglio essere “il cerotto” per l’occasione. Certo è però che secondo la retorica dell’amministrazione ci sarebbero più posti letto contro “l’emergenza freddo” che domande. Figuriamoci! Se vai a vedere di 1660 posti annunciati, 1500 sono quelli stabili,già occupati tutto l’anno…
Qui c’è la prima questione da porre. L’Ente locale deve assumersi responsabilità, deve avere uno sguardo complessivo. La Legge 238 del 2000 prevede che l’Ente locale apra un tavolo col Terzo Settore, con il no-profit per discutere la Programmazione dei servizi.
Solo ora, al secondo biennio di Piani,il Comune di Milano,stimolato dalla Regione, chiama a un tavolo il Terzo Settore. Ma con incertezza e poca voglia di ascoltare.
Su 1100 parrocchie della Diocesi Ambrosiana (oltre a Milano,Lecco,Varese,Treviglio) abbiamo 800 Caritas,ma soprattutto abbiamo 260 Centri di ascolto che ogni settimana sono aperti ai problemi della povera gente (di tutti i colori e di tutte le religioni). I comuni si facciano aiutare dal terzo settore non per una sorta di pancooperativismo che punti a gestire tutti i servizi,ma prima di tutto per capire la domanda.
Seconda questione : la sicurezza è diventato un tema esplosivo. Un tema spesso “emotivo”, enfatizzato, che fa paura e paralizza. Mi è capitato ultimamente di occuparmi di Rom. Assicuro che non c’è niente di poetico e letterario. Però la risposta non può essere “la cultura dello sgombero”.
Persino questore e prefetto l’hanno detto: è inefficace ed antieconomica pure. Ci vuole integrazione,ma non è facile. Bisogna lavorare sull’educazione,sui giovani e conoscere la loro tradizione.
Luca Gadola racconta dell’esperienza di “tolleranza zero” in Canton Ticino (sassi nei campi dove si accampavano..):fallimentare. Esperienze positive sono state invece dove l’amministrazione svizzera ha cercato di facilitare il recupero di tradizionali attività artigiana.
Massimo Cingolati , a conferma dell’enfasi sulla sicurezza,dice che le assicurazioni (che basano le loro tariffe sulle statistiche e le probabilità di evento) riducono ogni anno le tariffe sui furti a milano,mentre aumentano in altre località.
Davanzo ricorda l’esempio coraggioso della Amministrazione di Rho che si è assunta la responsabilità di un campo per i Rom anche in presenza di un referendum contrario leghista.
Occorre creare una rete informale di solidarietà,di prossimità. Milano ha ancora tante risorse umane in questo senso. Non è tollerabile che nell’estate scorsa a Milano ci siano stati 29 anziani trovati morti in casa loro dopo diverso tempo (mentre nello stesso periodo nell’hinterland ci sono stati solo 2 casi simili). Lo stesso carcere non riesce nella sua teorica missione di rieducazione. Persone che escono dal carcere(o potrebbero uscire se…) non hanno casa, lavoro, nessuna rete relazionale che li aiuti. Ci sono stranieri “fragili”, ci sono sofferenti psichici, ci sono disabili destinati a rimanere soli (e i parenti si pongono il problema del “dopodinoi”).
Ci sono per fortuna esempi virtuosi. Condomini solidali,comuni che si mettono in rete e assumono responsabilità,tanta gente che cerca di lasciare meno sole le persone in questa città.
 

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“STRADE NUOVE NELL’URBANISTICA MILANESE”

September 30, 2015 By admin

Incontro con il prof. Alessandro Balducci,
Direttore del Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano.
 
Se quella della Fabbrichetta è almeno in parte la scommessa generazionale sulla possibilità di ritrovare una sintesi tra competenza tecnica e passione politica che ha costituito per esempio la forza di quel “socialismo municipale” milanese di inizio secolo che così tanto ha caratterizzato le istituzioni locali, Alessandro Balducci è tra i più qualificati ad intervenire. Non solo per il suo brillante percorso professionale, ma per la lunga e coerente attività pubblica, dagli esordi con la tesi di laurea sui primi passi di Berlusconi (pubblicata dalle Acli “Dal Parco Sud al cemento armato”), alla sua esperienza come giovanissimo consigliere comunale di San Donato, alla sua presenza nei momenti di forte partecipazione alle scelte urbanistiche in diverse aree cittadine.
In effetti senza risalire toppo indietro nel tempo, alcune recenti esperienze alimentano la mia relazione:
– la redazione del Libro Bianco sulla casa per il Prefetto di Milano
– lo studio di fattibilità per il Fondo Sociale Immobiliare della Cariplo
– il Progetto per il Villaggio Urbano alla Barona
– i Contratti di Quartiere per il Comune di Milano
– il progetto Città Sane

Il problema della casa ha tali caratteri di drammaticità da rivestire un ruolo centrale nella vita cittadina, ma è praticamente scomparso dalle agende politiche. In parte per la scomparsa dei partiti stessi, ma anche per il mutamento cittadino che ha realizzato di fatto l’espulsione dalle città delle categorie che esprimevano tradizionalmente il bisogno della casa.
Per verificare questo mutamento è sufficiente confrontare una fotografia aerea di Milano oggi con quella di trent’anni fa, e verificare come dall’esistenza evidente di una città costituita da centro e periferia, si è passati a quella nebulosa di cui già ci ha parlato Stefano Boeri in un suo precedente intervento. In questo passaggio si è verificato lo spostamento non solo da Milano, ma dalla Provincia di Milano, a vantaggio di Bergamo, Lodi, Lecco, tutte Province limitrofe, che hanno aumenti di popolazione nell’ordine del 10 % negli ultimi vent’anni. Questo il motivo quantitativo per cui il problema della casa non si concretizza a Milano in una domanda politica significativa.
Ma c’è anche un aspetto qualitativo, perché la domanda si è fatta più articolata, inglobando accanto all’evoluzione delle forme tradizionali della domanda abitativa, anche forme nuove di disagio.
Anzitutto si registra un fenomeno di rischio, una vulnerabilità nuova che colpisce fasce ampie del ceto medio, che per evitare nuove forme di strozzamento economico, devono assolutamente farsi ascoltare dalla città. Ci sono poi, con una grande varietà di casistica, forme di disagio rispetto all’accesso all’alloggio e vere e proprie forme di esclusione per i casi più marcati e duri, come quelli degli immigrati, delle tossicodipendenze.
Di fatto i numeri dicono che in pochi anni a Milano si è passati dal 50% delle case in affitto a solo il 20% , che si compone di un 5% di forme di affitto dalla mano pubblica, che si trasformano per la loro durata e resistenza in forme di quasi proprietà, e di un 15% che si ricicla sul mercato, ma solo per una fascia particolare, caratterizzata dall’ampia disponibilità di spesa e dal prezzo altissimo.
A fronte di questo cambiamento epocale, la totale disattenzione della politica cittadina, che nei tre bandi dal 1997 ha ricevuto 17.000 domande nel 1997, 12.000 nel 1999, ed ancora nel 2003 di fronte a 9.000 sfratti per morosità e 2.000 per finita locazione, ha offerto 495 nuovi alloggi comunali di edilizia sociale e 1.300 assegnazioni di case popolari. Le assegnazioni finiscono per testimoniare lo stato di difficoltà, perché le poche case che si liberano finiscono per essere assegnate alle persone che sono portatrici di gravi situazioni di disagio, quali la presenza di malati lungo degenti o portatori di handicap
Il patrimonio complessivo ammonta a 42.000 alloggi ALER e 20.000 del Comune di Milano, all’interno dei quali la popolazione ha un invecchiamento anche superiore alla già alta media cittadina, cui si aggiungono i problemi dati dall’abusivismo, nell’impossibilità per l’ALER di fare controlli. I motivi stanno in una scarsa efficienza storica dell’ente, visto che altre realtà analoghe in Lombardia, per tutte Brescia, funzionano relativamente bene.
Il cambiamento della città che si accompagna non è governato con gli strumenti esistenti, quali il Piano Regionale per l’Edilizia Pubblica o il Piano di riutilizzo dei Fondi Gescal, che risale al Ministro Nesi alla fine degli anni novanta. Infatti se con questi strumenti si sono potuti attivare alcuni fenomeni virtuosi, come alcuni bandi, i contratti di quartiere, è certo che la situazione complessivamente presenta troppe lacune. Ad esempio solo il piano Lombardo prevede un fabbisogno di 60.000 case, per le quali gli unici interventi sono dei programmi di facilitazione dell’accesso al mutuo.
In definitiva la rilocalizzazione della popolazione trasferisce costi enormi, senza dare benefici corrispondenti. Infatti il differenziale fra prezzo pagato per l’abitazione fuori città finisce per essere largamente compensato dai costi evidenti (trasporto) e da costi occulti, primi fra i quali il tempo e la qualità della vita. Si è creato un modello dissipativo di risorse, difficilmente controllabile. Certo non si può dire che si tratti di un fenomeno che non abbia alcuni aspetti positivi, soprattutto in prospettiva, ma al momento prevalgono le criticità.

A fianco della trasformazione del problema della casa, sta la trasformazione del vivere la città, in particolare in relazione ai quartieri cittadini.
Secondo alcune ricerche di Ilvo Diamanti sulla sicurezza, nell’attesa di sicurezza da parte delle popolazioni del nord Italia, cresce la parte riservata alle relazioni di tipo individualistico (famiglia – lavoro) a scapito dell’attesa di risposte provenienti dalle relazioni sociali ed istituzionali.
Ne sono esempi evidenti le situazioni che si creano in molti quartieri dell’area metropolitana di Milano. Uno per tutti un quartiere urbanisticamente bello e ricco di verde pubblico come il Sant’Amborgio a Milano, che vede una forte difficoltà nella vita di tutti i giorni, fra una popolazione invecchiata e la difficoltà dei giovani e giovanissimi di vivere normalmente in situazioni di degrado sociale e di insicurezza.
Milano è stato sempre storicamente una città di quartieri, che davano un senso di identificazione molto forte, accompagnando realmente tutta la vita dei cittadini. Oggi nei quartieri si sono anzitutto svuotati quei meccanismi intergenerazionali a cui si dovevano molti fenomeni di appartenenza. Anzitutto nei quartieri la mobilità è molto bassa, sino ad assistere a fenomeni di invecchiamento collettivo di interi quartieri che si erano popolati inizialmente di famiglie estremamente omogenee. Si è quindi assistito alla trasformazione dei circoli scolastici in comprensori, alla riduzione del numero dei Consigli di Zona e delle sedi ASL, e così la ridotta capacità economica della macchina comunale ha allontanato ed in molti casi del tutto eliminato la presenza ed il supporto del settore pubblico.
La crisi del modello del quartiere è diventata quasi irreversibile per questi fenomeni di eliminazione dei servizi di prossimità, proprio mentre invece si è data grande eco ad aspetti repressivi della risposta al bisogno di sicurezza, quali il vigile di quartiere e la polizia di quartiere.
Come per la casa, anche per i quartieri è importante distinguere le aree di intervento: per la casa il rilancio dell’affitto per dare nuova sicurezza ed aspettativa di vita migliore, e riduzione del disagio sociale, per il quartiere la valorizzazione di aspetti apparentemente esteriori diventa valorizzazione della vita civile e recupero di spazi di vivibilità altrimenti non riconquistabili. E’ essenziale non continuare a ripetere gli errori del passato, come si è fatto ancora una volta al quartiere Sant’Ambrogio, dove gli spazi commerciali sono stati vandalizzati e ripristinati più volte, ma senza mai pensare un intervento che li mettesse al riparo dai vandali rendendoli vivi e funzionanti. Avrebbe sempre senso un piano di recupero ed inserimento di dimensioni poli funzionali, non come fatto a Ponte Lambro nel progetto di Renzo Piano.

Per chi osserva anche la realtà internazionale è evidente che una delle nostre particolarità sta ad esempio nell’incapacità di mettere d’accordo diverse istanze istituzionali e nella perdita da parte della politica della capacità di mediare fra interessi e bisogni. Un esempio concreto: a Madrid ad Atocha la municipalità ha realizzato un nuovo polo dei trasporti eliminando le orrende e intasate sopraelevate, ed integrando nella nuova sistemazione anche un polo di edilizia residenziale ed il Museo Reina Sofia. A Milano in questo momento, nella nuova area della Fiera a Rho, assistiamo alla realizzazione di due stazioni dell’Alta velocità e della Metropolitana, distinte e lontane fra loro oltre 1 km. La politica dovrebbe recuperare la capacità di coordinamento degli interventi, che sono sempre più monolaterali, nel senso che hanno un solo protagonista, proprio per la sopravvenuta impossibilità di trovare accordi fra diversi interessi. In questo modo si perdono gradi opportunità.

Un esempio di uso mirato delle risorse è dato dai contratti di quartiere, un istituto che per chi lo ha voluto e vissuto è rapidamente passato dalla fase iniziale delle minacce a quella del giubilo popolare per le realizzazioni, come nel caso di Cinisello Balsamo.
I contratti di quartiere a Milano si sono concretizzati in un finanziamento di 220 milioni di € sui cinque quartieri a proprietà pubblica, con il fine di evitare che una volta finanziato l’intervento, il Comune ne abbandoni il controllo in senso sociale e non strettamente contabile.
Per fare questo si sono programmati interventi articolati di:
– inserimento di attività economiche
– rifacimento di alcune tipologie di appartamenti ormai obsolete
– inserimento di progetti sociali
– riqualificazione del verde
– partecipazione dei cittadini alle scelte ed alle realizzazioni

Questa tiplogia di intervento nasce dai programmi Urban della UE, che partono dal presupposto che senza dare agli abitanti un senso di appartenenza, non si riesce a cambiare lo stato di degrado delle città. La dimensione contrattuale per il coinvolgimento degli abitanti sarebbe un requisito necessario nei bandi di concorso.
Un comitato di sorveglianza coordina gli interventi ed arriva anche a gestirne la realizzazione. Gli interventi possono essere i più diversi, ed andare dalla trasformazione di spazi pubblici inutilizzati in spazi di servizio, all’affidamento a cooperative di giovani dei servizi di trasloco interni al quartiere.
Il risultato viene raggiunto nella totale assenza della macchina comunale tradizionale, che non è minimamente coinvolta. Ad esempio a Milano benché quattro dei cinque quartieri interessati siano all’interno di una sola zona, il Consiglio di zona non solo non ha alcun ruolo nel contratto, ma non se ne è nemmeno interessato.

Se si cercasse una risposta in termini politici, c’è invece una connessione fra problemi della casa e problemi dei quartieri, perché costruendo una politica vera della casa si potrebbero affrontare anche i disagi dei quartieri. E vero che quella della casa non è una questione solo di livello cittadino, ma è anche vero che non ripetendo gli errori del passato (PRU) una migliore selezione degli interventi può consentire un utilizzo migliore delle risorse disponibili.
A dimostrazione e conclusione l’esempio del Fondo Sociale Immobiliare Cariplo, che pur restando nei limiti statutari delle proprie obbligazioni istituzionali, ha sostenuto progetti di edilizia sociale, garantendosi la possibilità di finanziare al 4% il capitale investito (al netto del costo dell’area). Posto che nel passato c’erano costruttori di nicchia capaci di ritagliarsi un ruolo ed una remunerazione proprio nella costruzione di edilizia sociale, questo dimostra che anche oggi è possibile operare in questa fascia con interventi che senza essere speculativi, siano economicamente sostenibili.

Il costo sociale della delocalizzazione in provincia potrebbe essere maggiormente evidenziato, per sottolineare i problemi ed i disagi sociali che questa comporta.

Assistiamo nel campo del valore delle aree edificabili e già edificate, ad un rafforzamento della rendita di posizione per chi possiede aree cittadine, o ne ha fatto scambi con aree semi centrali, ottenendo in cambio vantaggi urbanistici. La rendita su questo tipo di area ha assunto dimensioni oggi imponenti., che erano inimmaginabili sino a pochi anni fa.

Rispetto all’eccesso di terziario e davanti ai vecchi interventi degli anni ’80 sulle aree dimesse, sarebbe anche interessante valutare la possibilità di recuperare a fini abitativi molti immobili deserti. Questo non ostante la valutazione di Alessandro Balducci sulla sostanziale certa anti economicità di questo tipo di interventi (riconversione diretta da uffici ad abitazioni).

Anche gli investitori istituzionali privati come banche ed assicurazioni hanno abbandonato il loro patrimonio immobiliare, dimesso con forme selvagge che hanno premiato solo alcuni più fortunati. Infatti quelli fra gli inquilini che potevano rispondere ad offerte sostenibili, hanno acquistato, gli altri sono stati espulsi dalla speculazione successiva. E’ un segno della dimensione economica del problema della casa.

Permane una visione pessimistica sullo sviluppo della città, al di là delle volontà politiche che sarà possibile esprimere. Infatti il seguito del fenomeno di delocalizzazione descritto, sta nella sopravvivenza in città solo di una fascia di cittadini ricchi insieme ad una fascia di sostanziali manutentori della città stessa, al servizio delle attività economiche ed espositive e degli abitanti ricchi. Il ceto medio viene inevitabilmente espulso da una città nella quale la qualità della vita tende allo zero. La volontà politica delle amministrazioni passate si è esaurita nella politica degli annunci, e non ha capito che la qualità della vita non sta nel sistema del global service ma nel coinvolgimento dei cittadini.

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MAURIZIO AMBROSINI Professore di “Sociologia dei processi migratori” presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Statale di Milano

September 30, 2015 By admin

 
Riprende l’attività della Fabbrichetta con l’incontro con Maurizio Ambrosini, dal titolo “Da braccia a persone, il nodo della cittadinanza” . L’argomento è importante perché “in prima pagina” da alcuni anni,per il suo sviluppo quantitativo, ma anche per i provvedimenti governativi allo studio e quindi per le innumerevoli polemiche scatenate.
Il nostro taglio vuole sempre essere milanese, con la voglia di fare proposte, e quindi chiediamo ai relatori di aiutarci a fare emergere qualche idea, perché le città hanno bisogno di progetti anche al di là dello schieramento politico.
Il tema della cittadinanza è in questo senso centrale, e su di esso vorremmo coinvolgere altre associazioni ed istituzioni, con la voglia di trasformare in politica i progetti culturali, creando consenso ed aggregazione.
Cercherò di accogliere l’invito a far scaturire idee,anche se per chi fa il mio mestiere spesso è più facile fare analisi che proposte, ma sulla base di quattro considerazioni di fondo, qualche proposta potrà alla fine essere fatta.

1) Da braccia a persone
il titolo del mio intervento è significativo di una cosa che nella nostra città oggi possiamo dire di avere capito, a differenza di 15 anni fa: gli immigrati sono “utili invasori”, malvisti, ma che svolgono un’attività positiva nella nostra società. La rappresentazione che ci facciamo del clandestino è quella di un maschio, arabo, impegnato in attività losche dopo essere arrivato da noi con il barcone. I veri irregolari però sono statisticamente perlopiù donne, arrivate in aereo con un permesso di soggiorno in genere turistico e rimaste a lavorare in gran parte nelle nostre famiglie.
Qualunque cifra venga fatta sul numero di questi irregolari è falsa, ed è meglio cercare degli indicatori: agli sportelli delle poste in occasione dell’ultima sanatoria si sono presentati in 500.000, mentre a Lampedusa in un anno sono sbarcate 16.000 persone.
A fronte di questo fenomeno, lo strumento fondamentale di politica dell’immigrazione è stato rappresentato dalle sanatorie, cinque in quindici anni, più il movimento generato dal decreto flussi che costituisce un altro tipo di sanatoria.
Questi immigrati sono desiderati ma non benvenuti, perché vanno bene per alcuni lavori, ma certamente non come vicini di casa, o potenziali mariti delle nostre figlie, benché si sia piuttosto
verificato in proposito un fenomeno di matrimoni di maschi italiani con donne straniere (70% dei matrimoni misti).

2) La repressione delle irregolarità
Su sbarchi e repressione fioriscono i luoghi comuni: anzitutto non è vero che basti volerlo per rimandare indietro quelli che vengono intercettati, perché le garanzie personali proprie del nostro ordinamento liberale, rendono difficile l’espulsione immediata ed automatica. Si può essere più rigidi, come avviene a Singapore o in Nigeria, o in Kuwait, ma si tratta di paesi che lasciano a desiderare sotto il profilo della tutela dei diritti umani. Le scorciatoie in nome dell’efficienza si pagano in termini di diritti, come si è visto in occasione del coinvolgimento della Libia, il cui sdoganamento dall’etichetta di stato canaglia si è accompagnato con la disattenzione umanitaria su quello che viene fatto in quel paese ai migranti.
In secondo luogo c’è un argomento molto terra – terra: reprimere le irregolarità con le espulsioni costa moltissimo in termini di uomini e mezzi, ed in definitiva soldi. Già allo stato attuale delle cose la Corte dei Conti ha rilevato che per ogni euro speso dal governo Berlusconi per integrare l’immigrazione, se ne sono spesi due per le espulsioni. Espellere di più vorrebbe dire peggiorare ancora questo rapporto.
In realtà nessun paese civile è andato oltre la soglia del 15% di espulsione di immigrati irregolari individuati. Anche perché i paesi di origine pongono difficoltà ad accettare i rimpatri (servono appositi accordi, e neppure quelli sono a costo zero), e perché il 50% degli irregolari individuati viene rilasciato perché non è possibile fare un’identificazione certa della nazione di origine o perché manca un accordo di riammissione. I soldi poi si spendono male, e in modo casuale: pochi mesi fa a Genova si è fatta una retata espellendo a casaccio qualche decina di lavoratori irregolari ecuadoriani solo perché c’era un charter disponibile. Le autorità spesso sanno dove stanno i piccoli malavitosi, italiani e stranieri. ma preferiscono per varie ragioni non colpirli, utilizzandoli anzi per alimentare il circuito informativo.
A cosa servono le politiche repressive ? Ad assolvere ad una funzione deterrente e a una simbolica: la prima è un monito verso gli immigrati, la seconda tende a rassicurare la pubblica opinione sul fatto che i governi difendono i confini. A queste due funzioni è difficile rinunciare, così come ad esempio non si rinuncerà ai CPT.

3) Cittadinanza e diritti
Quando è esploso il caso Padova, l’allora ministro Fini ha espresso la certezza che 5 anni per arrivare alla cittadinanza sono pochi. Non a caso a Padova la giunta (ulivista) ha alzato il muro, ignorando che se ci sono spacciatori immigrati ci sono clienti cittadini.
La questione della cittadinanza nazionale muove corde emotive profonde. Michael Walzer ricorda che nell’antica Atene la cittadinanza era limitata ai maschi liberi ateniesi, escludendo le donne, gli schiavi ed i meteci: lavoratori stranieri ammessi in quanto utili, ma non riconosciuti come concittadini. Oggi nelle nostre società stiamo riproducendo questa situazione, ovvero una forma di tirannia di una parte della popolazione che vive in un certo territorio (i cittadini nazionali), prendendo le decisioni che riguardano anche un’altra parte (gli immigrati residenti stabili).
Negli anni sessanta nelle nostre città gli umori diffusi erano analoghi a quelli di oggi, ma l’oggetto erano i meridionali. Questi malumori sono rimasti però a livello di senso comune, senza arrivare ai piani alti della politica, perché quelli erano cittadini e votavano.
Il tema delle cittadinanza è importante al di là dell’effettiva propensione al voto degli immigrati, perché responsabilizza le istituzioni e ridefinisce i termini della solidarietà nazionale. La nostra identità è di tipo tribale, basata sui vincoli di sangue e sul legame familiare (si può facilmente diventare italiani per matrimonio).
La legge che ha alzato a 10 anni il periodo di residenza necessario per ottenere la cittadinanza è del 1992, approvata con voto unanime delle forze politiche. E’ una legge di chiusura etnica della cittadinanza, che aggiunge ai molti anni i tempi lunghi ed incerti di esame delle richieste, tanto più che il 50% delle richieste vengono respinte. E’ istruttivo il fatto che in tutto il mondo già scricchiola l’impianto dei 5 anni, criterio seguito in USA Francia e Inghilterra, mentre in Canada sono solo 3 ed in Australia addirittura 2.

4) Religione e identità nazionale
Si tratta di un tema molto ampio, che ha caratteristiche proprie anche al di là della questione della migrazione.
Nell’America del diciannovesimo secolo certe categorie di immigrati erano considerate non assimilabili nella società del nuovo mondo per motivi religiosi. Erano i cattolici, sospettati di obbedire ad un’autorità religiosa straniera, il Papa, ed alla gerarchia ecclesiastica, ed erano osteggiati ufficialmente e anche con violenza anche da apposite associazioni, frequentate persino da personaggi illustri come Samuel Morse, l’inventore del telegrafo. Però i cattolici, e gli ebrei dopo di loro, hanno costruito le loro chiese, poi vicino alle chiese le scuole e infine gli ospedali. Così sono diventati cittadini, elaborando un’identità americana rispettosa delle loro radici religiose.
E’ una vecchia storia che ritorna: l’identità nazionale viene messa in questione dall’identità religiosa. E’ ancora un fatto etnico: le nazioni europee sono sorte sul legame suolo –lingua- sangue – religione. Oggi è più difficile capire cosa ci tiene insieme, e allora anche la religione rischia di tornare ad assumere una funzione etnica, come collante che ci unisce contrapponendoci ad altri.

Sulla base di queste quattro considerazioni di fondo, quali sono le possibili proposte sul piano operativo ? Manca un impegno serio contro le discriminazioni etniche e religiose, impegno che dovrebbe trovare spazio anche a livello locale. Serve un’authority o un’apposita agenzia che individui e persegua le discriminazioni ai vari livelli.
Gli stranieri da noi sono quelli che fanno i lavori delle cinque P: Pesanti – Pericolosi – Poco pagati – Precari – Penalizzati socialmente.
Questo fatto entra indisturbato nella normalità della nostra vita, producendo gli stereotipi sugli stranieri, per cui per esempio i filippini sono considerati adatti ad accudire la nostra casa ed i nostri figli. C’è però un aspetto pericoloso: il passaporto finisce per determinare le attitudini. Così per esempio i sikh vengono impropriamente etichettati come abili custodi di vacche, per ragioni religiose, mentre nulla hanno a che vedere con il culto della vacca sacra.
Con o senza agenzia dedicata, un impegno istituzionale servirebbe per promuovere il riconoscimento dei titoli di studio e delle competenze acquisite dagli immigrati: per es., traducendo la documentazione, verificando i programmi di studio, aprendo negoziati con università e ordini professionali
La questione del diritto di voto è importante anche a livello amministrativo. Forse si potrebbe fare una battaglia per dare a Milano il diritto di voto agli immigrati almeno nei Consigli di Zona, che sono per di più organi a carattere consultivo. Nel programma della zona 9 c’è l’ipotesi di una consulta interculturale per avere un organismo che riconosca la presenza di quel 10% di immigrati censiti in zona.
Questo faciliterebbe il superamento dello stereotipo e l’aumento del dialogo.

La lingua è uno strumento essenziale su cui lavorare, perché è uno strumento di integrazione a basso costo, accosta all’identità locale. Che cittadino può essere quello che non parla la lingua locale ?

Quali cittadini creiamo con l’esclusione ? Come è possibile rifiutare la cittadinanza ad un bambino che è nato in Italia o che ha fatto tutte le scuole in Italia ?

Abbiamo una cultura capace di accogliere ? Il linguaggio, l’approccio tradiscono una scarsa cultura dell’altro.

Le politiche dell’immigrazione dovrebbero tendere ad evitare che si costituiscano nuovi ghetti, che sono in sé pericolosi e radicalizzano il problema.

Sul tema del diritto di voto ci sono state fughe in avanti (proposta Fini), ma del tutto sterili; il problema si sgonfia se diminuisce il tempo necessario per ottenere la cittadinanza, altrimenti il diritto di voto può diventare un passaggio intermedio, prima di accedere alla piena cittadinanza

La questione della lingua è essenziale, e facilmente affrontabile: si potrebbe pensare a un test per i candidati all’ingresso, preferibile ai corsi di formazione professionale all’estero, che hanno un sapore vagamente coloniale (presuppongono che nel resto del mondo non ci siano scuole e università in grado di preparare le persone) Dovrebbe anche includere l’educazione civica, la stessa che si dovrebbe studiare nelle nostre scuole, Diverso, e orrendo, sarebbe un test volto a sondare i valori: quali sono i valori che possono essere definiti come nazionali ? La polemica sarebbe lunghissima.

Circa la questione della cultura dell’accoglienza dell’altro, è vero che assistiamo a pratiche quotidiane di esclusione, anche a livello istituzionale, ma dall’altra parte ci sono mille iniziative che servono ad aggirare le difficoltà dell’integrazione.
Una di esse si è vista proprio sulla questione dell’accoglimento dei figli di irregolari nelle scuole: dapprima qualche preside, poi qualche provveditore, infine una legge dello stato.
Le seconde generazioni dovrebbero avere maggiori diritti e invece anche nella Francia della cittadinanza “di suolo” sono stati fatti passi indietro, ma si è anche visto in occasione dei disordini nelle “banlieues” che la cittadinanza non è una bacchetta magica. Infatti i fermati erano quasi tutti cittadini francesi
A Milano un bambino su quattro nasce con almeno un genitore “straniero”, questo impone la ricerca di percorsi di contaminazione interculturale.
Circa la questione dei ghetti, l’esperienza francese ed americana dimostra che i ghetti si creano per la fuga dei cittadini bianchi di fronte all’insediamento dei neri o degli immigrati. Le politiche giuste devono essere volte a creare quartieri che abbiano diverse componenti. Oltre al ghetto spaziale, c’è quello occupazionale: se ci saranno immigrati medici, giornalisti, insegnanti,ecc. e non solo manovali, domestici,portinai,… i loro figli saranno più accettati come compagni di scuola dei nostri figli a pieno titolo.

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LA “BANCA DEL VERDE” Una proposta presentata da Massimo Ferlini, Presidente di Compagnia delle Opere Milano, a La Fabbrichetta il 15 novembre 2006.

September 30, 2015 By admin

La “banca del verde” è innanzitutto un’idea, nata al tavolo di consultazione comune che Lega cooperative e Cdo hanno a Milano e da cui sono scaturite in passato iniziative come “OBIETTIVO LAVORO” (Agenzia per il lavoro interinale) e, più recentemente, il Consorzio per sviluppare il “cohousing sociale”.
Nella esperienza di Cdo ci sono i precedenti del “Banco Alimentare” e del “Banco farmaceutico” che raccolgono e ridistribuiscono sul territorio dove c’è il bisogno e dove ci sono reti di solidarietà di tipo vario.
L’idea è stata certamente stimolata dall’occasione del Bando progettuale della Provincia “Città di città” al quale concorriamo e di cui tra un mese sapremo l’esito.
Al confronto con altre metropoli Milano ha scarsità di verde. Gli ultimi grandi Parchi sono stati il Nord e il Forlanini. C’è la questione Parco Agricolo Sud che non sempre è in buone condizioni di vivibilità.
L’idea di Boeri e della Provincia di un “Metrobosco”,quella dell’Assessore Comunale Masseroli di una “cintura verde” (la cui fattibilità ha fatto studiare a Kippar), tutte vanno nel senso di collegare, di estendere il verde. Ma dove si trovano le risorse? Come si sviluppa la partecipazione?
Mi sembrano queste le due domande centrali a cui si vuole rispondere con la “Banca del Verde”. Da un lato vorremmo costituire una Fondazione,che sia “la cassaforte” del verde, quella a cui vengono conferiti (in donazione, in comodato) aree verdi per la loro piantumazione e manutenzione.
La Fondazione potrebbe raccogliere risorse,sia territoriali che economiche, da privati e da enti pubblici. Gli enti locali potrebbero trovare un patner che valorizza e mantiene aree pervenute a scomputo d’oneri per esempio. I privati potrebbero essere interessati sia ad un “risarcimento ambientale” (soprattutto per chi ha un’attività che consuma ossigeno o produce CO2,come chi usa carta,produce energia,vetro,combustibili,..) sia ad un’azione da inserire nel loro bilancio di responsabilità sociale.
L’attuazione dell’accordo di Kioto procede a rilento in Italia, ma la borsa del CO2 è attiva e i “Certificati verdi” (quelli connessi alle energie rinnovabili e che non consumano fossili) sono già in funzione. Mancano ancora i “Certificati Bianchi” quelli riferiti alla forestazione di aree.
L’altro nodo è quello della “partecipazione”. Dove si è “osato” i riscontri sono stati positivi. Per esempio nella gestione degli orti regolamentati. Per esempio in alcuni campi bocce dati ad anziani. Diversa è stata l’esperienza “Verde in Comune” a Milano, più una sponsorizzazione centralizzata, che un coinvolgimento del territorio. Ambientalisti, agricoltori, cittadini potrebbero essere coinvolti in un processo anche gestionale del verde che diviene vivibile, esperienza di responsabilità e vita sociale.
Cooperative sociali potrebbero lavorare alla manutenzione inserendo al lavoro persone svantaggiate. A partire da una scelta volontaria e di compensazione,può svilupparsi un grande progetto di responsabilità sociale ed ambientale i cui aspetti di comunicazione sono particolarmente significativi. Siamo al lavoro.
Puntiamo sull’area metropolitana, ma qualche progetto urbano non è escluso.
L’obiettivo è presentare a gennaio la Fondazione con le prime aree acquisite e con una struttura operativa. Tra un anno possiamo vederci a fare un primo bilancio.
 

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“QUALE SINDACO PER MILANIA ?”

September 30, 2015 By admin

Incontro con Piero Bassetti
alla Fabbrichetta, 1 marzo 2006

Piero Bassetti è stato protagonista di varie stagioni milanesi. Esponente di punta della corrente della “Base” DC (quella di Mattei, Marcora, Granelli…), è stato pluriassessore per sette anni con il sindaco Cassinis. Grande sostenitore del regionalismo è stato negli anni ‘70 il primo Presidente della Regione Lombardia. Presidente della Camera di Commercio negli anni 90 ha seguito le trasformazioni di questa città. A lui, a cui piace usare il termine “Milania” per indicare la nuova globalcity, La Fabbrichetta chiede di parlare di come Milano è cambiata.

“Mi piace parlare con gente che si fa domande,che cerca di capire e che crede ancora nella politica.
In fondo certi giornali come “il Foglio” o “il Riformista” sono un residuato di questa cultura:ma chi li legge ? Oggi i giornali vivono di pubblicità, in funzione degli inserzionisti. E la “telecrazia” non è il presente…è il futuro!!!
Sbaglia chi crede che siamo di fronte ad una “crisi” congiunturale.La “crisi” è mondiale, epocale. E quando cambia il mondo non puoi cercare i tuoi riferimenti nel passato, non puoi essere “retroverso”. Lo schema destra/sinistra non funziona più.. Invece se uno pensa a quale sindaco ci vuole, riparte da lì..ma è sbagliato.
E’ il punto centrale per la sinistra. Se si pensa di essere a sinistra rievocando i valori e le lotte del passato si sbaglia. Erano belle le lotte operaie…ma quegli operai non ci sono più, quelle fabbriche non ci sono più.
Può essere il Comune,l’istituzione l’elemento aggregante? Ma anche quel comune (quello in cui sono stato a lungo assessore) non c’è più. Ci vorrebbe una rivoluzione piuttosto che un amministrazione (altro che condominio!). Le cose vanno cambiate non “aggiustate”. La sinistra è più in difficoltà anche perché è fuori dal governo locale da parecchio tempo. Non conosce quello che si sta impastando,quello che sta lievitando,cosa si muove in città.
E’ cambiata la città e anche l’idea di città. Una volta la città era dove abitavano i cittadini,diversi dagli abitanti dei dintorni e della campagna. Una volta la città aveva un solo centro. Oggi la mobilità ha cambiato il rapporto funzione/territorio. Le elite non sono più sempre in centro… Questo movimento è in più direzioni. Non è vera l’immagine che Milano ogni giorno sia soltanto invasa da migliaia di “esterni” che la usano, le persone che escono dalla città in auto sono più di quelle che entrano ogni mattina!
Il successo delle Multisale fuori città è un esempio del cambiamento: una volta si andava al cinema in Vittorio Emmanuele, nessuno avrebbe pensato di andare a divertirsi a Melzo o Vimercate o Pioltello!
E così non si può fare il conto su 10.000 residenti in meno. La città si riorganizza,si distribuisce sul territorio. Se giovani coppie hanno trovato casa a Novate o a Peschiera o a Brugherio, sono per questo meno milanesi ?
Dobbiamo porci la domanda: cos’è Milano oggi, a cosa serve Milano oggi ?
Capitale morale ?di che ? E’ l’Italia il nostro riferimento ? E’ la regione ? E’ la Padania? E’ l’Europa?
Certo non si può pensare alla cinta daziaria.
Milano, anzi Milania , è una delle 10 più importanti città globali, ovvero un “nodo delle reti globali”,secondo una ricerca, fatta da noi e pubblicata da Bruno Mondatori. Non perché abbia il primato in alcune reti/settori, ma perché è eccellente in molti (nelle università, nella moda, nelle professioni,ecc.).
Certo il bacino va da Torino a Trieste. Torino Olimpica è anche un nodo di questa rete. Le appartenenze oggi sono più per comunità di pratica che per territorio. Persino i cattolici scelgono la parrocchia che preferiscono e non quella sotto casa…I figli (se escono di casa..ma questo è un altro problema) cambiano città, scelgono base al lavoro,all’opportunità,non in base all’appartenenza locale. Persino il tifo calcistico non è più localistico (la Juve ha,sempre più, tifosi anche a Milano…)
Le istituzioni sono per natura rigide, prendono atto (di solito in ritardo) dei cambiamenti,raramente li precedono. Non possiamo aspettarci troppo….”

“Eppure-interloquisce Pier Vito Antoniazzi-ci sono stati sindaci come Caldara che hanno anticipato,che hanno dialogato con la cultura scientifica, che hanno rappresentato una unità ed una identità solidaristica anche in momenti difficili come i tempi di guerra. Il Sindaco è sempre stato amato dai milanesi. Ha sempre goduto di una sorta di luna di miele. Tranne in questo ultimo decennio in cui la sensazione è stata quella di un autocrate,in dialogo solo con i poteri forti e piuttosto punitivo (vedi politica delle multe) nei confronti dei cittadini. Non possiamo tornare a sperare in un sindaco “amico dei cittadini” ?”
Le città hanno sempre bisogno di un simbolo,di una spinta emotiva. Ma non possiamo aspettarci una mamma di ieri che ci risolve tutti i problemi di oggi. Ci vuole un sindaco che interpreti la trasformazione nel senso sociale e popolare della sinistra. Non una persona organica ai poteri forti ma piuttosto qualcuno che cerchi ti trasformare l’assetto istituzionale. Da questo punto di vista un ex prefetto può avere le competenze giuste… Come si fa a ritrovare la fiducia ? Basterebbe che un sindaco riconoscesse le domande dei cittadini. Sarebbe la prima e più importante delle cose. Guardate Veltroni. I romani stanno facendo grandi cose. Non è il leader politico a realizzare grandi cose, ma è il catalizzatore, colui che comunica suggestioni. La più importante delle quali è la sensazione di avere un amministratore che capisce, che considera, che valorizza. Allora ci facciamo in quattro,perché questa è la volta buona…Certo il leader può essere anche negativo, proporti di non pagare le tasse (tanto fa i condoni). Una sorta di “bagulun del luster” ,letteralmente “il ballista del lustro da scarpe” come i milanesi chiamavano i venditori di fole,riprendendo l’immagine dai venditori ambulanti del lucido “BRILL”….
“Quale ruolo può avere l’Università milanese in questo cambiamento che è anche culturale?” chiede la professoressa Irene Buzzi Donato.
“Se guardiamo le classifiche Milano è una delle prime cinque in Europa per ricerca (soprattutto applicata ma anche teorica..). Abbiamo poli di ricerca avanzata,per esempio nella medicina.
-riprende il ragionamento Bassetti- Ma se devo chiedermi “questa sapienza è in grado di animare una politica culturale che nuovamente attragga verso Milano ?”, allora devo ammettere di essere dubbioso. C’è un eccesso “umanistico” nella cultura milanese, c’è,soprattutto a sinistra, un pregiudizio “antiscientista”. Ci aspetta una società del sapere… Milano deve mediare,connettere, il sapere. Milano è stata la prima nel mondo ad inventarsi l’ospedale. Questa idea di “Milano=grande famiglia”, Milano che accoglie, Milano che cura…va rinnovato altrimenti lo perdiamo”.
“Come sifa a ritrovare la fiducia smarrita ?” chiede l’architetto Francesco Florulli.
“E’ una sfida epocale!-ritorna sul tema d’apertura Bassetti- La risposta non è a Milano ma a Milania. Una “global city”, un nodo della rete globale. Non una ma tante reti. La moda certo ,dove noi abbiamo superato Parigi,aggirando l’haute couture con il nostro prait a portèr, la convention del design nel 2008,che oggi ci siamo fatti soffiare da Torino (anche se, forse, sempre Mlania è).
La Lirica per esempio,una rete importante,che non può vivere per i soli palchettisti.
Era bella quella Scala e quell’epoca,ma non possiamo restare agli amori di gioventù…
Bisogna amare Milano,recuperandone il passato e la vocazione ma cambiandolo per salvarlo.
E’ una vecchia consuetudine milanese, nulla si spreca, nulla si rompe. Si va cercando il bello, il diverso, il migliore senza buttare niente…”
 

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QUALE RUOLO PER I RAPPRESENTANTI DEGLI UTENTI NELLE AZIENDE DI SERVIZI DI PUBBLICA UTILITA’? IL CASO ATM.

September 30, 2015 By admin

Sintesi dell’incontro dell’8 novembre 2006 a La Fabbrichetta con Massimo Ferrari ,Presidente dell’Associazione Utenti Trasporto Pubblico e consigliere ATM Hanno preso la parola: Pier Vito Antoniazzi, Luca Beltrami Gadola, Giorgio Tacconi, Gian Luca Bozzia, Giorgio Poidomani, Bianca Bottero, Pier Paolo Artoni.
 
Introduce Pier Vito Antoniazzi.
 
Si è parlato e si continua a parlare di “privatizzazione” delle ex aziende municipalizzate. In realtà si tratta di situazioni diverse, dal trasporto pubblico che non potrà mai produrre profitti, all’energia, ai rifiuti,ecc. In generale però gli enti locali “non hanno mollato la presa”. Anzi, sembra quasi che “scommettano” su queste “piccole IRI” per contare di più sui “tavoli forti”. Il rischio è che questo dibattito perda di vista gli interessi dei cittadini. Che nessuno discuta la qualità dei servizi, il loro indirizzo. Ecco allora che proporre una “centralità” dei consumatori e utenti,magari con organi di controllo che possano incidere sull’amministrazione, potrebbe essere una rivoluzione copernicana.
Abbiamo invitato Massimo Ferrari perché è un esempio raro di rappresentante delle associazioni degli utenti che è dal 1993 nel Consiglio di Amministrazione dell’ATM. Come ci sei arrivato? Chi ti ha messo? Com’è la tua esperienza ? Massimo Ferrari: Fu proprio Pier Vito Antoniazzi, insieme a Paolo Hutter a propormi nel 1987 come consigliere ATM (la prima azienda pubblica milanese per occupati). Allora il Consiglio veniva votato dal Consiglio Comunale. Era la prima volta che invece dei 7 da eleggere,”concordati” tra i partiti (Presidente fu quel Prada poi inquisito), c’era un nome in più. Ci vollero più votazioni perché un consigliere non aveva il quorum,ma ovviamente non passai. Poi nel 90 Pillitteri approvò un regolamento che prevedeva un 25% di nomine indicate dalla società civile. Ma ci fu un errore di forma (la data) e le nomine vennero annullate. Nel 1993, indicato dall’associazione Utenti, fui nominato da Formentoni,insieme ad un altro “civile” indicato dall’Università. A sorpresa mi confermò Alberini nel 97 e nel 2001. Nel frattempo ATM ha cambiato pelle più volte: da municipalizzata ad azienda speciale prima e ad SPA poi. ATM è difficile da privatizzare perché non farà mai utili…L’indirizzo del Presidente Soresina (liberal-liberista) è soprattutto quello della razionalizzazione e del risparmio (soprattutto sul personale). Non siamo in disavanzo (come in passato) rispetto al budget fissato dai finanziamenti pubblici (che sono sempre in calo). Il 40% del bilancio coperto dalle tariffe,non è male. Siamo sul livello di bilancio di Parigi e meglio di Amsterdam e Bruxelles. Il Consiglio è un organo di indirizzo,non di gestione. Il Presidente è anche amministratore delegato. Io in questi anni mi sono battuto per la difesa del servizio pubblico. In particolare ho insistito sulla difesa del “sistema elettrico” (metro+tram+filobus). La diminuzione del costo degli abbonamenti (una sorta di “fidelizzazione” al trasporto pubblico). Abbiamo aumentato gli utenti,abbiamo difeso il traffico serale ed istituito nuovi servizi come il Radiobus(che abbiamo potuto realizzare solo con contratti diversificati,a termine).Le novità giuridiche (la Spa) ci consentono di partecipare ad altre società o concorrere in gare per la gestione di servizi e impianti. ATM gestisce oggi la funicolare di Como-Brunate per esempio. Certo si potrebbe fare ancora più nell’informazione…
 
Ci sono altre esperienze di rappresentanti degli utenti nei Cda ?
C’è un’esperienza a Genova ed in qualche altro centro. Ma più per cooptazione che per spinta di lotte e sensibilità civili. Non c’è nulla di paragonabile al peso che nelle Ferrovie Francesi ha la FNAUT (Federazione Nazionale degli Utenti del Trasporto).Come dicevo a Milano c’è un membro indicato dall’Università Politecnico.
Chi ha deciso le Metrotranvie Nord e Sud ?
Sono stato tra chi le ha sostenute. Perché il tram va sostenuto e rinnovato. 500 tram acquistati da ATM nel 1930 hanno reso tantissimo. Molti sono ancora in uso!!
Si, ma sembrano un mortorio: perché nessuno ha fatto il restyling? Perché non mettere più luce,anche nelle pensiline? Milano “cade” nella cura delle piccole cose….
Su manutenzione e pulizie si è risparmiato in questi anni effettivamente. Non era facile trovare risorse.
Io amo ATM. Il mio rapporto con il tram è “sentimentale”. Riconosco anche i progressi di ATM. Ma la battaglia culturale dov’è? Dove è che l’amministrazione spinge sul trasporto pubblico? I “manager” non vanno in tram…
Più che nelle altre città italiane (escluso Venezia).
Ma il nostro confronto è l’Europa!
Dobbiamo costruire un’azione di lobbing (come facemmo con il referendum sul traffico dell’85) che abbia come centro l’area metropolitana, un’agenzia metropolitana dei trasporti. Forse il dibattito sul “ticket” della Moratti può essere un’occasione. Forse questa “tassa di scopo” che i milanesi pagheranno,gli farà chiedere qual è lo scopo,qual è il programma.
Bisognerebbe fare una “cura del ferro”, potenziare il trasporto pubblico della regione (oggi fatiscente). Ma ATM ha studiato il suo contributo all’eventuale ticket ?
Secondo la perimetrazione proposta noi avremmo 705.000 residenti dentro la cerchia (che è un po’ esterna alla 90-91). Ci sarebbero un centinaio di accessi (non semplici da monitorare,a differenza di Londra). 209.000 sarebbero le entrate esterne giornaliere in questa cinta. ATM conta di aumentare del 5% gli utenti “subito”, del 10% nel 2008 e di arrivare al 25% di aumento nel 2009. Bisognerebbe studiare un abbinamento tra “ticket” e “abbonamento ATM”, così avremmo una vera fidelizzazione ad ATM. L’abbonamento è un incentivo all’uso.
Bisogna vedere le tariffe…
Moratti si è impegnata a non aumentare…

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Antonio Monzeglio ARCI Ragazzi

September 30, 2015 By admin

Dal 1999 il 20 novembre è la giornata scelta dall’ONU quale “giornata dei bambini e dei ragazzi” sino a 18 anni, con un preciso riferimento ad una convenzione internazionale che è stata ratificata ad oggi da 184 nazioni (fra le eccezioni USA e Somalia).

A proposito di testi di legge, in Italia la legge 216 ha delimitato l’ambito della sicurezza dei bambini, sino alla legge 295 del 1997, legge Turco, che nasce anche dalla sollecitazione di Carlo Paglierini dell’ARCI Ragazzi, e sotto il titolo “Promozione dei diritti e delle opportunità”, stabilisce soprattutto una nuova metodologia, secondo la quale alle cautele protettive proprie della normativa sui minori, aggiunge anche funzioni attive di:
– protezione
– promozione della competenza
– partecipazione

In questo quadro diverse associazioni che si occupano di ragazzi hanno provato a guardare con gli occhi dei bambini la nostra città.
La prospettiva dei bambini, ad esempio sul traffico, è molto diversa da quella degli adulti, anzitutto per ovvi motivi di statura, per cui per loro le automobili sono effettivamente degli ostacoli incombenti. Va anche considerato che i bambini hanno una forma tutta particolare di trasversalità, ad esempio nell’essere mediatori culturali per le loro famiglie. Ci sono messaggi diretti ai genitori che vengono più agevolmente veicolati e con più efficacia, se fatti passare attraverso la mediazione dei ragazzi. E questo avviene in modo straordinario verso i genitori extra comunitari i cui ragazzi frequentano le scuole milanesi (35% del totale degli alunni) fornendo un veicolo privilegiato per la mediazione culturale verso le loro famiglie, nell’assenza di politiche integrative istituzionali.
Nell’ambito del rapporto fra bambini e traffico i progetti minimi risultano enormemente ambiziosi: basti pensare ai percorsi casa-scuola, un piccolo progetto che incontra ostacoli apparentemente insormontabili da parte delle autorità scolastiche e municipali. Tutto questo in una città che ogni giorno perde un pezzo dell’identità culturale più facile per i bambini: pensiamo al Lido che diventa “Infostrada Village”
A fronte di questa situazione le istituzioni sono ferme, ancorate ad una duplice mancanza di attivismo:
– i funzionari colpevoli ma non responsabili
– la politica responsabile ma non colpevole
e questo si traduce solo a Milano in 14 milioni di euro fermi in assenza di capacità progettuale e di spesa.

Con tutto il rispetto per gli anziani, attraverso una politica dei ragazzi si può costruire un modo di fare politica nuovo, che costruisca la città futura.

Proprio nell’ambito dell’imminente giornata dei bambini, il Comune di Milano fornirà uno spazio per un “question time” su traffico, piste ciclabili ed altro, all’insegna del motto “la serietà lasciamola ai bambini”.

Nella nuova amministrazione Provinciale di Milano la delega conservata in argomento dal Presidente Penati è un segnale di attenzione ed importanza, anche se in altre città importanti (Roma – Torino) ci sono dipartimenti specifici da tempo in funzione. Così come in Francia la legge ha da tempo istituito i consigli comunali dei ragazzi. Non si tratta di indurre i ragazzi a scimmiottare gli adulti ed i loro riti, ma di esperienze qualificanti che educhino alla democrazia partecipativa le giovani generazioni. A Milano dopo lo svolgimento di alcuni focus group, ci sarà una kermesse alla scuola del circo (Bastioni di Porta Volta).

In definitiva, così come avviene in questi giorni, la politica cerca di mettere il proprio cappello su iniziative che le sfuggono completamente. Si avverte in tutta la sua valenza lo slogan “una città che non c’è”, perché in assenza di riferimenti tradizionali (scuola – famiglia) niente e nessuno si fa avanti. Il tutto a fronte di un’offerta consumistica allettante anche quando respinge, come nel caso degli spettacoli televisivi con “bollino rosso”. Il consumismo è spesso l’unica offerta su piazza, con lo shopping in centro o nei centri commerciali delle periferie satellite. Così nelle proposte che ricevono i ragazzi non trovano indicazioni sulle buone pratiche possibili nella vita cittadina.

Le buone pratiche esistono e meritano di essere studiate e valorizzate. Esiste l’esempio di “mini Munchen”, un programma educativo che riproduce nei mesi estivi la vita cittadina , con le istituzioni formato baby ed un sindaco ragazzo; l’intero programma costa 180.000 € all’amministrazione comunale di Monaco di Baviera.
Questo tipo di iniziative sono già state replicate in molti piccoli centri, anche in Italia in Emilia Romagna, laddove la maggiore facilità di contatto fra amministratori e cittadini facilita la partecipazione.
La prospettiva è quella di creare una cultura che si basi sui ragazzi, per smuovere le scuole e le istituzioni. E’ il caso dei progetti di accompagnamento casa-scuola dei bambini in area metropolitana: a Milano esiste il caso della scuola Bottega – San Mamete, dove è stato creato un sistema di accompagnamento basato sul tutoraggio.

Purtroppo le attività relative ai bambini sono completamente ferme da parte delle nostre amministrazioni locali, tanto che anche l’istituzione del Difensore Civico Regionale dei bambini, è rimasto un annuncio cui non è stato dato un seguito.

A proposito della prospettiva dei bambini, se si fa con una telecamera una ripresa all’altezza di 70 cm, il risultato è triste: la fascia peggiore delle edicole, macchine che consistono di paraurti e tubi di scappamento, ma soprattutto tutto lo sporco della città che è molto più vicino ai bambini che agli adulti.

Questo brutto mondo cittadino è percepito dai bambini come normale, benché loro siano naturalmente portati al bello della campagna, della montagna, del mare. Però i bambini percepiscono una situazione di disagio verso questo loro mondo, ma senza avere gli strumenti per dissiparlo.

Un elemento che si può recuperare dalle esperienze del passato è quello della sanità, che in passato vedeva la scuola in prima fila nel campo della prevenzione, mentre oggi la redistribuzione delle competenze alla regione, via ASL e ospedali, ha scombinato le cose senza dare nuovi servizi. L’esempio macroscopico è quello dell’intervento psicologico, che è considerato argomento di medicina specialistica ed in quanto tale riservato agli ospedali, che sono del tutto assenti dal mondo della scuola. Il Comune deve tornare ad essere reale coordinatore delle politiche di prevenzione, perché il rapporto costo-risultato delle campagne di prevenzione veicolate dalla scuola è incomparabile con qualunque altro canale.
Il sostegno alla genitorialità è poi un campo di intervento molto ampio: non esistendo una scuola per diventare genitori, c’è un forte bisogno di supporto, cui mancano risposte istituzionali. La Regione Lombardia ha fatto una legge in favore della associazioni di genitori, che arriva anche a dare finanziamenti, ma non si tratta di interventi innovativi.

Tramite i bambini si può strumentalmente far risaltare alcuni problemi, in moda tale da farli emergere davanti agli occhi dei genitori: fare cento di metri di strada per i bambini, con aree di accesso alla scuola con sosta riservata negli orari di entrata ed uscita, coordinate da “mobility manager” all’interno delle scuole. Ecco una serie di servizi diretti ai bambini, ma che di fatto indicano ai grandi qualcosa che li riguarda direttamente: che una città senza auto è possibile. Si tratta di passare un tratto di evidenziatore sulla realtà.

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GIANCARLO PAGLIARINI

September 30, 2015 By admin

Introduzione
Piervito Antoniazzi
A sinistra storicamente c’è una posizione di chiusura verso la Lega, e verso molte delle sue posizioni, ma l’invito a Giancarlo Paglierini, uno dei padri del fenomeno leghista, avviene ancora una volta nella logica della Fabbrichetta, che è quella di mettere mano alla scatola degli attrezzi della politica. Infatti molte delle posizioni assunte nel tempo da Paglierini, politiche e di contenuto, ultima quella recentissima sulla governance delle aziende municipalizzate, hanno il segno di una politica che si interessa ai servizi resi ai cittadini, non dal punto di vista del detentore del monopolio, ma da quello del fruitore del servizio. Gli interessi pubblici e quelli degli utenti sono sempre meno tutelati. Forse i consigli di sorveglianza possono creare istanze di controllo da parte degli utenti, ancorché il nostro movimento comsumerista sia ancora complessivamente debole. Da un punto di vista più propriamente politico, l’uscita di Giancarlo Paglierini dalla Lega, fa sorgere spontaneo l’interrogativo sul destino del percorso che la Lega sta compiendo da vent’anni in qua.
 
GIANCARLO PAGLIARINI
Consigliere Comunale a Milano Revisore dei Conti
Raccolgo la domanda e la sfida, riproponendo la domanda e la sfida a questo proposito, che era e resta quella di quindici o venti anni fa: come si fa a non votare Lega ? E questo a prescindere dai toni recentemente assunti da troppe manifestazioni della Lega, o dall’appiattimento sulle posizioni di Forza Italia e del suo leader. Il punto è che le motivazioni sulle quali la Lega è nata sono ancora là, intatte e oggettivamente descritte dai numeri del nostro stato e della nostra economia. Infatti l’eccesso del fenomeno che viene riassunto con il termine “assistenzialismo” impedisce una normale dinamica economica alle imprese, in particolare limitando gli investimenti in ricerca e sviluppo da parte delle nostre imprese, indirizzando risorse dove non sono produttive di reddito. tre tabelle di dati ISTAT – anzitutto la pressione fiscale, che al 50,57 % reale toglie respiro ma soprattutto competitività alle imprese: le imprese irlandesi con una pressione al 32% o quelle inglesi al 37,8% sono evidentemente avvantaggiate;
 
PIL Pressione Ufficiale % “nero” meno 20% reale PIL 1.417.241 100,0% 20% 1.133.793 100,00% Tasse 390.911 27,6% 390.911 34,48% Contributi sociali 182.416 12,9% 182.416 16,09% 573.327 40,45% 573.327 50,57% è da notare che il dato ufficiale comprende anche il lavoro “nero”, che è parte integrante del nostro PIL (pochi oggi ricordano che fu una decisione del governo Craxi di integrarlo, mai cancellata dai successivi governi) – il secondo dato riguarda il costo della pubblica amministrazione che nel suo insieme è insopportabile, perché nel suo insieme costa più delle entrate dello stato Biancio consolidato di tutte le PA. 2005 Miliardi % di euro incassi Tutte le tasse (390.911) e tutti gli altri incassi 446,7 100,% Costo del lavoro dei dipendenti delle PA (155,5) (34,8%) Tutte le altre spese (225,5) (50,5%)
 
Soldi che crescono ma non sono sufficienti per “toppare” i due buchi 65,7 14,7% Contributi sociali 182,4 40,8% Costo della previdenza e dell’assistenza (241,7) (54,1%) “Buco” previdenziale (59,3) (13,3%) Piccolo surplus primario 6,4 1,4% Interessi passivi (64,5) (14,4%) Deficit del 2005 (58,1) (13,%) Detto in breve, da questa tabella appare chiaramente che le aziende non hanno soldi da investire perché con i proventi delle tasse viene pagato il buco previdenziale. – infine le nostre 100 e passa tasse, delle quali le prime 10 rappresentano il 90% del gettito fiscale complessivo, il che indica che il problema non sta nelle troppe tasse, ma nel sistema in sé 1 IRPEF 140.759 36,0% 2 IVA 83.152 21,3% 3 IRAP 34.587 8,8% 4 IRPEG 29.965 7,7% 5 Imposta sugli oli minerali e derivati 23.809 6,1% 6 ICI 11.600 3,0%
 
7 Tabacchi 8.971 2,3% 8 Ritenute sugli interessi e su altri redditi da capitale 6.903 1,8% 9 Lotto e lotterie 5.536 1,4% 10 Imposta di registro 4.957 1,3% 350.239 89,6% Tutte le altre tasse 40.672 10,4% Totale tasse 390.911 100,0% Altri soldi incassati dalle Pubbliche Amministrazioni 55.791 Totale 446.702 E sia chiaro, tanto per smentire un luogo comune sulle posizioni economiche leghiste e federaliste, che in tutto questo l’arrivo dell’euro è stato molto positivo per noi, come dimostra l’andamento del debito pubblico e degli interessi passivi che ne derivano, prima e dopo l’avvento dell’euro: 1990: debito pubblico e costo degli interessi passivi 663 100% 72,0 2005: debito pubblico e costo degli interessi passivi 1.508 227% 64,5 Il vero nodo quindi sta nell’intreccio fra una pressione fiscale alta ma che redistribuisce in termini di assistenzialismo, ed un buco previdenziale, che da un lato corre veloce, ma soprattutto corre in modo ineguale fra diverse Regioni, anche per diverse situazioni rispetto all’evasione (false pensioni, lavoro nero etc), come dimostrato dalla tabella che segue,
 
Contributi sociali, previdenza e assistenza Versati dai datori di lavoro 128850 Versati dai lavoratori 52976 Altri 590 Soldi che entrano 182416 Pensioni 222369 Assistenza 19323 Soldi che escono 241692 “Buco” finanziato con le tasse (59.276) Lombardia 2.625 Veneto 453 Tutte le altre Regioni (62.354) (59.276) Oltre alla necessità di chiudere questo buco, c’è anche la necessità di avviare un vero federalismo, che non è una minaccia razzista, ma solo la necessità economica che le regioni che spendono più di quello che hanno (Sicilia, Calabria, Puglia, Campania, Lazio, Piemonte), non facciano ricorso alla cassa “comune” dello Stato, ma intraprendano una strada, che magari durerà altri venti anni, ma che alla fine le riporti ad un equilibrio fra entrate e spesa.
 
Siamo arrivati al centro della questione, il federalismo, ma a proposito di spesa previdenziale è necessaria una parentesi: non si tratta solo di chiudere un buco enorme esistente, ma di evitare che diventi una voragine tale da affossare del tutto la nostra economia: infatti il nostro sistema previdenziale, concepito negli anni cinquanta e nato vecchio, non regge al progresso demografico ed all’invecchiamento della nostra popolazione, dato dalle migliorate condizioni di vita. Il dato fornito da Wim Kok, sindacalista ed ex premier olandese, nel suo “Rapporto sullo stato di avanzamento della strategia di Lisbona”, non lascia spazio a discussioni: “Old age dependency ratio” Oggi 2050 Italia 29% 61% U.K. 24% 42% E.U. 26% 49% Il nostro sistema previdenziale così com’era, fondato sull’accantonamento da parte di chi lavora per pagare chi è in pensione, è destinato a saltare, perché non può essere finanziato da una minoranza di persone attive rispetto ad una larga maggioranza di pensionati. A causa di queste situazioni stiamo perdendo posizioni ogni anno nelle classifiche che riguardano la competitività e le libertà economiche. Dall’estero gli investimenti in Italia sono quasi azzerati, e siamo sempre più poveri, con un PIL pro capite a 27.700 dollari l’anno, economia sommersa inclusa, che ci fa scendere al 30° posto nel mondo, mentre solo pochi anni fa eravamo fra i primi 10. Il federalismo quindi è una necessità assoluta, perché è l’unico sistema che può permettere:
 
 
– redistribuzione corretta del gestito fiscale – riduzione vera dell’evasione – maggior controllo della spesa pubblica – inversione del flusso: non più “cittadini > centro > periferia”, ma “cittadini > periferia > centro” Certo il federalismo per essere tale deve poggiare su presupposti molto forti, anche dal punto di vista politico, che consentano di avere regole di autonomia sostanziali: senza voler prendere a modello i nostri vicini della Confederazione Svizzera, il paragone può essere fatto con la Spagna e con il livello di autonomia della “Generalitat de Cataluna”. Il modello catalano si basa su alcuni principi che lo rendono interessante: – Competenze esclusive e competenze concorrenti, esistono così come nella nostra Costituzione aggiornata, ma in Catalogna le competenze esclusive sono tantissime, altro che la nostra “devolution” e le competenze concorrenti funzionano veramente. Per limitarci ad alcuni esempi, oltre a materie tipiche della competenza locale come agricoltura, trasporto e sicurezza pubblica, ci sono anche competenze delicate e decisive, come quelle sulle casse di risparmio, la borsa, i brevetti, il sistema giuridico locale che incidono in modo profondo sulla vita delle imprese e dei cittadini. Ed anche materie importanti per le sensibilità locali, come l’immigrazione, l’organizzazione e le responsabilità delle pubbliche amministrazioni o l’amministrazione penitenziaria. – Rapporti chiari con la Stato centrale: esiste una Commissione mista Stato-Generalitat per gli affari economici e fiscali. E’ un organo bilaterale con presidenza attribuita a rotazione, decide la percentuale dei tributi statali che vengono ceduti parzialmente dallo Stato alla Catalogna ed i contributi propri della Catalogna. ai meccanismi di solidarietà e perequazione. Inoltre calcola il costo dei servizi che lo Stato dà alla regione autonoma. – Autonomia delle entrate: la Generalitat dispone di finanze autonome per far fronte ai compiti del suo autogoverno. In questo modo le entrate tributarie proprie, si sommano a quelle cedute dalle Stato interamente o parzialmente (compartecipazioni) dallo Stato. – Meccanismo di solidarietà: per gli interventi statali di solidarietà per istruzione, sanità e altri servizi sociali essenziali la Catalogna partecipa “siempre y cuando lleven a cabo un esfuerzo fiscal tambien similar”
 
Trasparenza! E’ quello che serve qui da noi. Art 206 comma 4: ” i meccanismi di perequazione e solidarietà si realizzano nel rispetto del principio della trasparenza”. In Italia, con poche eccezioni, di trasparenza non parla mai nessuno. In Spagna i cittadini hanno capito che la trasparenza è la chiave per l’efficienza e per togliere potere ai tanti che ne fanno un pessimo uso. In Italia si può fare qualcosa, senza pretendere di fare tutto e subito; si può pensare ad alcune fasi successive: 1. passare dal federalismo fiscale al federalismo fiscale e contributivo 2. eliminare le Province, fonti di spreco e di ulteriore sovrapposizione delle competenze 3. Lavorare sull’Articolo 117 della Costituzione: lo Stato deve fissare i principi fondamentali relativi al lungo elenco di “sovranità concorrenti”. “Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato” Identificare i compiti di Regioni e Comuni. Valorizzarli pro-capite con costi standard. Il risultato (numero dei residenti moltiplicato per i vari costi standard) viene finanziato, in ogni singola Regione, con la compartecipazione ad un tributo erariale. Partendo da questi contenuti e con questi obbiettivi la riforma federale dello stato si può fare.
 
INTERVENTI DELLA FABBRICHETTA
Interventi di Piervito Antoniazzi. Luca Beltrami Gadola Agostino Fornaroli Francesco Florulli.
A proposito del problema previdenziale – demografico, come affrontare la questione dell’espulsione dei cinquantenni dal mondo del lavoro, che contraddice il meccanismo descritto ?
R – “Il fenomeno è complesso e riguarda prima di tutto le aziende, ma dobbiamo anche chiederci di fronte al turn over per età perché questo fenomeno avviene in Italia e non in Germania o in Inghilterra. Ci sono probabilmente anche fattori strutturali.
D – Cosa pensa delle diverse risultanze del poco di federalismo che abbiamo, in Valle d’Aosta o nelle Province autonome di Trento e Bolzano ?
R – Effettivamente i risultati sono contraddittori, ma dipende dalle situazioni locali integrate in un sistema che non funziona.
D – Una domanda politica: quale futuro per la Lega?
R – “Il mio metro di valutazione è quello della utilità concreta per il sistema paese, e devo dire che purtroppo oggi come oggi non vedo nessun futuro. Oggi la Lega è, come dire, “un’altra cosa”. Per le elezioni politiche di Aprile 06 ha accettato il programma elettorale della CDL nel quale
1) nella sezione “Fisco” non c’era nessun riferimento al federalismo fiscale.
2) nella sezione intitolata “SUD Piano decennale straordinario per il superamento della questione meridionale” si prevedeva un “Federalismo fiscale solidale e misure di fiscalità di sviluppo (compensativa) a favore delle aree svantaggiate”.
Questo vuol dire che se la CDL avesse vinto le elezioni avremmo dovuto trasferire ancora più quattrini dalle nostre Regioni a quelle del Mezzogiorno e vi ho già detto che questo significa minori investimenti in ricerca, sviluppo, nuove tecnologie e nuovi prodotti. In sintesi meno competitività, meno investimenti, meno lavoro e più povertà. Se la gente fa fatica ad arrivare alla fine del mese la colpa non è certo dell’Euro ma dell’enorme assistenzialismo che ci rende ogni giorno meno competitivi.
Infine 3) nella sezione intitolata “Finanza pubblica” il programma della CDL prevedeva di ridurre il debito dello Stato tramite la vendita di patrimonio pubblico, che per la maggior parte non è di proprietà dello Stato ma è proprietà delle nostre Regioni e dei nostri Comuni. Quando ho letto quel testo non potevo credere ai miei occhi.
Così come faccio ancora oggi molta fatica a credere a certe dichiarazioni di Gianpiero Fiorani es. amministratore della Banca Popolare di Lodi, dalle quali sembra che la Lega abbia “venduto” il suo voto a favore di Fazio durante la discussione della legge sul risparmio. Ho chiesto spiegazioni, ho aspettato con pazienza i congressi ma di fronte al silenzio non ho potuto fare altro che andarmene. Senza sbattere la porta perché per Bossi sento ancora affetto, ma è certo che per la Lega di oggi non riesco a vedere un futuro. Naturalmente spero che torni ad essere quella di una volta: liberista e seriamente impegnata per una riforma federale di cui il paese ha sempre più bisogno ogni giorno che passa.”
 

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CARCERE: UN GHETTO IN CITTA’ ?

September 30, 2015 By admin

Valerio Onida
Professore di Diritto Costituzionale
Presidente Emerito della Corte Costituzionale

Fra le proposte di discussione concreta sulla Milano che viviamo e che vorremmo far cambiare, la Fabbrichetta ha colto l’occasione di interrogare il professo Valerio Onida, Presidente emerito della Corte Costituzionale, non dei molti temi propri della sua esperienza accademica e professionale, ma della sua sfera privata, poiché Valerio Onida si occupa come volontario della condizione carceraria. Uno dei molti argomenti sui quali il Comune di Milano potrebbe avere voce in capitolo.
Il tema è interessante, perché se solo passasse concretamente questa idea, ci sarebbe un enorme passo avanti nella considerazione dei temi carcerari, perché la realtà odierna è che di carcere non si occupa compiutamente neanche chi dovrebbe prendersi cura dell’istituzione carceraria nel suo complesso.
E’ considerazione evidente che la città si occupa dei propri luoghi, nei quali vivono i nostri concittadini. Tale è anche il carcere, e tali sono, anche se spesso lo si dimentica, i carcerati.
Non molti sanno che molti carcerati chiedono la residenza nel comune di reclusione, per poter risolvere in modo più pratico i loro problemi amministrativi. Ad esempio a San Vittore si reca periodicamente un impiegato comunale per gestire lo sportello . Analogamente l’amministrazione municipale si occupa di facilitare l’accesso ai luoghi di reclusione periferici con linee regolari di mezzi pubblici.
Milano ha quattro istituti carcerari maggiori, San Vittore, Opera, Bollate e il Beccaria per i minori. Il più vecchio e centrale, San Vittore, assolve ormai la funzione di custodia di detenuti in attesa di giudizio, che non scontano una pena definitiva, ma sono in regime di custodia cautelare. Per questo a San Vittore non si applicano tutti gli istituti del regime penitenziario, e quindi ad esempio il lavoro e la cultura non sono dei diritti. Giuridicamente si tratta di una situazione corretta a norma di legge, ciò non toglie che si pongano dei seri problemi pratici.
Opera e Bollate sono strutture relativamente recenti, anche se invecchiate in fretta ed in modo diverso fra loro, mentre al minorile Cesare Beccaria i giovani detenuti restano sino al 21° anno, prima di affrontare il salto, spesso drammatico, verso il carcere ordinario.
Questo mondo appartiene alla città, e qualcuno dice che le carceri contribuiscono a valutare il grado di civiltà di una nazione.
Questo principalmente perché il carcere ha un valore rieducativo, anche se oggi è un dato di fatto acquisito che tale non sia per chi ci arrivi da situazioni marginali per motivi sociali, economici o familiari. Il carcere dovrebbe essere un momento privilegiato per occuparsi di queste persone marginali, altrimenti così difficili da controllare e persino abbordare per l’istituzione. Purtroppo anche questa occasione non viene colta, non ostante, come spesso accade in Italia, l’esistenza di una buona legge, che però viene spesso male applicata. C’è una distanza siderale fra le belle esposizioni ed aspettative delle leggi, e la realtà carceraria.
Ad esempio l’art 20 della legge sull’ordinamento carcerario dice che il lavoro è obbligatorio, ma poi nelle carceri italiane solo il 20% dei detenuti ha un lavoro interno o esterno. Bollate arriva al 50%, e questo ne indica la situazione privilegiata. Il motivo delle differenze sta nelle strutture e nelle risorse: il sovra affollamento delle strutture è un fatto noto, e laddove manca la struttura minimale non è possibile pensare a spazi per il lavoro.
Ma le risorse sono anzi tutto gli uomini: la polizia penitenziaria non copre mai interamente gli organici né ha rapporti numerici adeguati agli standard internazionali. Si assiste invece ad un fenomeno di cattiva distribuzione geografica delle risorse umane, tema ricorrente nella nostra amministrazione pubblica così sbilanciata in termini di personale verso il mezzogiorno.
Tuttavia il rapporto fra polizia penitenziaria e detenuti è generalmente buono, non mancano le opportunità di formazione.
Del tutto carente è invece il livello delle risorse nelle aree del personale non di custodia: educatori, psicologi ed altre categorie sono rarissimi, al punto che si stima siano poco più di 200 in tutta Italia.
Ci sono poi limitazioni fortissime per tutto quanto costa, dall’acqua calda alla carta per scrivere, sino al capitolo delicatissimo della sanità. Il detenuto ha per legge, tutti i diritti del cittadino in materia di salute, e se prima esistevano strutture sanitarie all’interno del carcere, nel regime del Servizio Sanitario Nazionale è l’Azienda Sanitaria Locale a dover assicurare le prestazioni a tutti i carcerati, cittadini e non. Ovviamente le particolarità della condizione carceraria si riflettono sulle prestazioni sanitarie, perché il carcerato non è libero di spostarsi autonomamente né in modo programmato solo in funzione dei suoi bisogni sanitari, il che pone un serio problema organizzativo.
A Milano presso l’Ospedale San Paolo c’è un reparto di degenza riservato ai detenuti, ma ovviamente è poco per le quattro strutture di reclusione milanesi.
Stante questa situazione il problema è cosa fare.
Alcuni enti locali nominano un garante dei diritti dei detenuti, fra essi tanto il Comune di Roma che la Provincia di Milano. La cosa in sé potrebbe anche avere un valore, purtroppo questi enti non hanno né poteri reali né strutture su cui appoggiarsi, e quindi si finisce per essere condizionati dalla personalità del garante.
Che poi esiste già per legge, ed è il magistrato di sorveglianza, ovvero colui che ha, fra gli altri, il compito di sorvegliare la corretta gestione della struttura carceraria. Nella realtà gli altri numerosi compiti del magistrato di sorveglianza (in particolare amministrativi in relazione al calcolo ed alle modalità della pena per ciascun detenuto) finiscono per essere prevalenti, e quindi la figura determinante diviene quella del Direttore del carcere, come ad esempio a Bollate.
Ben vengano queste figure se propositive, ma spetterebbe alla amministrazione penitenziaria nel suo insieme l’azione concreta, e non le sole iniziative di bandiera molto visibili ma poco reali.

L’ente locale ha funzioni che interagiscono in modo sostanziale col mondo carcerario, prima fra tutte la competenza sui servizi sociali , che si occupano di raccordare i detenuti che stanno anche parzialmente fuori dalla struttura, in regime di semi libertà. Ha poi competenza sull’edilizia, il che non è secondario perché se come vuole la teoria la pena dovesse essere scontata principalmente fuori dal carcere allora una politica edilizia per il carcere avrebbe un impatto serio. Potrebbe infatti incidere sulla detenzione domiciliare, che spesso risulta impossibile per la pratica mancanza del domicilio specificamente per i detenuti extra comunitari, ma anche per molti cittadini. E’ il caso delle detenute madri, che se hanno figli minori di 10 anni, e in assenza del rischio che possano commettere reati gravi, dopo avere scontato 1/3 della pena possono accedere alla carcerazione domiciliare.
Inoltre il Comune si occupa di lavoro interviene in prima persona sul mercato del lavoro, e questo è un tema centrale per il detenuto, che se non ha lavoro oggi in carcere, ben difficilmente potrà trovarlo domani quando dal carcere uscirà. La legge Smuraglia aveva dato 6 mesi di sgravi fiscali a chi assumeva un detenuto all’uscita dal carcere, ma dovrebbe fare seguito un’assunzione a tempo indeterminato, e questo avviene raramente, per motivi legati alla congiuntura economica.
Ancora, il Comune ha competenza sulla cultura, ma interviene oggi solo con la limitata fornitura alle biblioteche del carcere, laddove potrebbe intervenire con risorse aggiuntive. C’è un esempio della Regione Lombardia che paga personale integrativo che ha funzione di supplenza rispetto alla citata carenza di organici.
Peraltro è evidente che per fare ci vogliono risorse, anche solo per creare le condizioni materiali del pratico utilizzo delle risorse stesse. Si può parlare di una miriade di micro progetti che potrebbero essere supportati con un minimo impegno da parte dell’ente locale.
(Viene citato il caso della costruzione di un bagno nuovo per l’asilo nido di San Vittore, finanziato da privati e realizzato nella sostanziale indifferenza dell’istituzione e nella competitività fra organizzazioni volontariato).
Spesso il problema si limita all’assenza di coordinamento: nella stessa amministrazione penitenziaria c’è grande lentezza per arrivare all’applicazione della pena, figuriamoci della lentezza con la quale i detenuti possono fruire dei benefici di legge. Il solo collegamento informatico reale svecchierebbe l’amministrazione dando maggiore efficacia al suo lavoro.
Esiste un esempio evidente della carenza di coordinamento: la legge di riforma dell’ordinamento carcerario, prevedeva l’istituzione di “Consigli di aiuto sociale” in ogni distretto di Corte d’appello. Questi enti, presieduti dal Presidente del Tribunale avrebbero dovuto avere ampie competenze su tutti gli aspetti della vita carceraria, ed essere finanziati con la cassa ammende dei tribunali. Non ne è entrato in funzione neanche uno, e le loro funzioni di coordinamento non sono svolte da nessun altro organo.

C’è poi il lungo e complesso capitolo degli stranieri: certamente non tutti gli stranieri che arrivano sono tutti delinquenti. Oggi gli stranieri rappresentano il 30% della popolazione carceraria a livello nazionale, mentre se ne stima una quota intorno al 10% della popolazione nazionale. Questa quota supplementare è dovuta all’assenza di quella rete esterna di supporti che conduce in condizioni normali ad evitare il carcere, e quando ciò non è possibile, ad affrontarlo con la disponibilità dell’appoggio familiare all’esterno. Così il carcere è pieno di detenuti che scontano pene brevi, sino a tre anni, alle quali quasi tutti gli italiani sfuggono.
Se il comune collaborasse in maniera attiva nella gestione del processo di rilascio dei permessi di soggiorno, oggi svolto dalla Polizia di Stato con spirito di sacrificio, ma nessun mezzo supplementare, si avrebbero famiglie più rapidamente e compitamente integrate. E questo finirebbe per evitare marginalità, e nel caso, di dare un supporto ai detenuti, per non fare del carcere una condizione irreversibile e prolungata nel tempo.

Su tutto questo il Comune potrebbe intervenire, ma con fantasia e buona volontà molto si potrebbe fare. Si tratta in primo luogo di intervenire in modo coordinato con altri enti pubblici aventi competenza sul carcere, dalla magistratura alla stessa amministrazione penitenziaria, alla sanità pubblica, e con gli enti privati quali il settore del volontariato. Questo complesso di enti funziona meglio e con maggiore efficacia se c’è un coordinamento ed un supporto, innanzi tutto tecnico, non necessariamente finanziario.

Il Comune di Milano non è decisivo ma neanche del tutto assente: c’è un Osservatorio Comune/Carcere, coordinato dal Dirigente dell’Assessorato ai servizi sociali, che si occupa di coordinare gli interventi delle associazioni di volontariato. Ci sono iniziative minime, come 3 appartamenti messi a disposizione ad Opera per i permessi e la semi libertà, su fondi Cariplo, peraltro non permanenti. Si tratta di rendere continuativa e coerente questa politica.

Il volontariato e l’intervento sostitutivo dell’ente locale non possono essere anche letti come l’abdicazione dello stato dai suoi compiti in materia di rieducazione ? E la gestione del rapporto con il volontariato, non è legata a politiche di breve respiro ed a strutture che poi sono di potere o sotto potere economico ? Nell’esaminare le responsabilità politiche dell’ente locale in materia carceraria questi dubbi non sono eludibili. Anche perché che la responsabilità sia politica, giudiziaria, istituzionale, quello che è certo è l’impatto dell’universo carcerario sulla realtà sociale.

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