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La Fabbrichetta

laboratorio politico aperto

lafabbrichetta

“DEMOCRAZIA CONDOMINIALE”

September 30, 2015 By admin

 ASSOCOND è un’associazione costituita nel 1987 da un gruppo di persone provenienti dall’esperienza del Sindacato Inquilini, decise a continuare la loro attività nel mutato scenario del “problema casa”. Infatti fino alla fine degli anni ottanta il centro del problema era il rapporto fra inquilino e proprietario, l’applicazione generalizzata della legge sull’equo canone (risalente al 1978) ha portato a:
– i vincoli posti al valore dei canoni ed alla durata dei contratti
– dismissione del patrimonio immobiliare mediante vendite frazionate da parte delle grandi imprese (enti pubblici – banche – assicurazioni)
– aumento del numero delle unità immobiliari lasciate sfitte dai piccoli proprietari, pur di non incorrere nelle rigidità della normativa dell’equo canone

Il fenomeno del “condominio”, tipico delle aree metropolitane, nasce dalla massa di vendite dovute a questa situazione, ed è diventato una peculiarità italiana, considerando che 80% degli italiani è proprietario della casa in cui abita (valore più alto in Europa).

La dimensione economica del fenomeno appare in tutta la sua importanza se si considera che i 10 milioni di appartamenti in condominio (dati ISTAT 2003), generano un giro d’affari di sole spese condominiali calcolabile in circa 25 miliardi di euro, ovvero l’equivalente di una manovra finanziaria annuale.

La situazione creata dalla legge sull’equo canone aveva anche cambiato la tipologia sociale del piccolo proprietario/condomino, sino a diventare un fenomeno di consumo, tale da orientare anche la decisione di ASSOCOND di operare non come associazione di piccoli proprietari, ma come associazione di consumatori. La situazione attuale infatti, oltre a vedere la diffusione della proprietà a soggetti sociali di tutti i tipi, con l’emergere dei problemi condensati nell’espressione “condominio multi razziale”, conosce aree di forte sofferenza sociale. Si tratta ad esempio del fenomeno dei molti condomini che faticano a pagare le spese condominiali e finiscono col vedersi l’appartamento messo all’asta per il recupero dei debiti col condominio. O ancora il fenomeno della cessione della nuda proprietà, unica possibilità per molti di continuare ad abitare nella propria casa.

A livello normativo il legislatore si era occupato molto, a partire dagli anni cinquanta, del rapporto fra proprietario ed inquilino, e poco di condominio. La normativa generale era rimasta, ed è ancora oggi, ferma ai 23 articoli (1117 – 1139) del codice civile del 1942, e solo questo fa capire come questa normativa sia oggi del tutto inadeguata. Anche perché la situazione descritta del dopo equo canone, ha portato anche a situazioni di assoluta ingestibilità, come quelle dei mega condomini, come il caso di un condominio formato da oltre 5.000 unità al Gratosoglio.

Diretta conseguenza della normativa inadeguata e del numero di neo – proprietari è l’elevatissima litigiosità tra condomini, spesso per argomenti assolutamente futili, come l’arredamento della parte comune costituita da un piccolo pianerottolo che divide due appartamenti, ed infatti le decisioni dei giudici avvengono più che altro sulla base dei principi del “buon padre di famiglia”. Il fatto che questa micro litigiosità implichi comunque delle somme che per i singoli possono essere significative, ed il fatto che il loro numero abbia indotto il Tribunale di Milano ad istituire una sezione specializzata, sono il sintomo della gravità e dell’ampiezza del disagio sociale che sta dentro i nostri condomini.

D’altronde se si parte dal presupposto che dopo la famiglia il condominio è la principale aggregazione sociale oggi esistente, si coglie l’importanza di questo vero spaccato della nostra società. Infatti è nei problemi condominiali che si possono cogliere i malesseri endemici della nostra società cittadina: dalla drammatica mancanza di comunicazione fra persone, al degrado delle proprietà comuni mentre nel contempo ognuno cerca di abbellire il proprio “particolare”. Visto che in altre nazioni europee, prima fra tutta la Germania, avviene esattamente il contrario, siamo di fronte ad un fenomeno tutto italiano, sul quale c’è molto da lavorare.

Altra area critica è quella dell’amministrazione: per problemi di tempo e per evitare i litigi, cresce il numero di coloro che si estraniano dalla gestione della cosa comune, che è lasciata alla buona volontà dei molti pensionati attivi che sono sempre presenti nel palazzo. Questa assenza dei condomini inizia già al momento dell’acquisto della casa, quando il rogito dà per letto ed approvato dal condomino il regolamento condominiale, che quasi sempre è stato invece predisposto dal costruttore al fine di riservarsi alcuni spazi per vendite successive e di aprire la strada ad un amministratore amico. Gli amministratori hanno mano libera in presenza di proprietari assenti o distratti e di una normativa talmente lacunosa da consentire loro di tenere la gestione per un biennio senza obbligo di rendiconto, e dell’assenza di obbligo di gestione bancaria per i conti del condominio separata dai conti propri dell’amministratore. La conseguenza è stata una successione di “buchi” creati da amministratori che hanno utilizzato i fondi dei condomini per investimenti andati male, o semplicemente li hanno distratti. A questo si spera che possa mettere riparo un disegno di legge in discussione in Parlamento, sul quale c’è pressione da parte delle associazioni degli amministratori.

In definitiva una situazione che dopo una crescita disordinata ha bisogno di interventi generali sulla normativa, m anche di un ripensamento creativo, per il quale l’iniziativa della “Fabbrichetta” è benvenuta.
(a seguito degli interventi dei partecipanti ha aggiunto)

La competenza legislativa su questa materia spetterebbe allo stato, ma c’è un ampio campo di attività per le amministrazioni comunali, che potrebbero trovare nel condominio un interlocutore che filtra gli interessi dei cittadini. Del resto a Milano questo è già accaduto ad esempio con le richieste presentate da un coordinamento spontaneo di condomini relativamente alla realizzazione della linea tranviaria per Rozzano. In generale il condominio può essere interlocutore dell’amministrazione comunale per:
– trasporti
– parcheggi
– viabilità: oltre al caso di Rozzano, c’è il precedente dell’iniziativa “biciclette in condominio” di “ciclhobby”
– utilizzo spazi: c’è infatti tutto l’ampio tema dell’utilizzo degli spazi comuni inutilizzati (guardiole ed altro) a fini sociali: asili, centri informazione ed assistenza
– gestione del verde pubblico confinante o inglobato nei condomini
– sicurezza.

Per la soluzione del problema della litigiosità la proposta di una camera arbitrale potrebbe avere, oltre alla valenza di ordine generale del risparmio di spese di giustizia, il vantaggio pratico di risolvere facilmente le liti. C’erano stati contatti in questo senso con la Camera Arbitrale presso la Camera di commercio, che ha esperienze in materia di contenzioso fra clienti e lavanderie ed altro, ma la Camera di commercio può istituzionalmente intervenire solo se una delle parti è un commerciante o comunque un’azienda, e non fra privati.

Gli interventi dei partecipanti hanno portato a delineare alcune proposte concrete sulle quali, evitando di volare troppo alto ai confini con l’utopia, si potrà lavorare per poter preparare un documento organico sull’argomento
1) definizione di un regolamento tipo di condominio, che metta le basi per una gestione dei condomini attenta alle esigenze dei proprietari – cittadini con una forte connotazione istituzionale (amministrazione comunale interlocutore) e politica (trasparenza e rapporti con il mondo della cooperazione)
2) recupero delle esperienze di “condominio solidale” , con l’intento di aprire una serie di possibilità di gestione del condominio che ne consentano una gestione più realmente connessa con le esigenze dei proprietari
3) studio della possibilità di facilitare l’allargamento delle esperienze dei “gruppi di acquisto” oggi limitate alle aziende, particolarmente in campo energetico, mettendo aggregazioni di condomini in condizione di discutere con i vari monopoli del settore (Italgas – AEM – Enel)
4) studiare la possibilità che il Comune si faccia promotore di una Camera Arbitrale dei litigi fra condomini, ponendosi come regolatore di quest’area di micro conflittualità sociale, questo potrebbe passare anche per la collaborazione con l’associazione MEDI.A.RE con cui già si stanno studiando forme di collaborazione
5) definire un sistema di interazione fra condomini e consigli di zona per la gestione del verde pubblico
6) approfondire i tentativi di connessione fra esigenze di categorie come gli studenti alla ricerca di piccole unità immobiliari, e i proprietari di case spesso semi vuote

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IL VERDE A MILANO (…E ALTROVE)

September 30, 2015 By admin

Non esiste un sistema di verde a Milano. Esistono pochi spazi verdi, episodici, senza identità ne connessione. Ma se diamo uno sguardo a Monaco, Francoforte, Parigi…la storia è tutta un’altra. Ci sono percorsi che collegano, funzioni che caratterizzano e danno identità. Ci sono piste ciclabili per spostarsi da un parco all’altro, ci sono viali alberati e persino “sopraelevate verdi”…
Di questo e di altro si discuterà martedì 10 p.v. a “La Fabbrichetta”, il centro di produzione di idee innovative per il governo di Milano, che da poco ha aperto i battenti al quartiere Isola-Garibaldi.
L’incontro sarà introdotto, con ampia documentazione di immagini in diapositiva, da Mario Allodi, architetto di giardini.
Con questo incontro La Fabbrichetta prosegue il suo lavoro di costruzione di pezzi di programma per una nuova amministrazione comunale.
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L’idea di questa conferenza è nata dalla richiesta di Piervito Antoniazzi di una discussione sui temi del verde a Milano. Il taglio che è stato dato è centrato più che altro su “altrove” per stimolare una riflessione sulla situazione attuale del verde nella nostra città.
In negativo quindi si cerca di analizzare alcuni aspetti delle potenzialità
– sistema del verde
– parcheggi sotterranei
– piste ciclabili
– recupero a verde di aree dimesse
che in qualche modo riprende le “quattro P” che sono la base di una politica del verde: parchi-parcheggi-pattumiere-piste ciclabili

1) il sistema del verde
non si può parlare di un sistema organico del verde a Milano, perché le realizzazioni a verde sono dei puri riempimenti, senza un progetto verde in una logica di sistema; l’ideale cui tende chi vive in modo radicale e assoluto il senso del verde cittadino è quello di arrivare ad avere una città/casa, nella quale i parchi siano le varie camere verdi, collegate da vie alberate che siano i corridoi verdi della casa; non si tratta di una visione teorica, come dimostrano le realizzazioni di città europee di dimensione simile, ma anche maggiore a quella di Milano. La visione di alcune diapositive permette di trarre alcuni spunti dai sistemi del verde che sono stati concretamente messi letteralmente in funzione, a disposizione dei cittadini di queste città che sono Monaco di Baviera, Francoforte, Stoccarda.
Monaco di Baviera, che è una città simile a Milano per dimensione e numero di abitanti, e le due città si sono anche date in tempi vicini due parchi (il Sempione a Milano e il Englische Garden a Monaco) di tipo tradizionale. A Monaco però c’è stata una importante evoluzione nella costruzione di aree verdi, con la creazione di una lunga spina verde che collega i quartieri della periferia sud della città con l’isola pedonale sul fiume Isar. La prima caratteristica che distingue nettamente questo percorso è l’utilizzo combinato di verde erbaceo, arbusti e piante, che denota non solo un minor timore che gli arbusti possano facilitare aggressioni o altro. Ma anche una migliore difesa delle piante che non rischiano di diventare dei posa cenare o dei cestini come spesso accade nella nostra città. In realtà da ogni punto di vista si può constatare un grande rispetto per l’arredo verde e di altro tipo, con una forte attenzione alla conservazione delle cose comuni.
Tutto il percorso è supportato da piste pedonali e ciclabili ben distinte, e queste ultime sono dotate di una specifica segnaletica, con indicazioni non mutuate dalla circolazione automobilistica. Nello snodarsi del percorso si trovano anche esempi di insediamenti contigui al verde, che permettono oltre alla fruizione diretta, anche un tipo tutto particolare di controllo sociale, grazie alla presenza costante degli abitanti ed alla comunione fra spazio pubblico e spazio privato.
Francoforte, ha un anello che circonda il centro, molto simile ai nostri bastioni, che sono connessi con un asse pedonalizzato centrale. Anche qui una pista ciclabile percorre tutto lo spazio verde, con dimensioni diverse a seconda della larghezza dei diversi punti dell’area; se la pista è mono direzionale è logico che possa essere più stretta; l’importante è che la pista abbia un’identità data dal modo in cui è realizzata e non solo dalla biciclettina dipinta per terra. Nel percorso sono realizzati spazi verdi di ridotte dimensioni, vivibili in una dimensione quasi domestica, astratti dal contesto urbano circostante, e dotati di una identità propria ben definita, e resa concreta da elementi come sculture e altri arredi specifici; anche la prospettiva non è trascurata, perché dagli spazi ci sono scorci e prospettive che arrivano alla dimensione più ampia della città. Tutto questo, alternando spazi verdi e spazi attrezzati, permette possibilità multiple di fruizione da parte del cittadino, ad esempio permettendo di godere del verde anche in giornate di pioggia.
Stoccarda: una lunga spina verde porta dal centro alla zona termale (Mineral Wasser); si parte da un giardino molto razionale grazie alla ripetizione di segni precisi (cerchi e quadrati), con una precisa attenzione alla relazione fra i prospetti degli edifici e lo spazio verde; andando dal centro verso la zona termale progressivamente aumenta la natura libera: le piante infatti contrariamente all’uso italiano sono prese nella forma libera della loro potenzialità decorativa; anche in questo caso ci sono aree attrezzate che comunque si inseriscono nella libertà del verde.

2) i parcheggi sotterranei
anche su questo argomento si può avere una posizione chiara e netta, a difesa di criteri assoluti di difesa e sviluppo del verde urbano; i motivi sono principalmente due: anzitutto i parcheggi sotterranei non danno un contributo significativo alla risoluzione del problema del traffico, perché portano numeri limitati di posti auto; ben altre soluzioni sotterranee di sistema sarebbero possibili, ma di tale ampiezza che ci vorrebbe una volontà politica molto difficile da realizzare;
ma soprattutto non convincono i parcheggi sotterranei per la falsità del verde appoggiato sopra l’enorme vaso costituito dalla struttura dei garage, coibentata a isolamento di tutta l’area; la falsità non è solo nella nostra testa, ma nei fatti, perché le piante appoggiate su quelle aree sono destinate a non vivere gli ottanta anni medi delle piante cittadine, perché circa ogni venti anni la coibentazione ha bisogno di manutenzione, e quindi il verde appoggiato deve essere completamente riposizionato, con tutti i problemi ed i costi che questo comporta; la città del resto ha bisogno di un insieme di piante giovani e vecchie, per consentire un ciclo funzionale delle piante corretto e completo a vantaggio dell’aria che tutti respiriamo;
infine c’è un elemento psicologico: la percezione della falsità del verde appoggiato sul parcheggio causa primo o poi un vero e proprio crollo emozionale nei confronti del verde per il cittadino; meglio sarebbe allora una scelta di pura e dichiarata falsità, come quella fatta a Parigi nel Parc Atlantique.
3) le piste ciclabili
la necessità di incentivare l’uso della bicicletta in alternativa all’automobile, e quindi delle piste ciclabili come strumento concreto, è un principio accettato da tempo, ma manca completamente la creatività nella realizzazione delle piste; una striscia di asfalto teoricamente riservata, come sezione della strada delle automobili è un concetto un po’ triste, ed infatti perdente;
oltre a inserire le piste ciclabili in un sistema verde (come già visto), sono possibili molti interventi, come fatto in molte città d’Europa, da Vienna ad Amsterdam a Zurigo; le diapositive illustrano alcuni esempi:
– le indicazioni specifiche per il ciclista
– la segnalazione fisica e cromatica del passo carrabile che interrompe la pista
– la penalizzazione del traffico automobilistico a vantaggio di quello ciclistico
– le “strade gioco”, strade secondarie nelle quali si dà prevalenza all’uso pedonale e ricreativo, con la creazione di spazi verdi che interrompono e canalizzano il traffico delle auto

4) recupero aree dimesse: 3 esempi parigini
la politica di recupero delle aree dimesse si concretizza solo se la volontà politica di farlo si esprime chiaramente a livello quantitativo (grandi dimensioni) e qualitativo (interventi articolati e ragionati); in questo senso negli anni la città di Parigi si è distinta per alcuni recuperi di grande pregio e dimensione:

4a) la “la promenade planté” ex rilevato ferroviario dimesso tra place de la Bastille ed il Parc de Bercy: la parte superiore è stata interamente piantumata ed attrezzata in modo vario a seconda delle larghezza della sezione (pergolati – tralicci – rampicanti); il pubblico ha diverse possibilità di accesso lungo la promenade, sia con scale che con ascensori; l’architettura è stata piegata ad uso della promenade, con l’uso di piante, topiate e libere,

4b) Parc Citroen: vecchia area industriale automobilistica, molto simile al nostro Portello, recuperata con un progetto molto articolato passato per un concorso internazionale; si basa su una serie di giardini tematici legati al colore che li domina, collegati ciascuno ad una serra sempre in tinta ed ad un pratone; un grande segno diagonale a collegare il perimetro ortogonale ed a chiudere il tutto due serre:
giardino nero-ipogeo, > verso il basso, iris neri
giardino bianco – epigeo > verso l’alto, fiori bianchi
il disegno del parco è di forte rigore logico, con l’uso dell’acqua a cucire fra loro gli spazi, ed anche con una fontana a superficie libera, con possibilità di attraversamento e gioco;

4c) Parc de la Villette: altra realizzazione molto complessa, progetto di lunga realizzazione nel tempo, con un maglio ortogonale cui si sovrappongono il verde ed i percorsi fatti proprio per interrompere la linea ortogonale; oltre alla parte puramente verde è collegata ad un forte elemento culturale: Città delle scienza, Città della Musica.
Ma anche una forte attenzione all’aspetto del gioco, non con realizzazioni tristi e banali, ma ad esempio con la bicicletta “land art”, piantata nel terreno, ma accessibile per diversi modi di gioco

Tutti questi esempi nelle quattro aree analizzate, confermano ampiamente che una volta definita come centrale per la politica cittadina la realizzazione di un “sistema verde”, non ci sono limiti alle realizzazioni possibili.
Gli spunti dati da quanto fatto all’estero non devono essere solo riprodotti, ma dimostrano che se c’è un progetto complessivo le idee concrete non sono un problema.
Gli interventi dei partecipanti hanno evidenziato come questo tema sia assolutamente centrale per la nostra attività, ed anzi tutti concordano sulla opportunità di approfondire anche in altri incontri.
Nel merito gli interventi hanno avuto per oggetto la distanza della realtà milanese dalle situazioni analizzate:
– Milano ha tutto per fare esperienze di questo genere, gli spazi, le risorse, le idee, ma è mancato ripetutamente da parte di quasi tutte le giunte degli ultimi venti anni la volontà di mettere interventi seri sul verde al servizio di un progetto politico complessivo
– Dobbiamo deplorare la mancanza di educazione politica trasversale fra governanti e governati
– Nella nostra città sono state perse una serie di occasioni di recupero, ultima e più clamorosa la Fiera, ma ci sono ancora tante opportunità, dalle aree demaniali delle caserme alle aree ex FF SS
– Le amministrazioni comunali oppongono a questi progetti la ricerca di un beneficio economico immediato, che verrebbe dal “fare cassa” consentendo la realizzazione di nuove aree fabbricabili a scapito del verde; oltre a non risolvere certo i problemi di bilancio con questa piccola cassa, non si dà nessuno slancio alla città in sé
– Non è assolutamente escluso che il recupero a verde delle aree non possa avvenire con un progetto complessivo che comprenda anche occasioni di sostenibilità economica dei progetti verdi, integrando verde e attività economiche
– E’ proprio del nostro progetto cercare di collegare le questioni di ampio respiro (il sistema verde – il recupero delle aree) con questioni di dettaglio ma importanti per la vita dei cittadini (gli spazi gioco – le piste ciclabili)

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“DIAMO UN NOME A MILANO”

September 30, 2015 By admin

Incontro a La Fabbrichetta via Pepe 38 (MM Garibaldi) – Giovedi 26 maggio 2005 alle ore 18.00
con STEFANO BOERI, docente del Politecnico di Milano.

Avvicinandosi elezioni amministrative riprendono sulla stampa i dibattiti su Milano, il suo passato recente, il suo presente incerto, il suo futuro roseo o catastrofico… Si parla di verde, di traffico,di disagio abitativo,di rilancio culturale… ma di cosa davvero si sta parlando? E’ un discorso generico che vale per qualsiasi città europea? Qual’è oggi l’anima di Milano? Cos’è lo specifico di questa città? Qual è il suo nome?

A partire dalla sua connotazione urbanistica, dalla sua presenza fisica proverà a suggerire qualche risposta Stefano Boeri, docente del Politecnico.

Prosegue con questo incontro il lavoro de La Fabbrichetta volto a rinnovare “la scatola degli attrezzi” della politica milanese e a costruire pezzi di un programma di governo innovativo per la città.
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Senza la pretesa di sviluppare un intervento sistematico, si può partire da una constatazione: oggi quasi sempre chi parla di politica della città di Milano lo fa in modo generico. Ci sono spunti su temi anche importanti, come la solidarietà, la politica sociale, ma si parla di Milano come di una città astratta. Verde, competitività, qualità della vita, sono termini che potrebbero essere utilizzati per tante altre città. Guardare Milano da milanese e anche tecnicamente da architetto e da urbanista, permette di cercare di capire se è possibile costruire un’immagine di sfondo della città, che sia aderente alla sua realtà.
Milano è una città unica, interessante, ricca di cose belle e brutte, spazi, comportamenti urbani, che possiamo pensare e memorizzare.
Propongo una triplice modalità di avvicinamento a Milano che renda possibile uno sguardo sulla città, ed insieme la faccia raccontare.

1) il primo sguardo riguarda il come esiste Milano oltre i suoi confini verso nord, verso quella zona che dalla Malpensa alla linea delle sorgive vede una serie di edifici in continuo, una successione di centri commerciali, autolavaggi,ecc. che costituiscono un corpo unico attaccato a Milano. Altre città europee (soprattutto Barcellona e Londra) hanno visto espansioni analoghe: l’area urbana a nord di Milano è costituita da una serie di piccoli centri che si sono accorpati, dove storicamente si sono insediate industrie di varie dimensioni, creando una netta differenza rispetto alla zona sud, nella quale ancora oggi è presente una realtà agricola.
In questa nebulosa ci sono altre due città: la prima è data dal sistema Sempione / Valle Olona, un insieme di centri urbani saldati, legati da un sistema di viabilità importante (le autostrade dei laghi – le ferrovie nord – le ferrovie dello stato), ricchi di una presenza industriale diffusa (anche se oggi spesso in crisi, come nel tessile), e dotati di importanti servizi propri (dalla università di Castellanza alla Malpensa) e che ha in fondo tentato(attraverso Bossi e la Lega) di darsi una auto-rappresentanza politica.
La seconda città della nebulosa è costituita dal sistema Brianza, sulla carta o dall’alto una grande foglia che da Lecco arriva fino a Monza, anche in questo caso con una storia industriale importante, una volontà di auto rappresentazione rispetto alle istituzioni (resa concreta da istituti vivi e forti come l’Associazione Industriali della Brianza o nuovi come la Provincia di Monza).
Milano, come città a partire dalla sua classe politica, non ha mai voluto riconoscere questa realtà, alternando nella sua “politica estera” verso i vicini criteri di diplomazia della superbia, a criteri puramente quantitativi e demografici, comunque volti a svilire gli interlocutori. Senza mai capire che il nocciolo della questione fra le diverse entità confinanti sta nei servizi e nei rapporti di scambio legati al sistema commerciale e formativo, che insieme Milano e la nebulosa nord formano.
Il fatto che Malpensa e la nuova Fiera siano al centro di questa realtà urbana nuova darà inevitabilmente un nuovo sviluppo a questa situazione, tutto da vedere e da governare.
2) secondo sguardo su Milano, utilizzando una scala più ridotta: entrando a Milano si entra in una seconda città, quella che si sviluppa intorno al sistema delle tangenziali, che portano ogni giorno in città 850.000 macchine. Si tratta di una colossale rotatoria sulla quale sono localizzati centri commerciali ed aree ricreative aperti sette giorni la settimana, ognuna con le sue ramificazioni periferiche (Nuova e vecchia Valassina – Seregno /Meda) o secondo assi che penetrano nel centro cittadino (da sud Corso Lodi sino a piazza Missori, da nord via Novara sino a corso Vercelli), che subiscono ogni giorno l’influenza del sistema delle tangenziali;
in questa visione la periferia non è tale perché lontana dal centro, ma perché vicina a questi enormi flussi di traffico che condizionano in modo decisivo tutta la vita locale, su questioni importanti come gli spazi verdi, il traffico, la qualità dell’aria che si respira. Ragionando su questa visione della città, bisogna parlare di un principio di cittadinanza che non è solo basato sulla residenzialità, perché ci sono tutta una serie di categorie di nuovi cittadini non residenti:
city user (come dice Guido Martinotti), ragazzi che bazzicano il centro storico, uomini d’affari, frequentatori del sistema moda, studenti. Si tratta di persone che entrano in città, usano il suo sistema e lo influenzano.

3) terzo ed ultimo sguardo, riguarda la città che sta dentro i confini amministrativi, che è diventata un arcipelago, nel quale convivono molti sotto sistemi: almeno tre città legate alla moda (Montenapoleone – porta Genova – via Bergamo / Fogazzaro) e deve far riflettere il fatto che se ne voglia creare una nuova per decreto sull’area Garibaldi –Repubblica; poi una cittadella giustizia, che ha determinato uno sviluppo specifico di tutta l’area intorno al Tribunale, con interi stabili occupati da uffici di avvocati; una città dello sport è San Siro, da piazza Lotto al Meazza.
Isole a propensione funzionale che formano un caleidoscopio, un arcipelago in cui le singole isole possono essere potenti: economicamente o per la loro capacità di relazione con isole analoghe fuori dai confini cittadini. Isole che tra loro non si parlano, come già avvenuto in passato per realtà aventi i loro spazio specifici (arte – industria etc.).

Queste tre visioni prese singolarmente non ci danno il significato compiuto della città, ma se le sovrapponiamo in un gioco di carta, otteniamo una rappresentazione più completa della realtà cittadina.
Se infatti pensiamo alla Scala 2, presa a sé stante può essere una realizzazione buona o cattiva a seconda di generiche prese di posizione. Ma se la vediamo inserita nel sistema della nebulosa nord, posizionata a poche centinaia di metri dal sistema delle tangenziali lungo l’asse che da Sesto San Giovanni arriva alla Stazione Centrale nel centro, ed inserita nella nuova cittadella del sapere e del terziario che è la Bicocca, abbiamo una lettura del tutto diversa della Scala 2.

Si tratta di ripensare, o meglio di pensare per la prima volta ad una “politica estera” del comune di Milano, che non tema gli interlocutori esterni, con cui anzi dovrà necessariamente discutere alla pari per poter affrontare i problemi della città.

Ci sono altre città da difendere: prime fra tutte quella degli anziani e quella dei bambini, che hanno bisogno di recuperare gli spazi e compensare la mancanza di vuoti che si avverte a Milano. Le occasioni perdute, a partire da quelle dei 17 milioni di metri quadri di aree dimesse censiti nel 1985, ed oggi male occupati nella quasi totalità, al progetto Città della Moda che non coinvolge i cittadini al Garibaldi – Repubblica. Studiando come recuperare queste città c’ è ancora uno spazio notevole per raggiungere risultati apprezzabili.

La politica dei partiti sembra in questo senso proporsi ancora come un passaggio obbligato, senza e contro il quale sembra essere impossibile anche solo fermare un progetto suicida, come quello della riqualificazione di piazza Schiavone alla Bovisa. Ma è anche vero che proprio il percorso della Fabbrichetta è partito dalla considerazione che i partiti devono esistere e fare il loro mestiere, a noi di prospettare vie nuove e di fare sentire a quel sistema la nostra voce e le nostre proposte.

Certo le esperienze di tutti convergono nel segnalare che l’amministrazione così come esiste non ascolta i cittadini, favorita anche da un sistema che premia in modo esagerato la maggioranza, lasciando l’opposizione completamente sprovvista di risorse. Così mentre la giunta commissiona studi miliardari, l’opposizione fa fatica a collezionare i dati necessari a capire la realtà.

La classe politica espressa in città negli ultimi 15 anni non si cura per niente di sfruttare le potenzialità di elaborazione fornite dall’università e dagli altri centri di produzione delle proposte, la classe politica non sa farsi committente che di progetti mirati, spesso orientati a fare cassa. La capacità di ascolto è quindi quella di un ceto politico che non può recepire sistemi più complessi di quelli che deve poi governare.

Tutto questo lascia una città che in termine di stile di vita è nella retroguardia in Europa, nella quale tutti si adeguano cercando una strada negli eccessi normativi esistenti. Il sistema finisce per orientarsi da solo, e appena si trova una breccia ci si infila per determinare il cambiamento. Non è più possibile rifarsi a cose come il “Piano del commercio”, ma si deve trovare il modo di liberare le iniziative che lascino emergere le specificità dei soggetti. Ad esempio se l’imprenditore edile fosse davvero tale e non anzi tutto uno speculatore immobiliare, potremmo liberare quei modelli di impresa che non misurano le loro realizzazioni in metri cubi, ma in qualità complessiva dell’opera realizzata.

In questo senso 500.000 mq di mansarde autorizzate negli ultimi cinque anni, significano 15.000 abitanti in più a Milano, ma chi fa il conto dei 500.000 abitanti che nel frattempo ha perso Milano? Chi, essendo impossibile governare, questo che è stato un vero proprio fenomeno di emigrazione per Milano, ha cercato di verificare che fine hanno fatto i vani abitativi nei quali risiedevano?
Le ultime proposte da parte dell’amministrazione comunale risalgono alla giunta Formentini, quando l’assessore Serri, al verificarsi di alcuni parametri verificabili, ipotizzava un premio di qualità in termini di volumetrie supplementari. Gli immobiliaristi si allinearono nel boicottare quelle proposte, salvo contendersi gli effetti a colpi di mazzette.

Una delle decisioni cui un’analisi del sistema città dovrà portare sarà quella dell’eventuale pedaggio per la circolazione in città, che è possibile, ma che passa per una serie di criteri (quali sono i confini) e di conflitti (con i centri maggiori dell’hinterland) che vanno preventivamente studiati ed avviati a soluzione prima di emanare la normativa.

Di certo il Comune di Milano deve recuperare quella che è stata una delle sue caratteristiche storiche per tutto il novecento e gran parte dell’ottocento, ovvero di essere dalla parte dei cittadini. Questo rapporto perso, che si coglie ben nel passaggio dal “ghisa” alla “polizia municipale”, può e deve essere rivisto e cementato con fatti concreti di collaborazione.

La tendenza alla nostalgia non deve comunque essere un fatto negativo, come riferimento ad un modello di città ormai sorpassato, ma essere di guida in un percorso della memoria, che consenta ai singoli cittadini di recuperare le motivazioni delle trasformazioni che subiscono, e sulle quali possono essere chiamati anche a decidere.

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“Energia, telecomunicazioni, informatica: accesso di cittadinanza, rete civica, riuso delle reti…”

September 30, 2015 By admin

In apertura Pier Vito Antoniazzi presentando il relatore ricorda un episodio esemplare. Nell’estate dell’84,Antoniazzi stesso e l’attuale senatore Cortiana a casa di Zampariolo,valutarono la “necessità/opportunità” (in un quadro allora bloccato,il muro non era ancora caduto…) di dare vita a Milano per le amministrative dell’85 alla novità dei Verdi. La piattaforma che si elaborò (per il solo fatto di pensare in modo innovativo e globale alla città!), il riuso delle aree dimesse ed il 50% a verde, la città da cablare, la limitazione del traffico,ecc. ha determinato le scelte degli ultimi venti anni…
“Eravamo tre amici al bar…” inizia Hermann, che intendevano far politica per incidere,”per vincere”. E se oggi Milano è la città più cablata d’Italia e se l’AEM ha tratto 600 miliardi di vecchie lire di plusvalenza da questo (più altri 250 quando ha rivenduto le sue quote a Fastweb) è anche perché uno come me espresso dai Verdi nel Cda dell’AEM ha insistito ogni riunione sui “tritubi” quelle condotte che oggi portano ovunque in città la banda larga.
Questione che la sinistra guarda sempre un po’ con sospetto: tutto questo costruttivismo non sarà roba da ingegneri,da capitalisti,di destra? Come figlio di profughi,figli di profughi, o crescevo zingaro o internazionalista. E così è stato. Se una tecnologia funziona qui,può funzionare anche nel 3° mondo…
Non possiamo dare al Sud del mondo le tv in bianco e nero..
Lenin interrogato su come si potesse riassumere il primo stadio del socialismo in Russia disse la celebre frase: “Elettrificazione più i Soviet”. Bisognerà rivederla,ma c’è oggi qualcuno in grado di fare una nuova sintesi così?
Negli ultimi 10 anni si è assistito in Italia ad un mito ed una realtà di privatizzazioni sfrenate. Dallo Stato che produceva anche panettoni o auto,si è passati di peso a “niente Stato”. Lo Stato può fare di più. L’elettricità pubblica fu una grande riforma (insieme a poche altre) del primo storico centro-sinistra (e Riccardo Lombardi che era ingegnere la citava per prima..). Oggi nell’ubriacatura di privatizzare si perdono di vista alcune coordinate. Qual è il paese della “peggio energia” (blackout,costi elevati,ecc.) ? La “privata” California. Qual è il paese della “meglio energia” (meno costosa,più diffusa,ecc.)? La interamente pubblica Francia.
Oggi l’ENEL controlla ancora quasi tutto. Ma fra poco “molla”.
Nel frattempo non si sono fatti più “piani energetici”. Si è abbandonato il nucleare e ne sono contento (nessuno ha fatto altre centrali nel mondo occidentale), ma non si sono cercate alternative più compatibili. Il gas va indietro,il carbone pulito è stato abbandonato. Il nostro eolico è 1/6 di quello tedesco. Il solare italiano è 1/4 della piccola e non particolarmente assolata Austria. Ma quello che è il massimo è che 2/3 del solare italiano è in Trentino-Alto Adige. Non si è andati avanti con il teleriscaldamento (solo Brescia e Cremona hanno fatto). Nessuno mi toglie dalla mente che quando “mani pulite” si rivolse all’AEM di Milano,chi soffiava dietro erano i petrolieri che non volevano la metanizzazione.
Comunque si può cogliere da questa situazione almeno un dato da sfruttare in positivo. La liberalizzazione del mercato dell’energia e delle telecomunicazioni può sviluppare autonomie periferiche più attente alle esigenze del territorio, più qualificate.
Come è noto il problema dell’energia elettrica è che non può essere accumulata “a riserva”. Dunque si finisce per fare impianti grandi per avere il massimo della potenza anche se serve solo in certi momenti. L’elettricità ha un costo diverso a seconda dell’ora e della stagione. Ma allora perché non intervenire sulla domanda?
Esempio: se un frigorifero si interfacciasse con l’offerta di energia così da decidere di consumare di meno quando questa costa di più ? Con strumenti informatici di feed-back sarebbe fattibile abbastanza semplicemente.
E dove farlo se non a Milano, la città più cablata,con la terza azienda elettrica del paese, con il più alto tasso di inquinamento?
Guadagnerebbe l’AEM, guadagnerebbero i consumatori,guadagnerebbe l’ambiente !
Bologna ha utilizzato le fogne per far passare il “tritubo”… E qui il Consorzio Acqua Potabile non potrebbe migliorare le sue condotte ed intanto far accedere alla banda larga l’hinterland milanese? Ci sono a Milano 5500 cabine elettriche: che farne?
Potrebbero essere snodi per una illuminazione intelligente (che oggi non c’è).
Potrebbero essere punti di accesso gratuito alle telecomunicazioni, “fontanelle” che invece di dare l’acqua a tutti come ha fatto il socialismo municipale dell’inizio secolo XX, diano a tutti il diritto d’accesso alla rete. “Le fontanelle informatiche” dovrebbero consentire “l’accesso di cittadinanza” all’informazione e comunicazione.
Oggi per un’antenna sul tetto si paga anche 25.000 euro di canone.
E se mettessimo la nuova generazione di antenne (grandi come una penna stilografica) sui lampioni ? Eviteremmo parecchio inquinamento elettromagnetico ed anche estetico. Acqua-gas-elettricità-cabine: occorre un uso coordinato delle reti.
Poiche oggi è possibile interloquire intelligentemente con tutte le macchine oltre che con le persone. Da esami medici come elettrocardiogramma o prova della pressione,al frigorifero o la lavatrice o la caldaia, dai sensori ambientali agli interruttori.
Poiché è “il vagone più lento che fa la velocità” attenzione a non lasciare indietro troppi vagoni…
Esempio: come è noto la principale azienda italiana di informatica aveva sede ad Ivrea; bene,il canavese (la zona circostante) non è cablato!! Per finire uno sguardo al mondo.. Altro esempio: in Indonesia ci sono 35 milioni di persone che hanno chiesto di avere un telefono. Per darglielo bisognerebbe investire 35 miliardi di dollari: dubito che qualcuno glieli impresterà. Se però abbinano l’investimento per portare l’elettricità a quello per il telefono (con una rete unica) forse troveranno i finanziamenti.
Ricordiamoci sempre che ci sono al mondo 3 miliardi di persone che non hanno mai fatto una telefonata (a proposito di diritti di cittadinanza).
Infine un progetto utopistico: mettere in rete Gerusalemme est (araba) con tecnologia israeliana. Un passo per la pace?

Segue discussione dalla quale emergono alcune osservazioni e proposte.
In particolare:
-una critica dello “sviluppismo” come mito di un progresso senza limiti;
-l’ipotesi che i condomini (come nuovo soggetto collettivo) diventino gruppo di acquisto/consumatore collettivo di energia e telecomunicazioni capaci di condizionare in senso più intelligente ed ecocompatibile l’offerta liberalizzata che dal 2006 dovrebbe essere una realtà;
-la rinnovata attualità di quell’esperienza di incontro tra cultura tecnica,spirito umanitario e passione civile e politica che fu il socialismo municipale milanese (per esempio nella figura del sindaco Caldara 1914-1920) che fece nascere tra l’altro istituzioni come l’AEM, le scuole comunali di formazione, strutture sanitarie ed igeniche,ecc.

**Hermann Zampariolo ,già fondatore dei Verdi milanesi e di Legambiente, già consigliere d’amministrazione AEM , già dirigente a Parigi di IBM Europe e società di Vivendi, oggi Presidente di iLight, un Consorzio di telecomunicazioni italo-israeliano.

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Antonio Monzeglio ARCI Ragazzi

September 30, 2015 By admin

Dal 1999 il 20 novembre è la giornata scelta dall’ONU quale “giornata dei bambini e dei ragazzi” sino a 18 anni, con un preciso riferimento ad una convenzione internazionale che è stata ratificata ad oggi da 184 nazioni (fra le eccezioni USA e Somalia).

A proposito di testi di legge, in Italia la legge 216 ha delimitato l’ambito della sicurezza dei bambini, sino alla legge 295 del 1997, legge Turco, che nasce anche dalla sollecitazione di Carlo Paglierini dell’ARCI Ragazzi, e sotto il titolo “Promozione dei diritti e delle opportunità”, stabilisce soprattutto una nuova metodologia, secondo la quale alle cautele protettive proprie della normativa sui minori, aggiunge anche funzioni attive di:
– protezione
– promozione della competenza
– partecipazione

In questo quadro diverse associazioni che si occupano di ragazzi hanno provato a guardare con gli occhi dei bambini la nostra città.
La prospettiva dei bambini, ad esempio sul traffico, è molto diversa da quella degli adulti, anzitutto per ovvi motivi di statura, per cui per loro le automobili sono effettivamente degli ostacoli incombenti. Va anche considerato che i bambini hanno una forma tutta particolare di trasversalità, ad esempio nell’essere mediatori culturali per le loro famiglie. Ci sono messaggi diretti ai genitori che vengono più agevolmente veicolati e con più efficacia, se fatti passare attraverso la mediazione dei ragazzi. E questo avviene in modo straordinario verso i genitori extra comunitari i cui ragazzi frequentano le scuole milanesi (35% del totale degli alunni) fornendo un veicolo privilegiato per la mediazione culturale verso le loro famiglie, nell’assenza di politiche integrative istituzionali.
Nell’ambito del rapporto fra bambini e traffico i progetti minimi risultano enormemente ambiziosi: basti pensare ai percorsi casa-scuola, un piccolo progetto che incontra ostacoli apparentemente insormontabili da parte delle autorità scolastiche e municipali. Tutto questo in una città che ogni giorno perde un pezzo dell’identità culturale più facile per i bambini: pensiamo al Lido che diventa “Infostrada Village”
A fronte di questa situazione le istituzioni sono ferme, ancorate ad una duplice mancanza di attivismo:
– i funzionari colpevoli ma non responsabili
– la politica responsabile ma non colpevole
e questo si traduce solo a Milano in 14 milioni di euro fermi in assenza di capacità progettuale e di spesa.

Con tutto il rispetto per gli anziani, attraverso una politica dei ragazzi si può costruire un modo di fare politica nuovo, che costruisca la città futura.

Proprio nell’ambito dell’imminente giornata dei bambini, il Comune di Milano fornirà uno spazio per un “question time” su traffico, piste ciclabili ed altro, all’insegna del motto “la serietà lasciamola ai bambini”.

Nella nuova amministrazione Provinciale di Milano la delega conservata in argomento dal Presidente Penati è un segnale di attenzione ed importanza, anche se in altre città importanti (Roma – Torino) ci sono dipartimenti specifici da tempo in funzione. Così come in Francia la legge ha da tempo istituito i consigli comunali dei ragazzi. Non si tratta di indurre i ragazzi a scimmiottare gli adulti ed i loro riti, ma di esperienze qualificanti che educhino alla democrazia partecipativa le giovani generazioni. A Milano dopo lo svolgimento di alcuni focus group, ci sarà una kermesse alla scuola del circo (Bastioni di Porta Volta).

In definitiva, così come avviene in questi giorni, la politica cerca di mettere il proprio cappello su iniziative che le sfuggono completamente. Si avverte in tutta la sua valenza lo slogan “una città che non c’è”, perché in assenza di riferimenti tradizionali (scuola – famiglia) niente e nessuno si fa avanti. Il tutto a fronte di un’offerta consumistica allettante anche quando respinge, come nel caso degli spettacoli televisivi con “bollino rosso”. Il consumismo è spesso l’unica offerta su piazza, con lo shopping in centro o nei centri commerciali delle periferie satellite. Così nelle proposte che ricevono i ragazzi non trovano indicazioni sulle buone pratiche possibili nella vita cittadina.

Le buone pratiche esistono e meritano di essere studiate e valorizzate. Esiste l’esempio di “mini Munchen”, un programma educativo che riproduce nei mesi estivi la vita cittadina , con le istituzioni formato baby ed un sindaco ragazzo; l’intero programma costa 180.000 € all’amministrazione comunale di Monaco di Baviera.
Questo tipo di iniziative sono già state replicate in molti piccoli centri, anche in Italia in Emilia Romagna, laddove la maggiore facilità di contatto fra amministratori e cittadini facilita la partecipazione.
La prospettiva è quella di creare una cultura che si basi sui ragazzi, per smuovere le scuole e le istituzioni. E’ il caso dei progetti di accompagnamento casa-scuola dei bambini in area metropolitana: a Milano esiste il caso della scuola Bottega – San Mamete, dove è stato creato un sistema di accompagnamento basato sul tutoraggio.

Purtroppo le attività relative ai bambini sono completamente ferme da parte delle nostre amministrazioni locali, tanto che anche l’istituzione del Difensore Civico Regionale dei bambini, è rimasto un annuncio cui non è stato dato un seguito.

A proposito della prospettiva dei bambini, se si fa con una telecamera una ripresa all’altezza di 70 cm, il risultato è triste: la fascia peggiore delle edicole, macchine che consistono di paraurti e tubi di scappamento, ma soprattutto tutto lo sporco della città che è molto più vicino ai bambini che agli adulti.

Questo brutto mondo cittadino è percepito dai bambini come normale, benché loro siano naturalmente portati al bello della campagna, della montagna, del mare. Però i bambini percepiscono una situazione di disagio verso questo loro mondo, ma senza avere gli strumenti per dissiparlo.

Un elemento che si può recuperare dalle esperienze del passato è quello della sanità, che in passato vedeva la scuola in prima fila nel campo della prevenzione, mentre oggi la redistribuzione delle competenze alla regione, via ASL e ospedali, ha scombinato le cose senza dare nuovi servizi. L’esempio macroscopico è quello dell’intervento psicologico, che è considerato argomento di medicina specialistica ed in quanto tale riservato agli ospedali, che sono del tutto assenti dal mondo della scuola. Il Comune deve tornare ad essere reale coordinatore delle politiche di prevenzione, perché il rapporto costo-risultato delle campagne di prevenzione veicolate dalla scuola è incomparabile con qualunque altro canale.
Il sostegno alla genitorialità è poi un campo di intervento molto ampio: non esistendo una scuola per diventare genitori, c’è un forte bisogno di supporto, cui mancano risposte istituzionali. La Regione Lombardia ha fatto una legge in favore della associazioni di genitori, che arriva anche a dare finanziamenti, ma non si tratta di interventi innovativi.

Tramite i bambini si può strumentalmente far risaltare alcuni problemi, in moda tale da farli emergere davanti agli occhi dei genitori: fare cento di metri di strada per i bambini, con aree di accesso alla scuola con sosta riservata negli orari di entrata ed uscita, coordinate da “mobility manager” all’interno delle scuole. Ecco una serie di servizi diretti ai bambini, ma che di fatto indicano ai grandi qualcosa che li riguarda direttamente: che una città senza auto è possibile. Si tratta di passare un tratto di evidenziatore sulla realtà.

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“MILANO e IL RUMORE”

September 30, 2015 By admin

Folco de Polzer – Libero Professionista – Tecnico Competente in Acustica Ambientale
 
Interventi di:
Piervito Antoniazzi
Caterinella Napoli
Luca Beltrami Gadola
Francesco Florulli

Alcuni spunti generali in materia di rumore a Milano, in quella Milano che è un caso limite della situazione “rumore”, perché se in altre città c’è un concreto rischio di blocco, a Milano la situazione è addirittura critica a cominciare dal rumore da traffico. Di fronte alla soluzione ideale, che sarebbe quella di spegnere il motore, ogni azione si arena, principalmente perché si è formata una cultura dell’utilizzo del mezzo privato che è dominante, e che finisce però per entrare in contraddizione con i fatti concreti.
Non ci sono troppe alternative su questo fronte: o si impedisce di fatto il traffico, oppure si trovano i modi di contrastare questa cultura dominante. La nostra situazione è esemplificata da un detto milanese degli anni cinquanta diceva che per una giovane sedotta e abbandonata era comunque meglio aver pianto su una spider che in tram. Altrettanto dovrebbe essere per il rumore.
Si dovrebbe forse mettere al centro del problema non il fattore negativo, l’automobile ma il fattore tendenzialmente positivo, ovvero il cittadino – elettore. Mettere quindi al primo posto il pedone, soggetto più fragile ed esposto, e re orientare il sistema semaforico che ha un equilibrio oggi orientato solo al flusso del traffico privato, ignorando spesso anche i mezzi pubblici, come è dimostrato dal mancato utilizzo del sistema di prenotazione semaforico installato per le tranvie. A seguire viene il ciclista, che deve essere portato a scendere in permanenza dal marciapiede, anche per evitare una guerra di poveri con i pedoni.

Altra importante sorgente di inquinamento acustico è data dai rumori cosiddetti civili, del tipo del rumore dei condizionatori d’aria.
Teoricamente la normativa italiana sur rumore è la più strutturata d’Europa, soprattutto a livello aziendale, laddove ogni tipo di attività economica in assoluto ha una regolamentazione specifica in relazione all’inquinamento acustico.
Restando comunque il traffico la principale sorgente di rumore, e tornando a Milano, si deve dire che il Comune di Milano è completamente inadempiente, non avendo ancora provveduto alla redazione del né del Piano di verifica né del Piano di risanamento, che avrebbe dovuto essere completato al più tardi entro quest’anno.
Il risanamento, che nasce soprattutto da interventi sulle strade, per una città come Milano è un impegno gigantesco se solo si pensi che il Comune di Milano ha una rete di 2.000 kms di strade, mentre la provincia di Milano nel suo insieme, senza capoluogo, ne ha solo 1.000.
In base alla normativa vigente si sarebbero dovuti seguire dei percorsi pre fissati, mentre a Milano tutto è stato affidato all’Agenzia per la mobilità, dotata di un budget di 4 milioni di euro, che dopo aver studiato un piano di zonizzazione acustica, lo ha messo in un cassetto, non senza avere aggiudicato una gara in merito del valore di 100 milioni. Troppo poco se si considera che una città come Verona, non solo più piccola, ma meno articolata di Milano, ne ha spesi quattro volte tanti, il che indica che c’è qualcosa che non va. Sembra soprattutto che manchi la volontà di applicare realmente gli strumenti esistenti.
Altrettanto difficile sembra ottenere il consenso sulle operazioni di risanamento, perché questo implica la modificazione di abitudini consolidate per fasce consistenti di cittadini. Quindi il consenso sulle operazioni di risanamento ha dei costi importanti, perché può scatenare una vera e propria rivolta di gruppi di cittadini colpiti dai provvedimenti nelle loro abitudini. O anche perché costa il tempo che è necessario per mettere in moto le opere necessarie avendo acquisito il consenso con una lunga opera di informazione e convincimento. Considerando che ogni spazio guadagnato presso una categoria, risulta in definitiva uno spazio tolto ad un’altra categoria di cittadini.
In definitiva, uscendo dall’ambito tecnico, qualunque proposta in questo ambito rischia di trasformarsi in un boomerang elettorale, perché è proprio toccando piccoli ma diffusi interessi che si metto a rischio fasce importanti di elettorato.
Il concetto tecnico e realistico di intervento concreto deve agire sugli orari di produzione dei rumori che siano in qualche modo governabili dall’amministrazione comunale, facilitando nei limiti del possibile l’inversione notte / giorno, per salvaguardare la funzione della notte come momento essenziale del riposo, nel quale il rumore risulta particolarmente malsano, oltre che fastidioso. Infatti dal punto di vista fisiologico la diminuzione della capacità di riposo ha un effetto negativo, e si deve cercare di non avere delle città che vivano h24, ma città in cui possano convivere civilmente anche dal punto di vita del rumore persone che vivono prevalentemente di giorno e persone che vivono prevalentemente di notte.
Ed insieme fare del tutto per realizzare misure concrete di riduzione del traffico automobilistico, ad esempio con la realizzazione delle isole ambientali di attraversamento e non di destinazione.

La normativa in materia si basa su di una legge quadro che risale al 1995 con una serie di deleghe al governo, che nelle sue successive formazioni degli ultimi dieci anni ha legiferato praticamente su tutte le materie oggetto di delega.
L’idea di fondo della normativa è che dal rumore discende una vera e propria patologia da rumore ambientale che sono causa di gravi disagi e forti costi sociali. Si deve considerare che tecnicamente le basse frequenze del rumore, il cosiddetto rumore di fondo, ha un ruolo importante nella formazione di stati ansiosi, che è incomparabile rispetto al rumore acuto ma limitato nel tempo.
Questo dipende dalla nostra memoria genetica, perché come il cane si appallottola perché ha nel suo DNA il senso di schiacciare l’erba, così per l’uomo il rumore è un pericolo cui si deve reagire. Il rumore in bassa frequenza finisce quindi per l’essere un pericolo costante, rispetto al quale non è possibile ottenere in alcun modo un effetto di copertura, né una funzione di tranquillante, come quando ci si trova in una casa posta su di un torrente, rumoroso ma non ansiogeno.
Dal punto di vista operativo agli enti locali oltre alla normativa di applicazione, spetta il controllo, con una collaborazione fra i vari livelli: ad esempio se un cittadino segnala un rumore molesto proveniente da un’azienda, lo segnala al Comune (vigilanza urbana) che trasmette la segnalazione all’Agenzia Regionale per l’Ambiente (ARPA). Questa fa una selezione delle segnalazioni, perché non può intervenire su tutto contemporaneamente, e quindi fa le ispezioni. Se ARPA riscontra una violazione della normativa, la segnala al Comune ed alla Procura della Repubblica, in quanto ci sono profili di rilevanza penale, ancorché sanabili con oblazione in via amministrativa.
Il Comune nel piano di zonizzazione decide i livelli sulla base di 6 classi stabilite a livello nazionale. Dal punto di vista urbanistico ogni intervento deve avere ad oggetto un’area il più vasta possibile, con una valutazione delle attività in essa prevalenti, non essendo possibile procedere per parcelle catastali.
Gli interventi sulle sorgenti di rumore possono essere vari: se prendiamo l’auto, la normativa ha di fatto progressivamente reso accettabile le emissioni, ma sono i comportamenti scorretti dei cittadini a causare problemi. Velocità e comportamenti sono i fattori essenziali: a Milano l’esempio del Ponte della Ghisolfa, con la limitazione della velocità diurna e l’eliminazione totale del traffico notturno, è un esempio evidente di questa realtà.

Il problema di fondo sta, come già accennato nella volontà reale di intervenire, e di intervenire con una visione complessiva dei problemi, che comprenda l’intero ciclo della vita urbana. Il mezzo potrebbe forse essere quello di convincere tutti (cittadini e amministratori) che un sistema ottimizzato di controllo del rumore fa costare meno la città.

Francesco Florulli Il problema delle misurazioni e degli investimenti necessari per renderle non solo operative ma anche credibili, è anche un problema di investimenti. Infatti se il costo di una centrale di rilevamento dell’inquinamento acustico (fonometro) è in sé non impossibile 18 – 20.000 € di costo fisso e non ripetibile, il costo variabile delle elaborazioni necessarie è al minimo intorno ai 2.500 € settimanali, ma può aumentare in misura significativa, perché per avere dei risultati scientificamente attendibili la stazione deve funzionare il più a lungo possibile.

Esistono alcune forme di rumore “ricorrenti” sulle quali si dovrebbe poter intervenire con sistemi di razionalizzazione delle attività che producono quegli specifici rumori: è il caso dei trituratori di vetro dell’AMSA, per i quali un diverso orario di lavoro potrebbe risolvere il problema in modo semplice e non troppo costoso, una volta adeguato i contratti di lavoro del personale dell’AMSA.

Esistono possibilità di incentivare l’eliminazione di fonti di inquinamento acustico, finanziando sistemi innovativi. E’ il caso dei condizionatori d’aria privati, che sono rumorosi, e spesso trasferiscono il disagio del caldo eliminato da un cittadino, su di un altro cittadino che acquisisce (involontariamente) il disagio del rumore prodotto. Se il Comune finanziasse la realizzazione di scambiatori di calore centralizzati nei condomini, che raccolgano l’acqua direttamente dalla falda , dopo il costo non elevato di scavo del pozzo, ci sarebbero importanti risparmi energetici, riduzione dell’inquinamento acustico che verrebbe concentrato in un’area ben difendibile delle parti comuni, e sinergie anche in materia di utilizzo dell’acqua.

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GIANCARLO PAGLIARINI

September 30, 2015 By admin

Introduzione
Piervito Antoniazzi
A sinistra storicamente c’è una posizione di chiusura verso la Lega, e verso molte delle sue posizioni, ma l’invito a Giancarlo Paglierini, uno dei padri del fenomeno leghista, avviene ancora una volta nella logica della Fabbrichetta, che è quella di mettere mano alla scatola degli attrezzi della politica. Infatti molte delle posizioni assunte nel tempo da Paglierini, politiche e di contenuto, ultima quella recentissima sulla governance delle aziende municipalizzate, hanno il segno di una politica che si interessa ai servizi resi ai cittadini, non dal punto di vista del detentore del monopolio, ma da quello del fruitore del servizio. Gli interessi pubblici e quelli degli utenti sono sempre meno tutelati. Forse i consigli di sorveglianza possono creare istanze di controllo da parte degli utenti, ancorché il nostro movimento comsumerista sia ancora complessivamente debole. Da un punto di vista più propriamente politico, l’uscita di Giancarlo Paglierini dalla Lega, fa sorgere spontaneo l’interrogativo sul destino del percorso che la Lega sta compiendo da vent’anni in qua.
 
GIANCARLO PAGLIARINI
Consigliere Comunale a Milano Revisore dei Conti
Raccolgo la domanda e la sfida, riproponendo la domanda e la sfida a questo proposito, che era e resta quella di quindici o venti anni fa: come si fa a non votare Lega ? E questo a prescindere dai toni recentemente assunti da troppe manifestazioni della Lega, o dall’appiattimento sulle posizioni di Forza Italia e del suo leader. Il punto è che le motivazioni sulle quali la Lega è nata sono ancora là, intatte e oggettivamente descritte dai numeri del nostro stato e della nostra economia. Infatti l’eccesso del fenomeno che viene riassunto con il termine “assistenzialismo” impedisce una normale dinamica economica alle imprese, in particolare limitando gli investimenti in ricerca e sviluppo da parte delle nostre imprese, indirizzando risorse dove non sono produttive di reddito. tre tabelle di dati ISTAT – anzitutto la pressione fiscale, che al 50,57 % reale toglie respiro ma soprattutto competitività alle imprese: le imprese irlandesi con una pressione al 32% o quelle inglesi al 37,8% sono evidentemente avvantaggiate;
 
PIL Pressione Ufficiale % “nero” meno 20% reale PIL 1.417.241 100,0% 20% 1.133.793 100,00% Tasse 390.911 27,6% 390.911 34,48% Contributi sociali 182.416 12,9% 182.416 16,09% 573.327 40,45% 573.327 50,57% è da notare che il dato ufficiale comprende anche il lavoro “nero”, che è parte integrante del nostro PIL (pochi oggi ricordano che fu una decisione del governo Craxi di integrarlo, mai cancellata dai successivi governi) – il secondo dato riguarda il costo della pubblica amministrazione che nel suo insieme è insopportabile, perché nel suo insieme costa più delle entrate dello stato Biancio consolidato di tutte le PA. 2005 Miliardi % di euro incassi Tutte le tasse (390.911) e tutti gli altri incassi 446,7 100,% Costo del lavoro dei dipendenti delle PA (155,5) (34,8%) Tutte le altre spese (225,5) (50,5%)
 
Soldi che crescono ma non sono sufficienti per “toppare” i due buchi 65,7 14,7% Contributi sociali 182,4 40,8% Costo della previdenza e dell’assistenza (241,7) (54,1%) “Buco” previdenziale (59,3) (13,3%) Piccolo surplus primario 6,4 1,4% Interessi passivi (64,5) (14,4%) Deficit del 2005 (58,1) (13,%) Detto in breve, da questa tabella appare chiaramente che le aziende non hanno soldi da investire perché con i proventi delle tasse viene pagato il buco previdenziale. – infine le nostre 100 e passa tasse, delle quali le prime 10 rappresentano il 90% del gettito fiscale complessivo, il che indica che il problema non sta nelle troppe tasse, ma nel sistema in sé 1 IRPEF 140.759 36,0% 2 IVA 83.152 21,3% 3 IRAP 34.587 8,8% 4 IRPEG 29.965 7,7% 5 Imposta sugli oli minerali e derivati 23.809 6,1% 6 ICI 11.600 3,0%
 
7 Tabacchi 8.971 2,3% 8 Ritenute sugli interessi e su altri redditi da capitale 6.903 1,8% 9 Lotto e lotterie 5.536 1,4% 10 Imposta di registro 4.957 1,3% 350.239 89,6% Tutte le altre tasse 40.672 10,4% Totale tasse 390.911 100,0% Altri soldi incassati dalle Pubbliche Amministrazioni 55.791 Totale 446.702 E sia chiaro, tanto per smentire un luogo comune sulle posizioni economiche leghiste e federaliste, che in tutto questo l’arrivo dell’euro è stato molto positivo per noi, come dimostra l’andamento del debito pubblico e degli interessi passivi che ne derivano, prima e dopo l’avvento dell’euro: 1990: debito pubblico e costo degli interessi passivi 663 100% 72,0 2005: debito pubblico e costo degli interessi passivi 1.508 227% 64,5 Il vero nodo quindi sta nell’intreccio fra una pressione fiscale alta ma che redistribuisce in termini di assistenzialismo, ed un buco previdenziale, che da un lato corre veloce, ma soprattutto corre in modo ineguale fra diverse Regioni, anche per diverse situazioni rispetto all’evasione (false pensioni, lavoro nero etc), come dimostrato dalla tabella che segue,
 
Contributi sociali, previdenza e assistenza Versati dai datori di lavoro 128850 Versati dai lavoratori 52976 Altri 590 Soldi che entrano 182416 Pensioni 222369 Assistenza 19323 Soldi che escono 241692 “Buco” finanziato con le tasse (59.276) Lombardia 2.625 Veneto 453 Tutte le altre Regioni (62.354) (59.276) Oltre alla necessità di chiudere questo buco, c’è anche la necessità di avviare un vero federalismo, che non è una minaccia razzista, ma solo la necessità economica che le regioni che spendono più di quello che hanno (Sicilia, Calabria, Puglia, Campania, Lazio, Piemonte), non facciano ricorso alla cassa “comune” dello Stato, ma intraprendano una strada, che magari durerà altri venti anni, ma che alla fine le riporti ad un equilibrio fra entrate e spesa.
 
Siamo arrivati al centro della questione, il federalismo, ma a proposito di spesa previdenziale è necessaria una parentesi: non si tratta solo di chiudere un buco enorme esistente, ma di evitare che diventi una voragine tale da affossare del tutto la nostra economia: infatti il nostro sistema previdenziale, concepito negli anni cinquanta e nato vecchio, non regge al progresso demografico ed all’invecchiamento della nostra popolazione, dato dalle migliorate condizioni di vita. Il dato fornito da Wim Kok, sindacalista ed ex premier olandese, nel suo “Rapporto sullo stato di avanzamento della strategia di Lisbona”, non lascia spazio a discussioni: “Old age dependency ratio” Oggi 2050 Italia 29% 61% U.K. 24% 42% E.U. 26% 49% Il nostro sistema previdenziale così com’era, fondato sull’accantonamento da parte di chi lavora per pagare chi è in pensione, è destinato a saltare, perché non può essere finanziato da una minoranza di persone attive rispetto ad una larga maggioranza di pensionati. A causa di queste situazioni stiamo perdendo posizioni ogni anno nelle classifiche che riguardano la competitività e le libertà economiche. Dall’estero gli investimenti in Italia sono quasi azzerati, e siamo sempre più poveri, con un PIL pro capite a 27.700 dollari l’anno, economia sommersa inclusa, che ci fa scendere al 30° posto nel mondo, mentre solo pochi anni fa eravamo fra i primi 10. Il federalismo quindi è una necessità assoluta, perché è l’unico sistema che può permettere:
 
 
– redistribuzione corretta del gestito fiscale – riduzione vera dell’evasione – maggior controllo della spesa pubblica – inversione del flusso: non più “cittadini > centro > periferia”, ma “cittadini > periferia > centro” Certo il federalismo per essere tale deve poggiare su presupposti molto forti, anche dal punto di vista politico, che consentano di avere regole di autonomia sostanziali: senza voler prendere a modello i nostri vicini della Confederazione Svizzera, il paragone può essere fatto con la Spagna e con il livello di autonomia della “Generalitat de Cataluna”. Il modello catalano si basa su alcuni principi che lo rendono interessante: – Competenze esclusive e competenze concorrenti, esistono così come nella nostra Costituzione aggiornata, ma in Catalogna le competenze esclusive sono tantissime, altro che la nostra “devolution” e le competenze concorrenti funzionano veramente. Per limitarci ad alcuni esempi, oltre a materie tipiche della competenza locale come agricoltura, trasporto e sicurezza pubblica, ci sono anche competenze delicate e decisive, come quelle sulle casse di risparmio, la borsa, i brevetti, il sistema giuridico locale che incidono in modo profondo sulla vita delle imprese e dei cittadini. Ed anche materie importanti per le sensibilità locali, come l’immigrazione, l’organizzazione e le responsabilità delle pubbliche amministrazioni o l’amministrazione penitenziaria. – Rapporti chiari con la Stato centrale: esiste una Commissione mista Stato-Generalitat per gli affari economici e fiscali. E’ un organo bilaterale con presidenza attribuita a rotazione, decide la percentuale dei tributi statali che vengono ceduti parzialmente dallo Stato alla Catalogna ed i contributi propri della Catalogna. ai meccanismi di solidarietà e perequazione. Inoltre calcola il costo dei servizi che lo Stato dà alla regione autonoma. – Autonomia delle entrate: la Generalitat dispone di finanze autonome per far fronte ai compiti del suo autogoverno. In questo modo le entrate tributarie proprie, si sommano a quelle cedute dalle Stato interamente o parzialmente (compartecipazioni) dallo Stato. – Meccanismo di solidarietà: per gli interventi statali di solidarietà per istruzione, sanità e altri servizi sociali essenziali la Catalogna partecipa “siempre y cuando lleven a cabo un esfuerzo fiscal tambien similar”
 
Trasparenza! E’ quello che serve qui da noi. Art 206 comma 4: ” i meccanismi di perequazione e solidarietà si realizzano nel rispetto del principio della trasparenza”. In Italia, con poche eccezioni, di trasparenza non parla mai nessuno. In Spagna i cittadini hanno capito che la trasparenza è la chiave per l’efficienza e per togliere potere ai tanti che ne fanno un pessimo uso. In Italia si può fare qualcosa, senza pretendere di fare tutto e subito; si può pensare ad alcune fasi successive: 1. passare dal federalismo fiscale al federalismo fiscale e contributivo 2. eliminare le Province, fonti di spreco e di ulteriore sovrapposizione delle competenze 3. Lavorare sull’Articolo 117 della Costituzione: lo Stato deve fissare i principi fondamentali relativi al lungo elenco di “sovranità concorrenti”. “Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato” Identificare i compiti di Regioni e Comuni. Valorizzarli pro-capite con costi standard. Il risultato (numero dei residenti moltiplicato per i vari costi standard) viene finanziato, in ogni singola Regione, con la compartecipazione ad un tributo erariale. Partendo da questi contenuti e con questi obbiettivi la riforma federale dello stato si può fare.
 
INTERVENTI DELLA FABBRICHETTA
Interventi di Piervito Antoniazzi. Luca Beltrami Gadola Agostino Fornaroli Francesco Florulli.
A proposito del problema previdenziale – demografico, come affrontare la questione dell’espulsione dei cinquantenni dal mondo del lavoro, che contraddice il meccanismo descritto ?
R – “Il fenomeno è complesso e riguarda prima di tutto le aziende, ma dobbiamo anche chiederci di fronte al turn over per età perché questo fenomeno avviene in Italia e non in Germania o in Inghilterra. Ci sono probabilmente anche fattori strutturali.
D – Cosa pensa delle diverse risultanze del poco di federalismo che abbiamo, in Valle d’Aosta o nelle Province autonome di Trento e Bolzano ?
R – Effettivamente i risultati sono contraddittori, ma dipende dalle situazioni locali integrate in un sistema che non funziona.
D – Una domanda politica: quale futuro per la Lega?
R – “Il mio metro di valutazione è quello della utilità concreta per il sistema paese, e devo dire che purtroppo oggi come oggi non vedo nessun futuro. Oggi la Lega è, come dire, “un’altra cosa”. Per le elezioni politiche di Aprile 06 ha accettato il programma elettorale della CDL nel quale
1) nella sezione “Fisco” non c’era nessun riferimento al federalismo fiscale.
2) nella sezione intitolata “SUD Piano decennale straordinario per il superamento della questione meridionale” si prevedeva un “Federalismo fiscale solidale e misure di fiscalità di sviluppo (compensativa) a favore delle aree svantaggiate”.
Questo vuol dire che se la CDL avesse vinto le elezioni avremmo dovuto trasferire ancora più quattrini dalle nostre Regioni a quelle del Mezzogiorno e vi ho già detto che questo significa minori investimenti in ricerca, sviluppo, nuove tecnologie e nuovi prodotti. In sintesi meno competitività, meno investimenti, meno lavoro e più povertà. Se la gente fa fatica ad arrivare alla fine del mese la colpa non è certo dell’Euro ma dell’enorme assistenzialismo che ci rende ogni giorno meno competitivi.
Infine 3) nella sezione intitolata “Finanza pubblica” il programma della CDL prevedeva di ridurre il debito dello Stato tramite la vendita di patrimonio pubblico, che per la maggior parte non è di proprietà dello Stato ma è proprietà delle nostre Regioni e dei nostri Comuni. Quando ho letto quel testo non potevo credere ai miei occhi.
Così come faccio ancora oggi molta fatica a credere a certe dichiarazioni di Gianpiero Fiorani es. amministratore della Banca Popolare di Lodi, dalle quali sembra che la Lega abbia “venduto” il suo voto a favore di Fazio durante la discussione della legge sul risparmio. Ho chiesto spiegazioni, ho aspettato con pazienza i congressi ma di fronte al silenzio non ho potuto fare altro che andarmene. Senza sbattere la porta perché per Bossi sento ancora affetto, ma è certo che per la Lega di oggi non riesco a vedere un futuro. Naturalmente spero che torni ad essere quella di una volta: liberista e seriamente impegnata per una riforma federale di cui il paese ha sempre più bisogno ogni giorno che passa.”
 

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CARCERE: UN GHETTO IN CITTA’ ?

September 30, 2015 By admin

Valerio Onida
Professore di Diritto Costituzionale
Presidente Emerito della Corte Costituzionale

Fra le proposte di discussione concreta sulla Milano che viviamo e che vorremmo far cambiare, la Fabbrichetta ha colto l’occasione di interrogare il professo Valerio Onida, Presidente emerito della Corte Costituzionale, non dei molti temi propri della sua esperienza accademica e professionale, ma della sua sfera privata, poiché Valerio Onida si occupa come volontario della condizione carceraria. Uno dei molti argomenti sui quali il Comune di Milano potrebbe avere voce in capitolo.
Il tema è interessante, perché se solo passasse concretamente questa idea, ci sarebbe un enorme passo avanti nella considerazione dei temi carcerari, perché la realtà odierna è che di carcere non si occupa compiutamente neanche chi dovrebbe prendersi cura dell’istituzione carceraria nel suo complesso.
E’ considerazione evidente che la città si occupa dei propri luoghi, nei quali vivono i nostri concittadini. Tale è anche il carcere, e tali sono, anche se spesso lo si dimentica, i carcerati.
Non molti sanno che molti carcerati chiedono la residenza nel comune di reclusione, per poter risolvere in modo più pratico i loro problemi amministrativi. Ad esempio a San Vittore si reca periodicamente un impiegato comunale per gestire lo sportello . Analogamente l’amministrazione municipale si occupa di facilitare l’accesso ai luoghi di reclusione periferici con linee regolari di mezzi pubblici.
Milano ha quattro istituti carcerari maggiori, San Vittore, Opera, Bollate e il Beccaria per i minori. Il più vecchio e centrale, San Vittore, assolve ormai la funzione di custodia di detenuti in attesa di giudizio, che non scontano una pena definitiva, ma sono in regime di custodia cautelare. Per questo a San Vittore non si applicano tutti gli istituti del regime penitenziario, e quindi ad esempio il lavoro e la cultura non sono dei diritti. Giuridicamente si tratta di una situazione corretta a norma di legge, ciò non toglie che si pongano dei seri problemi pratici.
Opera e Bollate sono strutture relativamente recenti, anche se invecchiate in fretta ed in modo diverso fra loro, mentre al minorile Cesare Beccaria i giovani detenuti restano sino al 21° anno, prima di affrontare il salto, spesso drammatico, verso il carcere ordinario.
Questo mondo appartiene alla città, e qualcuno dice che le carceri contribuiscono a valutare il grado di civiltà di una nazione.
Questo principalmente perché il carcere ha un valore rieducativo, anche se oggi è un dato di fatto acquisito che tale non sia per chi ci arrivi da situazioni marginali per motivi sociali, economici o familiari. Il carcere dovrebbe essere un momento privilegiato per occuparsi di queste persone marginali, altrimenti così difficili da controllare e persino abbordare per l’istituzione. Purtroppo anche questa occasione non viene colta, non ostante, come spesso accade in Italia, l’esistenza di una buona legge, che però viene spesso male applicata. C’è una distanza siderale fra le belle esposizioni ed aspettative delle leggi, e la realtà carceraria.
Ad esempio l’art 20 della legge sull’ordinamento carcerario dice che il lavoro è obbligatorio, ma poi nelle carceri italiane solo il 20% dei detenuti ha un lavoro interno o esterno. Bollate arriva al 50%, e questo ne indica la situazione privilegiata. Il motivo delle differenze sta nelle strutture e nelle risorse: il sovra affollamento delle strutture è un fatto noto, e laddove manca la struttura minimale non è possibile pensare a spazi per il lavoro.
Ma le risorse sono anzi tutto gli uomini: la polizia penitenziaria non copre mai interamente gli organici né ha rapporti numerici adeguati agli standard internazionali. Si assiste invece ad un fenomeno di cattiva distribuzione geografica delle risorse umane, tema ricorrente nella nostra amministrazione pubblica così sbilanciata in termini di personale verso il mezzogiorno.
Tuttavia il rapporto fra polizia penitenziaria e detenuti è generalmente buono, non mancano le opportunità di formazione.
Del tutto carente è invece il livello delle risorse nelle aree del personale non di custodia: educatori, psicologi ed altre categorie sono rarissimi, al punto che si stima siano poco più di 200 in tutta Italia.
Ci sono poi limitazioni fortissime per tutto quanto costa, dall’acqua calda alla carta per scrivere, sino al capitolo delicatissimo della sanità. Il detenuto ha per legge, tutti i diritti del cittadino in materia di salute, e se prima esistevano strutture sanitarie all’interno del carcere, nel regime del Servizio Sanitario Nazionale è l’Azienda Sanitaria Locale a dover assicurare le prestazioni a tutti i carcerati, cittadini e non. Ovviamente le particolarità della condizione carceraria si riflettono sulle prestazioni sanitarie, perché il carcerato non è libero di spostarsi autonomamente né in modo programmato solo in funzione dei suoi bisogni sanitari, il che pone un serio problema organizzativo.
A Milano presso l’Ospedale San Paolo c’è un reparto di degenza riservato ai detenuti, ma ovviamente è poco per le quattro strutture di reclusione milanesi.
Stante questa situazione il problema è cosa fare.
Alcuni enti locali nominano un garante dei diritti dei detenuti, fra essi tanto il Comune di Roma che la Provincia di Milano. La cosa in sé potrebbe anche avere un valore, purtroppo questi enti non hanno né poteri reali né strutture su cui appoggiarsi, e quindi si finisce per essere condizionati dalla personalità del garante.
Che poi esiste già per legge, ed è il magistrato di sorveglianza, ovvero colui che ha, fra gli altri, il compito di sorvegliare la corretta gestione della struttura carceraria. Nella realtà gli altri numerosi compiti del magistrato di sorveglianza (in particolare amministrativi in relazione al calcolo ed alle modalità della pena per ciascun detenuto) finiscono per essere prevalenti, e quindi la figura determinante diviene quella del Direttore del carcere, come ad esempio a Bollate.
Ben vengano queste figure se propositive, ma spetterebbe alla amministrazione penitenziaria nel suo insieme l’azione concreta, e non le sole iniziative di bandiera molto visibili ma poco reali.

L’ente locale ha funzioni che interagiscono in modo sostanziale col mondo carcerario, prima fra tutte la competenza sui servizi sociali , che si occupano di raccordare i detenuti che stanno anche parzialmente fuori dalla struttura, in regime di semi libertà. Ha poi competenza sull’edilizia, il che non è secondario perché se come vuole la teoria la pena dovesse essere scontata principalmente fuori dal carcere allora una politica edilizia per il carcere avrebbe un impatto serio. Potrebbe infatti incidere sulla detenzione domiciliare, che spesso risulta impossibile per la pratica mancanza del domicilio specificamente per i detenuti extra comunitari, ma anche per molti cittadini. E’ il caso delle detenute madri, che se hanno figli minori di 10 anni, e in assenza del rischio che possano commettere reati gravi, dopo avere scontato 1/3 della pena possono accedere alla carcerazione domiciliare.
Inoltre il Comune si occupa di lavoro interviene in prima persona sul mercato del lavoro, e questo è un tema centrale per il detenuto, che se non ha lavoro oggi in carcere, ben difficilmente potrà trovarlo domani quando dal carcere uscirà. La legge Smuraglia aveva dato 6 mesi di sgravi fiscali a chi assumeva un detenuto all’uscita dal carcere, ma dovrebbe fare seguito un’assunzione a tempo indeterminato, e questo avviene raramente, per motivi legati alla congiuntura economica.
Ancora, il Comune ha competenza sulla cultura, ma interviene oggi solo con la limitata fornitura alle biblioteche del carcere, laddove potrebbe intervenire con risorse aggiuntive. C’è un esempio della Regione Lombardia che paga personale integrativo che ha funzione di supplenza rispetto alla citata carenza di organici.
Peraltro è evidente che per fare ci vogliono risorse, anche solo per creare le condizioni materiali del pratico utilizzo delle risorse stesse. Si può parlare di una miriade di micro progetti che potrebbero essere supportati con un minimo impegno da parte dell’ente locale.
(Viene citato il caso della costruzione di un bagno nuovo per l’asilo nido di San Vittore, finanziato da privati e realizzato nella sostanziale indifferenza dell’istituzione e nella competitività fra organizzazioni volontariato).
Spesso il problema si limita all’assenza di coordinamento: nella stessa amministrazione penitenziaria c’è grande lentezza per arrivare all’applicazione della pena, figuriamoci della lentezza con la quale i detenuti possono fruire dei benefici di legge. Il solo collegamento informatico reale svecchierebbe l’amministrazione dando maggiore efficacia al suo lavoro.
Esiste un esempio evidente della carenza di coordinamento: la legge di riforma dell’ordinamento carcerario, prevedeva l’istituzione di “Consigli di aiuto sociale” in ogni distretto di Corte d’appello. Questi enti, presieduti dal Presidente del Tribunale avrebbero dovuto avere ampie competenze su tutti gli aspetti della vita carceraria, ed essere finanziati con la cassa ammende dei tribunali. Non ne è entrato in funzione neanche uno, e le loro funzioni di coordinamento non sono svolte da nessun altro organo.

C’è poi il lungo e complesso capitolo degli stranieri: certamente non tutti gli stranieri che arrivano sono tutti delinquenti. Oggi gli stranieri rappresentano il 30% della popolazione carceraria a livello nazionale, mentre se ne stima una quota intorno al 10% della popolazione nazionale. Questa quota supplementare è dovuta all’assenza di quella rete esterna di supporti che conduce in condizioni normali ad evitare il carcere, e quando ciò non è possibile, ad affrontarlo con la disponibilità dell’appoggio familiare all’esterno. Così il carcere è pieno di detenuti che scontano pene brevi, sino a tre anni, alle quali quasi tutti gli italiani sfuggono.
Se il comune collaborasse in maniera attiva nella gestione del processo di rilascio dei permessi di soggiorno, oggi svolto dalla Polizia di Stato con spirito di sacrificio, ma nessun mezzo supplementare, si avrebbero famiglie più rapidamente e compitamente integrate. E questo finirebbe per evitare marginalità, e nel caso, di dare un supporto ai detenuti, per non fare del carcere una condizione irreversibile e prolungata nel tempo.

Su tutto questo il Comune potrebbe intervenire, ma con fantasia e buona volontà molto si potrebbe fare. Si tratta in primo luogo di intervenire in modo coordinato con altri enti pubblici aventi competenza sul carcere, dalla magistratura alla stessa amministrazione penitenziaria, alla sanità pubblica, e con gli enti privati quali il settore del volontariato. Questo complesso di enti funziona meglio e con maggiore efficacia se c’è un coordinamento ed un supporto, innanzi tutto tecnico, non necessariamente finanziario.

Il Comune di Milano non è decisivo ma neanche del tutto assente: c’è un Osservatorio Comune/Carcere, coordinato dal Dirigente dell’Assessorato ai servizi sociali, che si occupa di coordinare gli interventi delle associazioni di volontariato. Ci sono iniziative minime, come 3 appartamenti messi a disposizione ad Opera per i permessi e la semi libertà, su fondi Cariplo, peraltro non permanenti. Si tratta di rendere continuativa e coerente questa politica.

Il volontariato e l’intervento sostitutivo dell’ente locale non possono essere anche letti come l’abdicazione dello stato dai suoi compiti in materia di rieducazione ? E la gestione del rapporto con il volontariato, non è legata a politiche di breve respiro ed a strutture che poi sono di potere o sotto potere economico ? Nell’esaminare le responsabilità politiche dell’ente locale in materia carceraria questi dubbi non sono eludibili. Anche perché che la responsabilità sia politica, giudiziaria, istituzionale, quello che è certo è l’impatto dell’universo carcerario sulla realtà sociale.

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“E’ ancora possibile limitare il traffico a Milano?”

September 30, 2015 By admin

Prof Marco Ponti
Docente di Economia dei trasporti
Politecnico di Milano
Introduzione di Pier Vito Antoniazzi

Corriamo volentieri il rischio di ripeterci ricordando che la Fabbrichetta è nata per rinnovare la scatola degli attrezzi necessaria per ragionare su Milano, anche con un occhio alle idee ed alle cose concrete da trasmettere al candidato sindaco della sinistra. Il tema del traffico è di portata tale da fare tremare le vene nei polsi, ma la sinistra ha saputo in passato affrontarlo in modo innovativo, a partire dai ragionamenti. Così tra il 1985 ed il 1990, quando in Consiglio Comunale la discussione a proposito del secondo referendum sul traffico (che voleva estendere ai bastioni il limite) venne drammaticamente cancellata e rinviata sine die a causa della morte durante l’ultima seduta consiliare di legislatura del socialdemocratico Cucchi. Così nel 1989, quando il primo allarme anti inquinamento venne lanciato a seguito dei lavori di una commissione coordinata da Bruno Ferrante, all’epoca capo di gabinetto del Prefetto Caruso. Per la prima volta un’amministrazione ammetteva l’esistenza del problema inquinamento, per di più in una città come Milano che “per antonomasia” non si può fermare. Dopo quella stagione innovativa il comune sull’argomento si è limitato a fare da comparsa, lasciando la scena in parte alla regione.
Chiediamo oggi a Marco Ponti, che studia da tempo i problemi del traffico, di darci il suo contributo per ragionare sui problemi del traffico a Milano, e su cosa aspetta la prossima amministrazione comunale.
Il problema traffico ha soluzioni, ma non ricette magiche: non c’è una misura unica che risolve tutto, ma una serie di misure parziali, anche pesanti per come possono incidere sulla vita dei cittadini, che vadano in una direzione unica, quella della riduzione complessiva del traffico cittadino.
Questo innanzi tutto perché Milano, come molte altre metropoli, soffre dell’effetto detto dei vasi comunicanti: se si ferma totalmente il traffico in centro, immediatamente si rende caotico il traffico in periferia, ed analogamente per l’inquinamento che ne consegue.
E’ anche vero che basta poco per ottenere dei risultati, magari piccoli, che pero devo essere stabilmente acquisiti per avere un effetto concreto e per evitare i vasi comunicanti. La stabilità degli effetti è il nocciolo del problema di qualunque misura di regolazione del traffico.
Ci sono anche aspetti sociali che inducono a non pensare a misure uniche e drastiche: non si può demonizzare il traffico generato da quanti arrivano ogni giorno in macchina dagli insediamenti urbani più o meno lontani dal centro cittadino, perché queste persone sono nella quasi totalità cittadini che, privi di alternative sostenibili, sono sfuggiti agli alti costi della città.
Una delle proposte comunque sul tappeto è quella del “road pricing”, e su questa la prossima amministrazione dovrà non solo lavorare, ma produrre risultati. In proposito si possono fare alcune asserzioni anche provocatorie: se seguissimo l’esempio di Londra a Milano i cittadini che usano il mezzo di trasporto pubblico potrebbero essere pagati invece di pagare il biglietto, e se ci limitassimo a quello francese, quei cittadini potrebbero semplicemente non pagare nulla. Questo perché i costi di esercizio delle aziende di Londra o Parigi sono enormemente inferiori a quelli nella nostra azienda municipalizzata, ed è doloroso a dirsi, principalmente per la componente di costo del personale. Non che i guidatori ATM abbiano stipendi principeschi, ma da un lato c’è una scarsa produttività dovuta alla scarsa efficienza del sistema del trasporto pubblico, e dall’altro sono stati innescati meccanismi corporativi tali che oggi in ATM guadagna di più chi lavora di meno. Ci sono incredibili residui di passato che si mischiano a nuove intolleranze, come il divieto di assumere nelle società di trasporti personale non di nazionalità italiana, ciò che preclude l’accesso a fasce di lavoratori a più basso reddito.
Per iniziare una spirale virtuosa, fatta di piccoli passi, con effetti stabili, potremmo spostarci rapidamente da una situazione vicina a quella del Cairo (con tutto il rispetto per la capitale egiziana) ad una più prossima a Stoccolma: basterebbe cambiare la politica delle sanzioni. Sui comportamenti scorretti, l’Economist ha recentemente definito Milano la capitale mondiale della sosta in doppia fila, ed un fondo di verità c’è. Il fatto certo è che per qual comportamento, la sosta in doppia fila, altrove, a partire dagli Stati Uniti, c’è certezza di sanzione. Da noi certezza di impunità, ma peggio di tenere un comportamento accettabile, ed economicamente vantaggioso: col basso numero di multe ricevute, parcheggia quotidianamente in seconda fila non costa più di un caffé al giorno. Se invece la sanzione fosse certa e il comportamento ci sarebbe un effetto di civiltà e di educazione, aggiustando inoltre il prezzo complessivo, perché aumenterebbe, in termini di multe o di spesa per parcheggio, la spesa complessiva di chi in città può o deve permettersi di entrare, a vantaggio di tutta la collettività. C’è il problema più vasto della sosta delle auto dei residenti, per il quale si calcola che ¼ delle auto siano parcheggiate in permanenza in divieto di sosta.
Il sindaco uscente ha ottenuto la nomina a Commissario straordinario per il traffico, sperando di affrancarsi dagli interessi di partito, ma poi non ha saputo resistere alle pressioni di Alleanza Nazionale che ha cavalcato la tigre del rifiuto della rigidità delle norme. Esempio lampante quello della restrizioni degli orari per le consegne ai commercianti, che sono state sì limitate ad uno specifico orario, ma con una riserva, con la quale sono fatte salve “le esigenze produttive o commerciali”, ovvero tutto. Ed infatti non ci sono più limitazioni.
Una delle cose più banali da fare sarebbe provvedere a ridisegnare l’arredo urbano, ad esempio facendo marciapiedi più alti, per evitare che le macchine ci salgano, e con corsie bene disegnate, rendendo evidente dove non è ammessa la sosta.
Misura altrettanto banale, ma di forte impatto, vietare completamente la sosta nelle aree ad almeno 30 metri dai semafori, perché l’efficienza complessiva del sistema dipende dal numero di auto che passano ad ogni tempo di verde.

Uno degli effetti combinati di tutte queste misure sarebbe quello di liberare il trasporto pubblico, che presenta tutta una serie di aspetti specifici su cui intervenire. Quello delle corsie riservate al mezzo pubblico è un argomento caldo: si potrebbe renderle fruibili per auto con almeno 3 persone a bordo, auto a basso impatto ambientale (elettriche) o semplicemente che paghino un ticket elevato, perché queste sono le leve del “road pricing”: il ricco paga per gli altri, e le tariffe contengono elementi di equità più forti dei divieti.
Parlando di mezzo pubblico, fra tram ed autobus ecologici la scelta se orientata solo economicamente non può che essere per l’autobus, perché il tram essendo anelastico ha bisogno di un sistema di protezione e supporto dei binari costoso. L’autobus ha rispetto al tram un costo infrastrutturale di circa ¼, ma senza essere legato ai binari serve più gente ed evita la cosiddetta “rottura di carico”, ovvero il cambio di mezzo, tipica del tram.
C’è il mito del ferro, inteso principalmente come treno, sul quale è bene non farsi illusioni: solo una piccola percentuale di utenti può essere realisticamente spostata dalla gomma al ferro, anche per i costi enormi delle infrastrutture necessarie, che rendono il nostro trasporto su ferro il più caro d’Europa.
Ed a questi altissimi costi corrispondono miglioramenti reali limitati, anche a fronte di potenzialità smisurate: la linea Milano – Torino sulla quale viaggiano oggi 28 treni semivuoti al giorno, avrà a linea completata una potenzialità di 350 treni al giorno. Che non sembra potrà essere sfruttata adeguatamente, rendendo l’enorme investimento davvero poco razionale.
Il mezzo pubblico e la politica dei trasporti sono in stretta relazione con quello della densità urbana e della rendita degli investimenti immobiliari: tornando alla fascia di popolazione che ha lasciato la città, per insediamenti urbani a prezzi più accessibili, l’arrivo di una linea metropolitana ha un effetto dirompente, creando nuove tensioni economiche e sociali in quegli insediamenti. Questo perché c’è una relazione problematica fra trasporti pubblici e densità:le alte densità facilitano l’efficienza dei mezzi pubblici, limitando la dispersione del trasporto, ma innescano processi di tensione sulla rendita immobiliare. In questo senso i vincoli facilitano la rendita, mentre il liberismo sfrenato in materia di trasporti, all’estremo farebbe crollare i prezzi.
Anche le metropolitane sono un ottimo modo di viaggiare in città, ma hanno un costo altissimo e investimenti di questo tipo non possono essere affrontati soltanto capitalizzando alcune proprietà comunali per fare cassa: è necessario un consenso sul livello di investimenti e sui progetti, che vanno comunicati alla popolazione, il cui consenso è necessario.

Il problema sta nel modello di vita che va in un’altra direzione, e non si tratta di fatto milanese: in Veneto è stato fatto un piano di trasporti ferroviari che avrebbero dovuto portare molti pendolari ad abbandonare l’auto, ma è stato il piano ad essere abbandonato dopo due anni, perché i treni continuavano a viaggiare vuoti negli orari di morta e ad essere insufficienti in quelli di punta. Non si deve poi dimenticare che il sistema ferroviario è fatto di monopoli (pubblici, semi pubblici e privati) non contendibili, che aggiungono alle aspettative dei loro azionisti quelle dei loro dipendenti, generando possibili tensioni sociali non secondarie.
Un nemico forte della politica dei piccoli passi stabili è proprio l’insieme delle corporazioni, che hanno una capacità di alzare la voce e di farsi ascoltare dalle istituzioni e dalla collettività, evidenziando i loro problemi a scapito di quelli di tutti. Oltre ai dipendenti dei monopoli, basti pensare ai commercianti.
Certamente sono da contare fra le misure da perseguire all’interno dei piccoli passi, le piste ciclabili, sulle quali anche io ho avuto dubbi in passato, ma l’esempio delle grandi città del nord è positivo, e quindi che siano piste vere e proprie, marciapiedi allargati o percorsi verdi, ben vengano.

Un’alternativa al “road pricing”, argomento trasversale in diverse misure possibili, è quello del “park pricing”, in particolare a Milano. Infatti Milano non è Londra, ha una conformazione urbana tale per cui il ticket avrebbe un forte impatto sociale. Fare invece pagare a tutti il parcheggio è economicamente più facile, anche se le controversie sugli aspetti giuridici ed il timore di reazioni sociali forti, non hanno fino ad oggi fatto fare passi significativi su questa strada.
Il parcheggio sotterraneo è un utile supporto alla politica della sosta regolamentata, anche se ci sono le resistenze degli urbanisti e se le esperienze non sono tutte positive.
Tutte queste misure si possono definire discriminazioni dei comportamenti: possono essere proposte a proposito delle emissioni, favorendo quindi la circolazione dei veicoli a basso impatto ambientale (euro 4 ecc.). Anche queste politiche hanno un impatto sociale, perché non si possono obbligare le categorie a basso reddito a cambiare auto, ma il risultato da conseguire è troppo importante a livello complessivo per farsi fermare da queste considerazioni.
Anche le dimensioni dei veicoli devono diventare una discriminante: lo spazio pubblico è un bene cui va dato il giusto valore, ed un SUV deve pagare più di una Smart, indipendentemente dal fatto che questa possa essere una quarta macchina.

All’interno di una politica di questo tipo anche la realizzazione di viabilità sotterranea con tunnel riservati alla circolazione delle auto, potrebbe essere parte del progetto, perché libera le strade, promuove una circolazione fluida e quindi meno inquinante in quanto libera dall’effetto “stop and go”. Inoltre la tecnologia relativa alla realizzazione e ventilazione dei tunnel ha fatto grandi passi avanti negli ultimi anni.
Un altro ausilio tecnologico importante può venire dal “transponder”, noto per la sua applicazione “telepass”, che ormai è un circuito integrato applicabile su di un foglio di carta, e se incollato sui vetri delle auto permette una serie di soluzioni attive (controllo degli accessi) e repressive (multe a tappeto), che potrebbe liberare risorse per costruire una contropartita fatta di servizi ai cittadini (parcheggi – corsie preferenziali – piste ciclabili).

Se il risultato delle misure combinate che l’amministrazione può mettere in campo sarà positivo, avremo nelle strade un numero ragionevole di veicoli, creando meno inquinamento, e allora si potrà orientare la politica alla fluidità, badando di evitare l’effetto dei vasi comunicanti, ovvero non liberare le strade per attirare nuove auto.

La continuità della giunta Albertini con i progetti conosciuti della candidata Moratti stanno proprio nel subire questa percentuale del 60% dei cittadini che scelgono l’auto, rispetto alla minoranza che sceglie il mezzo pubblico. Avendo chiaro l’obbiettivo di migliorare il trasporto pubblico di superficie, moderare il traffico e incentivare l’uso del treno, con i provvedimenti citati ed altri ancora si può riuscire nell’impresa di migliorare le condizioni del traffico.

Ci sono alcune parole d’ordine che si possono evocare, e che per gli urbanisti rappresentano contributi concreti alle politiche di modernizzazione del traffico urbano:
– intermodalità, nel senso di favorire gli scambi di mezzo al fine di rendere più fluido il sistema nel suo complesso
– informazione on line, per contrastare l’effetto vasi comunicanti dovuto ad ogni piccolo incidente ed inconveniente nella vita di ogni giorno, consentendo di non creare i tappi nella circolazione
– arrivare a porre un fine alla crescita esponenziale delle vetture in città, con il controllo da parte del comune che ad ogni nuova immatricolazione corrisponda un posto auto
– gestione attiva della politica dei taxi, dal taxi sharing come discriminante positiva accanto a quelle già evocate, e l’aumento del numero delle licenze con metodi che proteggano il valore delle licenze attualmente in essere

Nella politica di informazione un capitolo a parte va lasciato all’effetto annuncio: cambiamenti anche importanti e controversi non hanno possibilità di essere recepiti se non sono opportunamente e tempestivamente comunicati e spiegati ai cittadini.

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MILANO CHIAMA L’ASSICURATORE

September 30, 2015 By admin

Francesco Bizzotto
Già Ufficio Studi FIBA CISL

Da alcuni anni alcune persone di diversa estrazione, ma accomunate dalla passione politica e dall’esperienza assicurativa, hanno messo a disposizione le loro competenze, dando vita all’Ulivo delle Assicurazioni.
Il riscontro purtroppo non è stato positivo: i partiti sono refrattari a recepire competenze che non possano essere strumentalizzate e quindi non hanno dato la sponda che ci si aspettava.
Quella delle competenze è la questione della società civile, nel senso che una società civile organizzata pone la questione della rappresentanza in modo alternativo rispetto a quello proposto dai partiti.
Nella professione assicurativa ci sono ampie riserve di competenza, benché poco conosciute tanto a destra che a sinistra, a causa di una scarsa considerazione in cui la politica tiene la cultura d’impresa in generale e quella del rischio in particolare.

Il settore assicurativo ha una ricca produzione di cultura aziendale, ad esempio nel CINEAS “Consorzio Universitario per l’ingegneria nelle assicurazioni”, all’interno del quale Politecnico di Milano e industria assicurativa promuovono lo studio ingenieristico del rischio (risk engineering) con la tecnica propria della gestione degli eventi dannosi (loss adjusting). Il tutto arrivando anche alla produzione di corsi formativi per attività di servizio a tutto vantaggio della collettività, quali quelli di “Hospital Risk management”.
Il mondo assicurativo sta cercando in molti suoi settori di abbandonare l’autoreferenzialità ancorata al passato nella misurazioni dei rischi, che è entrata in crisi.

Da esperienze innovative di questo genere possono venire dei suggerimenti per l’amministrazione cittadina, che sia di stimolo per un nuovo approccio comune fra compagnie e cittadini ai problemi legati alla copertura dei rischi. In questo senso molto interessante sarebbe l’idea che il comune spinga le compagnie a proporre nell’area metropolitana forme di copertura veramente ampia (cosiddetta all risk), che non si basi sul tradizionale rimpallo fra garanzie ed esclusioni, ma copra per intero una categoria di rischi. Se si prova ad applicare questo approccio alle polizze dei condomini, si ha un’idea immediata di quale ritorno possa esserci per i cittadini intermini di maggiore sicurezza. Infatti insieme amministrazione e cittadini investirebbero in una iniziativa di lungo periodo, volta all’equilibrio ed alla stabilità di un importante settore della vita cittadina, tale da favorire il controllo di una serie non trascurabile di rischi.

Oltre che per progetti particolari come questo, gli assicuratori cittadini, che sono molti ed importanti non solo all’interno della categoria, potrebbero essere chiamati dalla nuova amministrazione a partecipare ad un tavolo nel quale far convergere la ricerca di soluzioni a problemi di ordine generale della città.
Il traffico ed i suoi legami con la copertura assicurativa per antonomasia, quella di RC auto, ma anche i temi dell’autosufficienza, che possono vedere un approccio multidisciplinare fra volontariato, istituzioni e privati, limando gli sprechi dovuti alla cronica duplicazione di interventi, ed arrivando fino quasi a fornire uno sportello unico delle soluzioni a questo grave problema tipico della città che invecchia.
Il mondo assicurativo ha in sé competenze e cultura che possono permettergli di essere utilmente messo se non al servizio, quanto meno in sintonia con una nuova politica di una nuova amministrazione cittadina.

Dobbiamo capire cosa può fare l’amministrazione per ridurre veramente i rischi dei cittadini, all’interno di una politica vera dell’emergenza. Probabilmente il primo compito dell’amministrazione è quello di prevenire ed informare: cercare di prevenire le situazioni di rischio, e nel contempo dare il massimo di informazione e trasparenza su questi temi.

Nell’economia nazionale la componente assicurativa milanese ha un peso molto rilevante, che non ha un adeguato ritorno verso la città. A Milano vengono sottoscritti, a seconda delle valutazioni, fra il 20 ed il 27% dei contratti di assicurazione che annualmente si accendono in Italia. Cosa resta di questo a Milano: sempre meno in termini occupazionali, benché non sia ancora cominciata una vera delocalizzazione, ma soprattutto molto poco sul piano sociale.

C’è anche una visione meno ottimistica del mondo assicurativo, che è sempre più improntato alla logica del breve periodo ed all’assorbimento nella logica finanziaria di quella che dovrebbe essere un’industria di servizi. Esistono dubbi che effettivamente azionisti e manager vogliano e possano impegnarsi in iniziative che non rientrino nella loro visione di immediato ritorno di utilità.
 
Nota per La Fabbrichetta di Francesco Bizzotto
 
Il mercato. Premi incassati ogni anno in Italia: 100 miliardi di euro (65 Vita, 18 RCA e 17 altri rami Danni). Per il 12,5% (Vita), 11,1% (Danni) e 7,3% (RCA) in provincia di Milano.
Riserve e investimenti per 500 miliardi.
 
Tipico servizio della Società, con la sua mediazione ha reso possibile l’iniziativa individuale (che esplora la possibilità, rischia). Non si contrappone ma aggiunge valore alle Comunità.
 
Le domande. Quale servizio è in campo a Milano? Quali innovazioni sono mature, necessarie? Cosa ritorna alla città in termini di investimenti? È possibile un dialogo che apra allo sviluppo e associ l’assicuratore, soggetto di Welfare e investitore istituzionale di equilibrio (il suo 1° interesse)?
 
Sì. Su tre terreni in particolare Milano chiama l’assicuratore a crescere e innovare:
Aiutare di più le nostre IMPRESE che competono nel mondo: con polizze All Risks e con informazioni sistematiche sui rischi specifici (in Usa l’80% degli assicuratori promuove servizi di completa gestione dei rischi; in Inghilterra il 30%; in Italia il 6%).
Definire una nuova polizza SALUTE per la FAMIGLIA, che consenta di scegliere differenze di prestazioni nel pubblico (solventi): per personalizzare la cura, premiare le eccellenze mediche e far affluire risorse agli ospedali. Una polizza che preveda e incentivi percorsi di Prevenzione.
Ripensare la RCA. Il sistema di Indennizzo diretto è buona occasione per: assicurare la Patente e legare la dinamica del premio al comportamento di guida (il vero rischio) anziché al sinistro (il caso); investire in Prevenzione (Francia); Assistere nel sinistro (intervento immediato).
VIVIBILITA’. L’assicuratore ha un preciso interesse alla salute dell’uomo e dell’ambiente. È l’attore di mercato per eccellenza di questi equilibri. Come coinvolgerlo? Ascoltarlo, parlarne!

Filed Under: archivio, incontri Tagged With: la fabbrichetta, milano, politica

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