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La Fabbrichetta

laboratorio politico aperto

lafabbrichetta

Un Sindaco amico delle bambine e dei bambini, dei ragazzi e delle ragazze

September 30, 2015 By admin

Progetto di politica partecipata dell’associazionismo educativo milanese
 
Un nuovo soggetto deve imporsi per costruire una città migliore. Il nuovo soggetto è costituito dai bambini e dai ragazzi.
Per questo riteniamo davvero importante e anzi necessario sviluppare un programma per Milano fondato sui bambini e sui ragazzi.
Solamente in questo modo si può investire sul futuro delle nostre città e sulla qualità del nostro vivere civile.
Otto proposte che muovono dai loro sogni, esigenze, richieste, necessità e diritti.
Otto proposte che sono i fondamenti del progetto di politica partecipata; quella che vuole Milano amica dei cittadini più giovani.
 
 La città amica dei bambini e dei ragazzi
 
1.1 Un metodo di governo partecipato e condiviso
I Consigli di zona devono diventare punti di ascolto dei bambini e dei ragazzi.
Istituzione del Consiglio Comunale dei ragazzi.
 
1.2 Una città dove muoversi e respirare
La mobilità sostenibile: costruire percorsi sicuri casa-scuola e piste ciclabili.
Possibilità di andare gratis a scuola con i mezzi pubblici.
Aumento degli spazi per giocare. Esercitare il diritto al gioco
 
1.3 Un nuovo slancio educativo e culturale
Sostegno della didattica e recupero delle progettualità innovative
 Maggiori fondi e spazi per il tempo libero e per lo sport
 
1.4 Le politiche di accoglienza
Iniziative per favorire la multiculturalità.
Integrazione dei bambini e dei ragazzi in situazioni di difficoltà e disagio.
 
1.5 Una sanità per tutti
Una medicina scolastica qualificata.
Sviluppare attività di prevenzione e di promozione del benessere.
Maggiore sensibilizzazione sulla educazione alimentare.
 
1.6 Il sostegno alla genitorialità
Sostegno per l’accesso alla casa e per l’inserimento lavorativo
Più qualità e quantità dei servizi per l’infanzia
Sviluppare e rilanciare iniziative e spazi per “il tempo per le  famiglie”
 
1.7 Un consumo consapevole
Programmi educativi per una maggior responsabilità nel consumo
Tutela del bambino consumatore.
 
1.8 Più verde e meno cemento
Un piano per l’edilizia e
una riqualificazione urbana e dei quartieri a dimensione dei bambini.
Valorizzazione dei quartieri come luoghi di identità.
Un bosco intorno alla città
Dal mese di giugno – in vari  incontri tra le associazioni e le agenzie di Milano e della Lombardia che, a diverso titolo, si occupano di attività educative e di politiche per e con i bambini e gli adolescenti – abbiamo voluto intraprendere un percorso sfociato in un progetto programmatico, per una città amica dei bambini e dei ragazzi. Tale processo rende partecipi  anche i cittadini più giovani, attraverso una indagine qualitativa e numerosi  focus group. Un ascolto attivo che li riconosce come  protagonisti e costruttori delle nuove città.
 
Crediamo in questo modo di poter fornire un contributo importante. Crediamo, inoltre, di suggerire così facendo una differente e innovativa visione riguardo a come progettare lo sviluppo metropolitano.  Il tentativo è quello di mutare la pelle della nostra città, per trovare finalmente una Milano che risponda ai bisogni delle persone che ci vivono.
  
Hanno partecipato e aderiscono:
 
Agesci Milano
Arci Milano
Arciragazzi
Ass. Amici del Parco Trotter
Coop. Sociale ABCittà
Celim Milano
Confcoperative Milano
LegaCoopSociali
Fondazione Roberto Franceschi
Legambiente
Movi Lombardia
Piccola Scuola di Circo
Rete Scuole
Tempo per le Famiglie
Unicef Comitato provinciale di Milano
 
 
Altri documenti per il programma “Un Sindaco amico dei bambini e dei ragazzi”:
 
1. “Bambini e ragazzi oggi a Milano. Per un patto educativo con le nuove generazioni”, Forum provinciale del Terzo  Settore di Milano, 2004
2. “Costruire città amiche delle bambine e dei bambini. Nove passi per l’azione”, Unicef Italia, 2005
3. Sintesi degli incontri del tavolo
   Per contatti e informazioni ci si può rivolgere alle associazioni che hanno aderito oppure a info@arciragazzimilano.it
 

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“STRADE NUOVE NELL’URBANISTICA MILANESE”

September 30, 2015 By admin

Incontro con il prof. Alessandro Balducci,
Direttore del Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano.
 
Se quella della Fabbrichetta è almeno in parte la scommessa generazionale sulla possibilità di ritrovare una sintesi tra competenza tecnica e passione politica che ha costituito per esempio la forza di quel “socialismo municipale” milanese di inizio secolo che così tanto ha caratterizzato le istituzioni locali, Alessandro Balducci è tra i più qualificati ad intervenire. Non solo per il suo brillante percorso professionale, ma per la lunga e coerente attività pubblica, dagli esordi con la tesi di laurea sui primi passi di Berlusconi (pubblicata dalle Acli “Dal Parco Sud al cemento armato”), alla sua esperienza come giovanissimo consigliere comunale di San Donato, alla sua presenza nei momenti di forte partecipazione alle scelte urbanistiche in diverse aree cittadine.
In effetti senza risalire toppo indietro nel tempo, alcune recenti esperienze alimentano la mia relazione:
– la redazione del Libro Bianco sulla casa per il Prefetto di Milano
– lo studio di fattibilità per il Fondo Sociale Immobiliare della Cariplo
– il Progetto per il Villaggio Urbano alla Barona
– i Contratti di Quartiere per il Comune di Milano
– il progetto Città Sane

Il problema della casa ha tali caratteri di drammaticità da rivestire un ruolo centrale nella vita cittadina, ma è praticamente scomparso dalle agende politiche. In parte per la scomparsa dei partiti stessi, ma anche per il mutamento cittadino che ha realizzato di fatto l’espulsione dalle città delle categorie che esprimevano tradizionalmente il bisogno della casa.
Per verificare questo mutamento è sufficiente confrontare una fotografia aerea di Milano oggi con quella di trent’anni fa, e verificare come dall’esistenza evidente di una città costituita da centro e periferia, si è passati a quella nebulosa di cui già ci ha parlato Stefano Boeri in un suo precedente intervento. In questo passaggio si è verificato lo spostamento non solo da Milano, ma dalla Provincia di Milano, a vantaggio di Bergamo, Lodi, Lecco, tutte Province limitrofe, che hanno aumenti di popolazione nell’ordine del 10 % negli ultimi vent’anni. Questo il motivo quantitativo per cui il problema della casa non si concretizza a Milano in una domanda politica significativa.
Ma c’è anche un aspetto qualitativo, perché la domanda si è fatta più articolata, inglobando accanto all’evoluzione delle forme tradizionali della domanda abitativa, anche forme nuove di disagio.
Anzitutto si registra un fenomeno di rischio, una vulnerabilità nuova che colpisce fasce ampie del ceto medio, che per evitare nuove forme di strozzamento economico, devono assolutamente farsi ascoltare dalla città. Ci sono poi, con una grande varietà di casistica, forme di disagio rispetto all’accesso all’alloggio e vere e proprie forme di esclusione per i casi più marcati e duri, come quelli degli immigrati, delle tossicodipendenze.
Di fatto i numeri dicono che in pochi anni a Milano si è passati dal 50% delle case in affitto a solo il 20% , che si compone di un 5% di forme di affitto dalla mano pubblica, che si trasformano per la loro durata e resistenza in forme di quasi proprietà, e di un 15% che si ricicla sul mercato, ma solo per una fascia particolare, caratterizzata dall’ampia disponibilità di spesa e dal prezzo altissimo.
A fronte di questo cambiamento epocale, la totale disattenzione della politica cittadina, che nei tre bandi dal 1997 ha ricevuto 17.000 domande nel 1997, 12.000 nel 1999, ed ancora nel 2003 di fronte a 9.000 sfratti per morosità e 2.000 per finita locazione, ha offerto 495 nuovi alloggi comunali di edilizia sociale e 1.300 assegnazioni di case popolari. Le assegnazioni finiscono per testimoniare lo stato di difficoltà, perché le poche case che si liberano finiscono per essere assegnate alle persone che sono portatrici di gravi situazioni di disagio, quali la presenza di malati lungo degenti o portatori di handicap
Il patrimonio complessivo ammonta a 42.000 alloggi ALER e 20.000 del Comune di Milano, all’interno dei quali la popolazione ha un invecchiamento anche superiore alla già alta media cittadina, cui si aggiungono i problemi dati dall’abusivismo, nell’impossibilità per l’ALER di fare controlli. I motivi stanno in una scarsa efficienza storica dell’ente, visto che altre realtà analoghe in Lombardia, per tutte Brescia, funzionano relativamente bene.
Il cambiamento della città che si accompagna non è governato con gli strumenti esistenti, quali il Piano Regionale per l’Edilizia Pubblica o il Piano di riutilizzo dei Fondi Gescal, che risale al Ministro Nesi alla fine degli anni novanta. Infatti se con questi strumenti si sono potuti attivare alcuni fenomeni virtuosi, come alcuni bandi, i contratti di quartiere, è certo che la situazione complessivamente presenta troppe lacune. Ad esempio solo il piano Lombardo prevede un fabbisogno di 60.000 case, per le quali gli unici interventi sono dei programmi di facilitazione dell’accesso al mutuo.
In definitiva la rilocalizzazione della popolazione trasferisce costi enormi, senza dare benefici corrispondenti. Infatti il differenziale fra prezzo pagato per l’abitazione fuori città finisce per essere largamente compensato dai costi evidenti (trasporto) e da costi occulti, primi fra i quali il tempo e la qualità della vita. Si è creato un modello dissipativo di risorse, difficilmente controllabile. Certo non si può dire che si tratti di un fenomeno che non abbia alcuni aspetti positivi, soprattutto in prospettiva, ma al momento prevalgono le criticità.

A fianco della trasformazione del problema della casa, sta la trasformazione del vivere la città, in particolare in relazione ai quartieri cittadini.
Secondo alcune ricerche di Ilvo Diamanti sulla sicurezza, nell’attesa di sicurezza da parte delle popolazioni del nord Italia, cresce la parte riservata alle relazioni di tipo individualistico (famiglia – lavoro) a scapito dell’attesa di risposte provenienti dalle relazioni sociali ed istituzionali.
Ne sono esempi evidenti le situazioni che si creano in molti quartieri dell’area metropolitana di Milano. Uno per tutti un quartiere urbanisticamente bello e ricco di verde pubblico come il Sant’Amborgio a Milano, che vede una forte difficoltà nella vita di tutti i giorni, fra una popolazione invecchiata e la difficoltà dei giovani e giovanissimi di vivere normalmente in situazioni di degrado sociale e di insicurezza.
Milano è stato sempre storicamente una città di quartieri, che davano un senso di identificazione molto forte, accompagnando realmente tutta la vita dei cittadini. Oggi nei quartieri si sono anzitutto svuotati quei meccanismi intergenerazionali a cui si dovevano molti fenomeni di appartenenza. Anzitutto nei quartieri la mobilità è molto bassa, sino ad assistere a fenomeni di invecchiamento collettivo di interi quartieri che si erano popolati inizialmente di famiglie estremamente omogenee. Si è quindi assistito alla trasformazione dei circoli scolastici in comprensori, alla riduzione del numero dei Consigli di Zona e delle sedi ASL, e così la ridotta capacità economica della macchina comunale ha allontanato ed in molti casi del tutto eliminato la presenza ed il supporto del settore pubblico.
La crisi del modello del quartiere è diventata quasi irreversibile per questi fenomeni di eliminazione dei servizi di prossimità, proprio mentre invece si è data grande eco ad aspetti repressivi della risposta al bisogno di sicurezza, quali il vigile di quartiere e la polizia di quartiere.
Come per la casa, anche per i quartieri è importante distinguere le aree di intervento: per la casa il rilancio dell’affitto per dare nuova sicurezza ed aspettativa di vita migliore, e riduzione del disagio sociale, per il quartiere la valorizzazione di aspetti apparentemente esteriori diventa valorizzazione della vita civile e recupero di spazi di vivibilità altrimenti non riconquistabili. E’ essenziale non continuare a ripetere gli errori del passato, come si è fatto ancora una volta al quartiere Sant’Ambrogio, dove gli spazi commerciali sono stati vandalizzati e ripristinati più volte, ma senza mai pensare un intervento che li mettesse al riparo dai vandali rendendoli vivi e funzionanti. Avrebbe sempre senso un piano di recupero ed inserimento di dimensioni poli funzionali, non come fatto a Ponte Lambro nel progetto di Renzo Piano.

Per chi osserva anche la realtà internazionale è evidente che una delle nostre particolarità sta ad esempio nell’incapacità di mettere d’accordo diverse istanze istituzionali e nella perdita da parte della politica della capacità di mediare fra interessi e bisogni. Un esempio concreto: a Madrid ad Atocha la municipalità ha realizzato un nuovo polo dei trasporti eliminando le orrende e intasate sopraelevate, ed integrando nella nuova sistemazione anche un polo di edilizia residenziale ed il Museo Reina Sofia. A Milano in questo momento, nella nuova area della Fiera a Rho, assistiamo alla realizzazione di due stazioni dell’Alta velocità e della Metropolitana, distinte e lontane fra loro oltre 1 km. La politica dovrebbe recuperare la capacità di coordinamento degli interventi, che sono sempre più monolaterali, nel senso che hanno un solo protagonista, proprio per la sopravvenuta impossibilità di trovare accordi fra diversi interessi. In questo modo si perdono gradi opportunità.

Un esempio di uso mirato delle risorse è dato dai contratti di quartiere, un istituto che per chi lo ha voluto e vissuto è rapidamente passato dalla fase iniziale delle minacce a quella del giubilo popolare per le realizzazioni, come nel caso di Cinisello Balsamo.
I contratti di quartiere a Milano si sono concretizzati in un finanziamento di 220 milioni di € sui cinque quartieri a proprietà pubblica, con il fine di evitare che una volta finanziato l’intervento, il Comune ne abbandoni il controllo in senso sociale e non strettamente contabile.
Per fare questo si sono programmati interventi articolati di:
– inserimento di attività economiche
– rifacimento di alcune tipologie di appartamenti ormai obsolete
– inserimento di progetti sociali
– riqualificazione del verde
– partecipazione dei cittadini alle scelte ed alle realizzazioni

Questa tiplogia di intervento nasce dai programmi Urban della UE, che partono dal presupposto che senza dare agli abitanti un senso di appartenenza, non si riesce a cambiare lo stato di degrado delle città. La dimensione contrattuale per il coinvolgimento degli abitanti sarebbe un requisito necessario nei bandi di concorso.
Un comitato di sorveglianza coordina gli interventi ed arriva anche a gestirne la realizzazione. Gli interventi possono essere i più diversi, ed andare dalla trasformazione di spazi pubblici inutilizzati in spazi di servizio, all’affidamento a cooperative di giovani dei servizi di trasloco interni al quartiere.
Il risultato viene raggiunto nella totale assenza della macchina comunale tradizionale, che non è minimamente coinvolta. Ad esempio a Milano benché quattro dei cinque quartieri interessati siano all’interno di una sola zona, il Consiglio di zona non solo non ha alcun ruolo nel contratto, ma non se ne è nemmeno interessato.

Se si cercasse una risposta in termini politici, c’è invece una connessione fra problemi della casa e problemi dei quartieri, perché costruendo una politica vera della casa si potrebbero affrontare anche i disagi dei quartieri. E vero che quella della casa non è una questione solo di livello cittadino, ma è anche vero che non ripetendo gli errori del passato (PRU) una migliore selezione degli interventi può consentire un utilizzo migliore delle risorse disponibili.
A dimostrazione e conclusione l’esempio del Fondo Sociale Immobiliare Cariplo, che pur restando nei limiti statutari delle proprie obbligazioni istituzionali, ha sostenuto progetti di edilizia sociale, garantendosi la possibilità di finanziare al 4% il capitale investito (al netto del costo dell’area). Posto che nel passato c’erano costruttori di nicchia capaci di ritagliarsi un ruolo ed una remunerazione proprio nella costruzione di edilizia sociale, questo dimostra che anche oggi è possibile operare in questa fascia con interventi che senza essere speculativi, siano economicamente sostenibili.

Il costo sociale della delocalizzazione in provincia potrebbe essere maggiormente evidenziato, per sottolineare i problemi ed i disagi sociali che questa comporta.

Assistiamo nel campo del valore delle aree edificabili e già edificate, ad un rafforzamento della rendita di posizione per chi possiede aree cittadine, o ne ha fatto scambi con aree semi centrali, ottenendo in cambio vantaggi urbanistici. La rendita su questo tipo di area ha assunto dimensioni oggi imponenti., che erano inimmaginabili sino a pochi anni fa.

Rispetto all’eccesso di terziario e davanti ai vecchi interventi degli anni ’80 sulle aree dimesse, sarebbe anche interessante valutare la possibilità di recuperare a fini abitativi molti immobili deserti. Questo non ostante la valutazione di Alessandro Balducci sulla sostanziale certa anti economicità di questo tipo di interventi (riconversione diretta da uffici ad abitazioni).

Anche gli investitori istituzionali privati come banche ed assicurazioni hanno abbandonato il loro patrimonio immobiliare, dimesso con forme selvagge che hanno premiato solo alcuni più fortunati. Infatti quelli fra gli inquilini che potevano rispondere ad offerte sostenibili, hanno acquistato, gli altri sono stati espulsi dalla speculazione successiva. E’ un segno della dimensione economica del problema della casa.

Permane una visione pessimistica sullo sviluppo della città, al di là delle volontà politiche che sarà possibile esprimere. Infatti il seguito del fenomeno di delocalizzazione descritto, sta nella sopravvivenza in città solo di una fascia di cittadini ricchi insieme ad una fascia di sostanziali manutentori della città stessa, al servizio delle attività economiche ed espositive e degli abitanti ricchi. Il ceto medio viene inevitabilmente espulso da una città nella quale la qualità della vita tende allo zero. La volontà politica delle amministrazioni passate si è esaurita nella politica degli annunci, e non ha capito che la qualità della vita non sta nel sistema del global service ma nel coinvolgimento dei cittadini.

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VINCENZO SIMONE

September 30, 2015 By admin

Settore Educazione al Patrimonio Culturale
Coordinatore Ecomuseo Urbano Torino
 
SILVIA DELL’ORSO
Giornalista
Gruppo Repubblica-Espresso

INTERVENTI DELLAFABBRICHETTA
Interventi di
Piervito Antoniazzi.
Enrico Borg Presidente Commissione “Città della conoscenza”zona 9
Silvia Mascheroni
Walter Marossi
Giorgio Poidomani (cdz 9)
Egidio Greco
 
Introduzione
n po’ di emozione oggi perché il secondo incontro della nuova stagione della Fabbrichetta si svolge in quella vera cattedrale del lavoro che è la Fonderia Napoleonica di Milano, restaurata dai proprietari in modo tale da restituire un piccolo patrimonio alla città. Qui si è fatta la storia di un pezzo di città che ancora campeggia nelle nostre piazze più importanti, visto che qui è stata fusa la statua di Vittorio Emanuele che sta in Piazza del Duomo. Così come le porte dello stesso Duomo.
Il tema di oggi attiene proprio alle esperienze di cultura e territorio, e sarà introdotto da Silvia dell’Orso che sul tema sta per pubblicare un libro-inchiesta e che ci ha segnalato l’esperienza di cui parliamo. Si tratta di una realtà torinese interessante da diversi punti di vista, non ultimo quello politico, visto che si tratta di un’esperienza nata in gran parte dal basso, dall’attività delle Circoscrizioni, l’equivalente dei Consigli di Zona milanesi. Il luogo di quest’incontro è all’interno dell’unica zona amministrata dalla sinistra, di Milano. Una città che comunque la si voglia definire e giudicare, ha un disperato bisogno di progetti.

L’esperienza dell’ecomuseo di Torino vale la pena di essere raccontata e soprattutto ascoltata, anche sotto il profilo della sua replicabilità. L’ecomuseo è la rappresentazione plastica di come una struttura museale possa essere messa in relazione con la città che la ospita. E’ particolarmente bello farlo in un luogo come questo che rappresenta in sé un esempio di legame fra strutture e città. A parlare dell’ecomuseo è Vincenzo Simone, che ha seguito questo progetto dal primo giorno, e che ne è uno dei principali protagonisti nella vita amministrativa e culturale torinese.

Inviterei Vincenzo Simone a cominciare il suo racconto proprio dalla genesi del progetto.

La genesi del progetto ecomuseo si colloca all’interno delle politiche museali della città di Torino nelle ultime due amministrazioni. La città che gestisce le collezioni civiche si è posta di tutelare il suo patrimonio più ampio, quello non musealizzato, a lungo trascurato. Accanto al Settore musei che si occupa dei luoghi tradizionali della cultura cittadina, è stato creato un nuovo Settore che ha centrato la propria attività sulla accessibilità del patrimonio cittadino, creando un’accezione nuova del termine museo..
La città aveva già vissuto l’esperienza del Settore periferie, che ha lavorato a lungo sul rapporto fra periferia da un lato e patrimonio ed attività culturali. Da quell’esperienza sono nati i centri di documentazione storica locale sulla storia del patrimonio cittadino.
La trasformazione urbanistica di Torino negli ultimi anni è passata per il nuovo piano regolatore del 1994, i lavori olimpici, la costruzione della metropolitana e del passante ferroviario, ha provocato la trasformazione dei luoghi della città, mutando tanti punti di riferimento locali, al punto da porre la domanda su cosa rimanesse della vecchia città.
C’è stata anche una trasformazione della civitas, con il fenomeno dell’immigrazione che cambia continuamente la città, che già aveva vissuto a partire dagli anni cinquanta un fenomeno analogo, al punto che oggi la maggioranza dei torinesi ha almeno un genitore non originario del Piemonte. Questi fenomeni pongono la questione dell’identità cittadina in trasformazione.
In questo scenario cittadino si è innestata nel 1995 la legge della regione Piemonte che ha dato un preciso riferimento normativo e finanziario al progetto dell’ecomuseo. Ultimo tassello della situazione è dato dalla questione dell’accessibilità dei musei, questione non solo torinese ma nazionale se l’ISTAT ha calcolato che 3 italiani su 10 entrano in un museo, che è un medium culturale vecchio in un mondo in cui la mediazione del museo non è più strettamente necessaria.

Questo il quadro d’insieme quando nel 2003 la Giunta Comunale istituisce un gruppo di lavoro inter assessorile che ha cominciato a lavorare sull’argomento ecomuseo. A tre anni di distanza questo strano oggetto può essere definito partendo dalla sua pratica, ciò che rappresenta un’esperienza emotiva perché si colloca in un ambito umano e rappresenta il bisogno di mettere in relazione l’ambiente con lo spazio in cui si vive. Il territorio.
I quartieri, intesi come abitanti, associazioni, gruppi, scuole, fanno la loro parte, occupandosi di elementi tanto fisici che immateriali, memorie di luoghi e relazioni umane. L’oggetto non è dato dall’alto, ma viene proposto dal quartiere ad un gruppo di lavoro.
Dei dieci quartieri, le Circoscrizioni, otto hanno aderito alla proposta della Giunta, dimostrando la loro vicinanza ai problemi del territorio. La Giunta chiedeva loro di farsi promotori di progetti, di individuare i luoghi fisici che rappresentassero il progetto scelto nei confronti dei cittadini, facendosi nel contempo garanti dell’interesse generale di ogni progetto.
Dopo le 3 circoscrizioni inziali, già nel 2005 erano cinque, per diventare oggi otto, essendo ancora fuori dal progetto le Circoscrizioni Centro e San Calvario. Non è significativo il dato politico che queste due circoscrizioni siano amministrate dalla destra, visto che invece ha aderito e lavorato molto bene la Circoscrizione del Lingotto, che è amministrata dalla Lega. (Oggi tutte le circoscrizioni sono amministrate dal centrosinistra dopo le elezioni di maggio).
Concretamente il progetto decolla con una delibera della Circoscrizione, che viene sostenuta dal centro soprattutto in termini di sostegno e lavoro, molto meno in termini economici. L’amministrazione cittadina interviene anche a livello di normazione, di contributo, di esperienza sulla sicurezza e sulla promozione della capacità di auto finanziamento.
Un ruolo specifico è rivestito dai Centri di interpretazione, dedicati alla documentazione storica locale: un esempio è dato dalla Circoscrizione 5 che ingloba Borgo Vittoria, così denominato per ricordare la guerra con i francesi del 1706, e che si è dedicato al terzo centenario di questo evento storico. Il centro di interpretazione ha analizzato miti e documenti, rielaborato le celebrazioni del secondo centenario del 1906, tutte improntate allo sfruttamento del mito in senso funzionale a Casa Savoia (Pietro Micca!), mediando la rilettura dell’evento verso i cittadini.
Un altro esempio quello della circoscrizione Lingotto, che comprende il luogo in cui sorgeva, ed in parte sorge ancora, l’area dello Stadio Filadelfia, legato al mito del grande Torino. Oltre che patrimonio dei tifosi, lo stadio è patrimonio del quartiere, nel senso che è un’occasione per dare attenzione ad un patrimonio di memoria che è definito culturale dai cittadini.

Ma chi sono nel concreto gli attori di questo sistema ?
Gli attori sono di diverso genere e peso: fra i forti ci sono le scuole e le biblioteche che possono mettere a disposizione la loro organizzazione, e le associazioni abituate al lavoro in rete. Fra gli attori deboli, ma non di secondaria importanza, i singoli, gli anziani, i nuovi cittadini.
In una recente presentazione di Diego Novelli ad un volume sull’imigrazione a Barriera Milano, erano presenti in maggioranza non gli anziani interessati alla memoria del quartiere, ma i giovani interessati alla storia del loro quartiere, ed alla precedente esperienza di integrazione di immigrati. Questi sono attori del sistema.
Parlando degli attori non si può dimenticare che Torino ha già musealizzato molta della sua storia, ma senza rappresentare la città del ‘900. Ad esempio già molto tempo fa Vittorio Viale aveva proposto Palazzo Madama come sede di un museo contemporaneo.
L’ecomuseo permette tutto questo: non è l’unico né forse il migliore dei mezzi, ma è un tentativo di definire un patrimonio culturale per poi tutelarlo.

DOMANDA
C’è una collaborazione pubblico/privato per mettere in campo finanziamenti accanto alla volontà politica ?
RISPOSTA
Ogni circoscrizione definisce uno spazio aperto ai cittadini per l’attività, che viene quindi offerto dal “pubblico”, in cui il comune interviene finanziariamente in conto capitale.
Poi i privati intervengono in vario modo nei gruppi di lavoro come portatori di interessi e progetti.
Posto che in un anno la gestione di otto centri di questo tipo costa meno dell’allestimento di una sola cosiddetta “grande mostra”, c’è poi tutto lo spazio per il lavoro dal basso sui progetti. Chiaro che i condizionamenti politici, i rapporti anche politici e di schieramento con il centro cittadino, contano e sono ineludibili. Ma sempre gestibili.
DOMANDA
Forse è improprio porre la domanda in una città come Milano che spende in cultura molto meno di città di gran lunga più piccole, ma la domanda c’è ugualmente: cosa ci guadagna la città ?
RISPOSTA
Il progetto è principalmente rivolto ai residenti, con obbiettivo ultimo la qualità del loro vita. Inevitabilmente poi si creano forti interessi cittadini generati dalle esperienze di ecomuseo, e persino fenomeni di turismo cittadino, perché in molti vogliono vedere le esperienze delle Circoscrizioni.
In ogni caso oltre al ricavo di lungo periodo con le ricadute positive sulla vita sociale, ci sono anche ricadute più immediate in termini di conservazione del patrimonio.
DOMANDA
Tra museo tradizionale ed ecomuseo ci sono due diverse modalità di interpretare la conservazione e valutazione del patrimonio museale. Come interagiscono ?
RISPOSTA
Da parte dell’istituzione museale tradizionale c’è inevitabilmente una chiusura iniziale, ma ci sono anche molte esperienze trasversali, ad esempio come nel caso della realizzazione delle mappe di comunità con la Fondazione Mek che opera in ambito museale tradizionale, specificamente nell’arte contemporanea.
DOMANDA
C’è nell’esperienza dell’ecomuseo una tendenza al localismo, alla auto referenzialità ?
RISPOSTA
Il localismo è un grosso rischio, mediato e controllato da chi come noi ha il compito di coordinare.
DOMANDA
Come viene monitorata e controllata l’attività dell’ecomuseo ?
RISPOSTA
Si tratta di uno problemi più seri: il controllo di gestione interno dell’amministrazione comunale aveva proposto di misurare l’efficacia del progetto sul numero dei visitatori. Questo criterio non era però soddisfacente, perché non si tratta di fare record di visitatori, quindi da parte del nostro settore si è contro proposto di monitorare il numero delle persone attivamente coinvolte nel progetto. Criterio che viene attualmente seguito.
Certo che l’esperimento funziona a pieno regime, si cercano nuovi indicatori di soddisfazione e si cerca di fare in modo che ci sia in merito una buona comunicazione.

Per concludere, visto che in parte è stato introdotto da questa ultima domanda, quali sono le criticità del progetto ecomuseo ?
Le criticità sono molte: una prima è di ordine politico, perché la delibera che stava alla base del progetto era il frutto di un concerto fra più assessori, che all’inizio ha funzionato molto bene. Poi, con il passare del tempo, soprattutto le esigenze proprie del settore urbanistica hanno cominciato a divergere rispetto a quelle del settore cultura, e quindi si è aperto un lungo periodo di mediazione politica. Un altro aspetto delicato rappresenta in modo alternato nel tempo criticità ed opportunità ed è dato dal carattere un po’ anarchico delle iniziative, dal grande fermento che le genera, che va governato senza irreggimentarlo per non rischiare di renderlo sterile. Noi tentiamo di non intervenire mai nel merito del contenuto, ma nel sostegno al progetto con una attiva partecipazione ai gruppi di lavoro, un altro elemento critico è dato dall’evoluzione del concetto stesso di ecomuseo, che è nato ed di per sé un concetto flessibile, che però nel tempo fa sentire la necessità di darsi regole di crescita, sulle quali il dibattito è aperto presso una comunità molto allargata.
Paradossalmente nell’insieme dell’esperienza dell’ecomuseo la questione finanziaria è importante ma non determinante, pur se in questo momento storico così difficile per le risorse finanziarie degli enti pubblici.

Conclusione
C’è un po’ di invidia da parte di noi milanesi nell’ascoltare questo racconto, ma da questo tipo di esperienze e proprio dalla Zona 9 di Milano, c’è la voglia e lo spazio per ripartire.

 

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Perché abbiamo perso ? Analisi della campagna elettorale per le elezioni comunali svolta da Walter Marossi

September 30, 2015 By admin

a LA FABBRICHETTA , giovedì 8 giugno 2006

La campagna elettorale era iniziata nel migliore dei modi:
1) un candidato per la prima volta autorevole e conosciuto
2) che partiva con largo anticipo
3) che veniva legittimato dalle primarie a larga maggioranza e senza grandi lacerazioni
4) che godeva del consenso di settori significativi di quello che è chiamato terzismo
5) cui veniva permesso di preparare una propria lista per pescare in settori diversi da quelli della sinistra e di formulare un programma con ampia autonomia

La strategia di Ferrante appare anche abbastanza semplice:
1) riportare al voto l’elettorato che si era astenuto alle regionali
2) ridurre il gap tra liste e candidato che aveva caratterizzato la campagna di antoniazzi
3) conquistare l’elettorato moderato d’opinione su cui il prefetto poteva certo fare maggior presa del sindacalista
4) sfruttare le condizioni di relativa difficoltà dell’avversario appesantito da una confusa gestione del ministero e appiattito su posizioni cattomoderate in materia di scuola e assistenza in una città tradizionalmente più laica della sua classe politica

Non è certamente una partita in discesa ma per la prima volta appare possibile la vittoria. Eppure si perde e si perde pure male.
Perché male?
solo un anno fa alle regionali con lo stesso numero di elettori (alle regionali votarono 680782 elettori alle comunali 680061 quindi i raffronti una volta tanto sono coerenti) Sarfatti prese il 47,89% di voti cioè quasi un punto in più di Ferrante, mentre la coalizione si fermò al 44,39 contro il 44,54 delle comunali, va tuttavia ricordato che alle comunali con Ferrante si schierava anche il partito radicale che alle regionali non era nella coalizione.
In un anno si perde quasi un punto percentuale ma soprattutto in una elezione fortemente caratterizzata dalla candidatura del sindaco diminuisce drasticamente, circa il 50%, il numero di elettori che vota solo il candidato.
La Lombardia tra l’altro lo scorso anno era stata la regione italiana con la più alta percentuale di voti solo al presidente.
Come a dire che Ferrante non solo non fa la differenza ma la fa meno di Sarfatti.
E questo quando il suo competitor è meno popolare della sua coalizione
Il risultato della coalizione, a parità di componenti, è più basso delle due elezioni politiche precedenti, ed è di pochi decimali superiore (sempre accorpando i voti delle liste in modo il più possibile omogeneo) a quello delle comunali del 2001.
Delle provinciali e delle europee è più difficile parlare perché i sistemi elettorali e le caratteristiche di quelle competizioni erano troppo diverse per numero di candidati e per tipologia delle coalizioni, tuttavia non mi pare che il saldo di queste comunali sia positivo, riaggregando i dati

Di più il numero degli astenuti comparando elezioni politiche e comunali vede un saldo negativo del centro sinistra di circa 15000 elettori.
In sostanza non solo non si riesce a spostare segmenti di elettorato moderato ma non si riesce neppure a riportare al voto quegli stessi cittadini che si erano mobilitati solo due mesi prima.
La campagna non convince quindi i moderati ma neppure il complesso dei cittadini che vogliono liberarsi del berlusconismo, anzi pare non convincere neppure a sinistra. Infatti storicamente alle elezioni milanesi più alto è il tasso di astensione più pesano percentualmente i voti della sinistra radicale, qui avviene il contrario con un numero di elettori pari a quello dello scorso anno il peso della sinistra radicale si riduce percentualmente.
In sostanza Ferrante non recupera a destra neppure i voti dei partiti che si aggregano per la primavolta alla coalizione (basti pensare che la rosa nel pugno tra politiche e comunali perde quasi tre quarti dei voti) e perde qualche cosa a sinistra probabilmente verso l’astensione.
Perche?
Avere certezze il giorno dopo le elezioni è abbastanza semplice, basta usare il bartaliano “gli è tutto sbagliato gli è tutto da rifare” e si è a posto, tuttavia alcune osservazioni si possono fare anche senza un’analisi approfondita che richiede tempo:
1) il profilo del candidato, che in una campagna presidenziale è fondamentale, non è emerso. la sensazione trasmessa è stata quella di un buon mediatore ma indeciso
2) il profilo programmatico della coalizione è stato ambiguo, cosicchè un elettore moderato poteva pensarlo caratterizzato dai no dei settori più radicali (primo fra tutti Fo) ed un elettore più radicale poteva vederlo come compromissorio, in altre parole non era ne carne ne pesce. Più ancora non si è capito a chi si rivolgeva come ha detto Morganti ci si è rivolti di più ai taxisti che agli utenti di taxi (certamente più numerosi)
3) la lista del candidato non è stata una lista di incursione in terreni altrui o inesplorati ma una lista contenitore, addirittura con due dei suoi competitor alle primarie (che difatti hanno preso cadauno qualche centinaio di voti in meno di quelli delle primarie); tanto più che notoriamente più liste ci sono alle elezioni comunali più voti (magari pochi) si prendono
4) l’elettorato d’opinione non si è mosso. Qui occorre fare una precisazione, nelle analisi degli anni ‘70 , l’elettorato d’opinione urbano veniva identificato con un ceto medio colto ed informato che sceglieva in funzione dei programmi in genere all’interno dello schieramento laico. Oggi probabilmente bisogna intendere per elettorato d’opinione quello che non legge i giornali, che sta più nella periferia che nel centro della città e che si forma le proprie convinzioni politiche fondamentalmente attraverso la televisione, il passa parola e la comunicazione dei candidati in campagna elettorale. E’ un elettorato che spesso decide all’ultimo minuto.
5) Ebbene la mia sensazione è che la campagna del centro sinistra sia stata qualitativamente molto inferiore a quella del centro destra, una comunicazione tutta autoreferenziale molto pubblicitaria e poco elettorale (che ha portato ad esempio ad utilizzare principalmente, come ha detto Penati, il manifesto Ferrante, Cornacchione, Zelig con un ammiccamento tutto da capire).
6) La ragione della differenza tra la campagna della Moratti e quella di Ferrante è solo economica? Non credo: si possono fare campagne anche povere ma efficaci, bisogna però adeguare gli strumenti ai mezzi economici. Tuttavia è vero che per una campagna tradizionale a Milano ci vuole all’incirca un milione e mezzo di euro, ora considerando che si è partiti a novembre che alle primarie hanno votato oltre 80000 elettori, che tra candidati al comune ed alle zone erano in pista più di duemila persone non mi pare una cifra irraggiungibile.
7) l’avversario non è mai stato messo in difficoltà, per usare termini calcistici gli si è lasciato fare il gioco che voleva, gli si è lasciato il controllo della palla, non si è fatto pressing. Così Letizia Moratti è riuscita a cambiare due otre volte linea e soprattutto ad accreditarsi via via con una immagine accattivante quale non aveva all’inizio. Certamente su questo ha influito anche il comportamento esemplare di Albertini che è uscito di scena con estrema dignità, dando un contributo fondamentale con la sua presenza/assenza alla campagna della Moratti
8) Il centro sinistra è supponente,continua a ritenere il centro destra ed in particolare Forza Italia un partito di parvenue privo di classe dirigente, come se non amministrasse questa città e questa regione da più di un decennio, la sottovalutazione dell’avversario porta poi ad equivoci sostanziali come dare per schierato un elettorato popolare che non c’è, o per lo meno non c’è nella misura ipotizzata, porta a credere ad uno zoccolo duro che è in realtà molto minore, porta a credere ad una rete di militanti e di movimenti a sostegno che in realtà è molto più teorica che reale. Del resto le preferenze prese dai protagonisti dell’associazionismo “politico” e della cosiddetta società civile sono li a spiegare bene pesi e misure reali.

Per farla breve è stata una campagna troppo gauchista che ha scontentato i moderati, o una campagna troppo moderata che ha allontanato i gauchisti, paradossalmente è stata tutte e due le cose in pratica è stata una campagna dilettantesca.

Banalizzando: di chi è la colpa?
Del candidato o dei partiti, che hanno fatto mancare il loro appoggio?

Io credo che il candidato avesse tutte le qualità per vincere ma come in tutte le competizioni quello che conta è la gara non il record in allenamento, e Ferrante è arrivato del tutto impreparato alla gara, sfiancato dalla preparazione, privo di una strategia.
I partiti credo che abbiano dato tutto quello che potevano dare, considerato che da anni il centro sinistra non esprime una classe di governo cittadina, che figure di spicco non ce ne sono, che le sconfitte del passato hanno generato una sindrome isolazionista permanente, e che tutto sommato i partiti forse con la sola eccezione dei ds sono poca cosa in termini di forza organizzata.
Anche l’importanza della lista unitaria ds- margherita così forte all’interno degli apparati non è correlata al comportamento dell’elettorato che infatti appena gli viene fatta un offerta più vasta
(con la lista Ferrante)si sposta; è vero che si potrebbe dire che la lista Ferrante ha trattenuto voti che erano in uscita ma francamente credo che all’interno del centro sinistra esistano due elettorati: uno che vota il proprio partito di riferimento con una forte continuità, e uno che si sposta con facilità anche a pochi mesi di distanza; un elettorato che deve essere ogni volta motivato sia nella scelta dei temi che nella scelta dei candidati sbagliare l’uno o l’altro o peggio tutte e due espone a brusche sorprese.
Probabilmente quindi la responsabilità maggiore come del resto in tutte le presidenziali va addebitata al candidato, o meglio ancora ai suoi allenatori.
In fondo Ferrante ha accettato una sfida al buio, erano altri che dovevano spiegargli che quello del candidato è un mestiere difficile e spietato, soprattutto perché in caso di sconfitta sei solo.

Mi resta un dubbio alla fine di questa chiacchierata : magari saremmo andati al ballottaggio e avremmo vinto se solo ci si fosse occupati di alcuni dettagli, fra cui quello di far star zitto Visco.
Ed una domanda : come è possibile che nel 2006 la coalizione di centro sinistra a Milano abbia meno voti di quelli che avevano pci e psi nel 1980?

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CENTRI URBANI E SICUREZZA

September 30, 2015 By admin

Incontro a La Fabbrichetta con Roberto Cornelli, Sindaco di Cormano – 19 aprile 2007
 
Pier Vito Antoniazzi: Cornelli è un personaggio interessante per noi… E’ giovane (compie 33 anni a giugno), dal 2004 è sindaco di Cormano (città di prima fascia dell’hinterland milanese), è criminologo, studioso e docente nell’Università di Milano-Bicocca di sicurezza urbana e criminalità…
Roberto Cornelli: Il problema della sicurezza “esplode” in Italia a metà degli anni ’90, con qualche anno di ritardo rispetto ad altri Paesi europei. Dopo una stagione in cui la criminalità organizzata e il terrorismo interno avevano catalizzato le attenzioni e le preoccupazioni dei politici e dell’opinione pubblica, ondate di panico morale investono le aree urbane strutturando sentimenti di paura e di esasperazione per la micro-criminalità, per il disordine urbano e per le inciviltà. Sono soprattutto i fatti di criminalità comune, come i furti in appartamento, gli scippi e le rapine, ad alimentare le campagne “informative” dei mass-media e le insicurezze delle persone.
Sono gli stranieri extracomunitari i principali bersagli del sentimento di intolleranza che si diffonde rapidamente e che porta nelle piazze migliaia di persone in fiaccolate contro la microcriminalità e l’immigrazione.
La “protesta civile”, resa più acuta dalla sfiducia verso il sistema politico colpito duramente dalle indagini giudiziarie di Mani Pulite, s’indirizza verso i Sindaci, in quanto referenti istituzionali più prossimi ai cittadini, anche grazie alla legge che nel 1993 ha introdotto la loro elezione diretta. Mentre al Governo nazionale si chiede una politica di “legge e ordine”, vale a dire di inasprimento delle pene e di stanziamento di risorse per mettere le forze di polizia nelle condizioni di controllare il territorio e contrastare i fenomeni devianti e criminali, ai governi locali si chiede di intervenire nelle numerose situazioni di disagio, di precarietà, di conflitto e di insicurezza che affollano la vita delle persone nelle città, e che vengono espresse attraverso una generica e indistinta domanda di sicurezza.
L’ allarme sociale per la criminalità non è un fenomeno nuovo in Italia: il biennio 1974-75 fu caratterizzato da un’intensa campagna di opinione sulla drammaticità e la diffusione del fenomeno criminale, unita alla richiesta di maggiore fermezza rispetto a fenomeni criminali emergenti, quali terrorismo e criminalità organizzata. E sicuramente è un tratto caratteristico di tutti i Paesi Occidentali. Stati Uniti in testa: negli anni Sessanta il Presidente Jonshon, Democratico, indicò nel 1966 la paura della criminalità come il più diffuso tra i “costi” che la criminalità infligge ai cittadini e, dunque, il problema principale da affrontare in un programma governativo centrato sulla “guerra al crimine”. Fu la prima volta che il termine fear of crime (paura della criminalità) entrava in un discorso presidenziale: gli eventi ( tra cui le rivolte dei ghetti neri, il clima di sfiducia nel sistema penale, le preoccupazioni dei ceti medi) stavano conducendo un Presidente Democratico fortemente impegnato nell’attuazione di un programma keynesiano di riforme sociali in direzione fortemente socialdemocratica a promulgare – dopo passaggi congressuali molto difficili – una legge, il The Omnibus Crime Control and Safe Streets Act, limitativa delle libertà e delle garanzie processuali. Da quel momento in poi, con l’avvento di Nixon e dopo un decennio di Reagan, la paura diventa un elemento sempre presente in ogni discorso elettorale o presidenziale riguardante la giustizia penale, la criminalità e lo stato sociale e attorno a cui elaborare politiche penali.
In Italia, i Governi di centro-sinistra a partire dal 1996 si sono trovati a gestire l’esplosione dell’allarme sociale per la criminalità e l’immigrazione, probabilmente senza esserne preparati trattandosi di un tratto nuovo della sensibilità diffusa e della politica.
E hanno reagito con misure, come il “pacchetto sicurezza” del 2001 del Governo D’Alema, che ha avuto più la funzione di affermare una volontà di governare politicamente il fenomeno della criminalità (giustizia simbolica o espressiva) più che un’efficacia nel governarlo effettivamente.
Nel pacchetto sono state previste – secondo le parole dell’allora Ministro della Giustizia on. Piero Fassino – “misure che assicurano maggiore certezza della pena, accelerazione dei processi, ampliamento dei poteri di indagine della polizia, inasprimento della severità per reati che destano forte allarme sociale”.
Questa linea repressiva, che intende rassicurare le persone attraverso l’aumento delle pene, dei comportamenti punibili (penalizzazione) e l’incremento dell’organico delle forse di polizia, non tenne conto delle riflessioni e delle politiche adottate a livello locale, ad esempio nell’ambito del progetto della Regione Emilia-Romagna o del Forum Italiano sulla Sicurezza Urabana, o dalle associazioni tematiche di partito, come l’associaizone VivereSicuri dei DS. Questa linea repressiva non tenne, e non tiene tuttora, conto dei risultati della ricerca criminologica che sull’analisi delle tendenze criminali e sul tema della “deterrenza” ha un sapere ormai consolidato e fruibile anche dalla politica.
Un approfondimento breve per parlare di un aspetto specifico e limitato relativo all’efficacia: se si pensa che circa la metà dei reati commessi in Italia ogni anno (tot. reati denunciati nel 2004 in Italia: 2 milioni e 970 mila circa) è un furto, e che circa il 95% dei furti sono di autore ignoto, si comprende come l’aumento delle pene non abbia un effetto così deterrente per la commissione di furti. E non è un problema tanto di certezza della pena, perché per per quel 5% circa di furti con autore noto, le sentenze di condanna arrivano: subiscono una pena detentiva il 65% di coloro che sono stati imputati di un furto (sono tutte elaborazioni su dati Istat). E molto spesso sono persone che ormai non note al sistema penale, riconoscibili e quindi più facilmente arrestate: spesso entrano in carcere sempre gli stessi, perché i più facili da prendere.
La politica reagisce all’allarme criminalità spesso semplificando – la semplificazione è, d’altra parte, una necessità della politica, che si scontra in questo caso con l’efficacia delle misure messe in campo – e dando l’idea che ci sia maggiore “controllo”.
Il governo nazionale tende a riaffermare la centralità della “risposta penale” per rassicurare i cittadini, secondo l’assunto classico – debole nei fatti – che aumentando le pene, aumenti la deterrenza e diminuisca la criminalità. Il risultato è, invece, una delega al sistema penale, sempre più collassato e che non produce giustizia per molti motivi, ma anche perché viene investito, senza criteri di priorità, di una quantità enorme di fatti.
La protesta civile dalla politica nazionale si sposta sulla giustizia, per poi tornare, con maggior vigore e maggiore sfiducia, alla politica, non in grado di assicurare alla giustizia (e alla polizia soprattutto) di funzionare bene. E le insicurezze si alimentano della sfiducia derivante da questa promessa mancata.
Ma lo Stato non è più centrale nelle strategie di rassicurazione adottate dai cittadini.
Tre tendenze caratterizzano questi anni:
1) La privatizzazione o commercializzazione della sicurezza (in USA anche delle carceri oltre che della polizia). A Singapore, ad esempio, ci sono due agenti di polizia privata ogni agente di polizia pubblica; negli Stati Uniti il rapporto tra polizia pubblica e polizia privata è di 1 a 3. In Italia nel 2001 siamo arrivati a 1 poliziotto privato ogni 6 pubblici.
2) Dallo stato alla “comunità”. Oggi si chiede sicurezza al Sindaco. Persino nei comuni più piccoli oggi si va più dal sindaco che dai carabinieri per segnalare problemi di sicurezza.
3) Ricorso a misure extralegali legate alla prevenzione situazionale o comunitaria. Esempio le ronde, le recinzioni, le telecamere. Spesso senza considerarne attentaemente l’uso, la funzionalità e l’efficacia. Facendo un passo indietro e analizzando le tendenze della criminalità a partire dal Secondo Dopoguerra notiamo un forte aumento dei reati denunciati tra il ’70 ed il ’75, non paragonabile per importanza (un vero e proprio salto) a quello degli inizi degli anni Novanta. Perché allora “l’allarme sociale” è venuto 20 anni dopo?
La “paura della criminalità” entra nel dibattito pubblico italiano a metà degli anni Novanta in un periodo di “crisi drammatica e profonda”.
Provo a elencare solamente per titoli alcuni dei fenomeni che penso abbiano accompagnato l’insorgere della paura della criminalità come tema politico:
– fine del bipolarismo Est-Ovest e crisi dei partiti ‘ sfiducia nel sistema di rappresentanza
– fine del bipolarismo Est-Ovest e crisi economica ‘ sfiducia nella capacità di governo dell’economica
– immigrazione e la difficile co-abitazione con lo straniero
– “Mani pulite” e questione morale ‘ sfiducia nella politica
– Mass-media: la scoperta della vittima come risorsa comunicativa.

Interventi di Gadola, Gori, Antoniazzi, Meroni,Crapanzano:
-Un giornale ha scritto che a Milano si droga 1 su 3. Ci sarà ben un mercato vasto…
-Com’è la situazione ad Amsterdam che ha legalizzato le droghe leggere e che ha i quartieri a luci rosse ?
-Ho letto “Gomorra”. L’esercito della camorra è fatto di quindicenni…
-La sinistra è subalterna, anche nel linguaggio,pensiamo a “tolleranza zero” per esempio. Cornelli: “Tolleranza zero” fu coniato da alcune femministe canadesi in una campagna contro le violenze sessuali. Hobbes diceva che la paura è all’origine dello Stato moderno: la paura di ciascuno verso ogni altro spinge gli uomini a rinunciare alla propria libertà delegando allo Stato la funzione di protezione e di sicurezza. Oggi sembra essere un problema di equilibrio e prospettiva: in uno stato democratico dobbiamo cercare di garantire sicurezza costruendo risposte di civiltà, di convivenza, dirette alla creazione di una società aperta.
 

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C’E’ QUALCOSA DI NUOVO NELL’ARIA L’inquinamento a Milano

September 30, 2015 By admin

Ennio Rota
Vice Presidente Legambiente Lombardia

La Fabbrichetta ha cercato nei suoi percorsi di analisi della realtà milanese, di evitare i luoghi comuni e gli argomenti troppo evidenti e dibattuti. Ma non è possibile esimersi da una valutazione dell’inquinamento dell’aria che respiriamo. Lo facciamo con un osservatore privilegiato, Ennio Rota, medico, dirigente della Regione Lombardia e vice presidente di Legambiente.
Partiamo dall’oggi: perché un’aria così brutta e perché in gennaio ? E’ ovvia l’osservazione che con il freddo tipico di questa stagione aumenta il ricorso al riscaldamento, e persino le auto sono meno efficienti, come chiunque può constatare controllando i propri consumi, e quindi consumano di più. La situazione meteorologica ha fattori anche più sottili: fa più freddo al livello del mare, mentre in quota la temperatura è più alta. Basta una differenza di 1° sopra le nostre teste per rendere difficile il ricambio dell’aria, e quando la quota di inversione termica è più bassa l’aria fredda resta schiacciata anche dall’aumento della pressione dell’aria, gli inquinanti sono più stabili e l’inquinamento la fa da padrone. I venti dell’est arrivano meno in questa stagione, e anche le perturbazioni sono limitate così niente libera l’aria.
La rete di monitoraggio esistente permette di dire che tutti gli inquinanti controllati sono statisticamente in discesa, eccetto l’ozono, che rappresenta un problema prettamente estivo, in quanto scatenato dal sole.
I dati lombardi sono analoghi a quelli del resto della pianura padana, dove in termini di media mensile dei dati rilevati in gennaio storicamente, la concentrazione dell’ossido di carbonio si è ridotta così come si è ridotta, anche se in modo meno sensibile, quella dell’ossido di azoto. Il biossido di zolfo (prodotto da gasolio e carbone) dalla seconda metà degli anni ’50, quando ancora era prevalente l’uso del carbone per il riscaldamento domestico, è diminuito del 1.100%, e tuttavia è ancora una componente dell’inquinamento attuale.
Le polveri sono diminuite in generale, ma va considerato che il PM10 è monitorato solo dal 1997, e sappiamo che questo rappresenta 80% delle polveri totali. E’ in calo il benzene che dal 1994 ad oggi si è ridotto di quasi il 400%.
La ragione di questa situazioni non ha una spiegazione unica, ma deriva da diversi fattori: la metanizzazione ha ridotto drasticamente l’uso di carbone, esattamente come a Londra si eliminò lo “smog” all’inizio degli anni ’50 dopo la proibizione dell’uso del carbone.
In termini statistici è ormai assodato che ad un picco di inquinamento corrisponde un picco di ricoveri ospedalieri ed un correlato aumento del tasso di mortalità.
C’è una corrispondenza sicura fra il traffico, specialmente pesante, e picchi di IPA (Idrocarburi Policiclici Aromatici) . I veicoli diesel sembrano i maggiori responsabili dell’inquinamento da traffico, ma in realtà il PM10 trova origine da diverse fonti. Le emissioni primarie di PM10 sono quelle più evidenti, ma visto che primarie sono quelle prodotte direttamente dalla combustione e che possono essere bloccate dai filtri, mentre hanno importanza anche quelle secondarie, ovvero date dai gas di scarico. Ora più è alta la concentrazione di PM10, più è importante la quota di emissioni secondarie. Per questo il blocco temporaneo del traffico colpisce direttamente il primario che in un giorno si riduce anche del 30%, ma influisce solo in tempi più lungi sulle emissioni secondarie. In questo senso il blocco non ha ovviamente un effetto risolutivo, ma costituisce un contributo rilevante alla riduzione degli effetti dell’inquinamento. Le fonti di PM10 primario per importanza di quota vengono stimate dalle Agenzie Regionali per l’ambiente secondo INEMAR, la speciale struttura che in base al bollettino petrolifero che rileva con certezza i consumi di benzina, consente di calcolare con modelli matematici i fattori di emissione:
a) primario: diesel 32%; legna 32%; altre fonti 20%
b) secondario: 50% traffico
Non deve stupire il dato relativo alla legna, che se quasi scomparsa dalle grandi aree urbane come combustibile da riscaldamento, ha trovato nuovamente largo uso nelle zone montane e pre alpine grazie alla diffusione delle stufe ad alto rendimento.
Il traffico resta un elemento decisivo, su cui molto si sta facendo con il miglioramento delle tecnologie, basti pensare alla progressiva del fattore di emissione per km percorso, che per un’auto “euro 4” è ridotta a 0,8 per km, mentre per un motore diesel tradizionale arriva a 30 per km, in termini di PM10 ma anche di biossido di azoto.
Purtroppo l’incremento delle immatricolazioni di vetture diesel ha compensato in negativo i miglioramenti raggiunti sui motori a benzina. Di qui la polemica sulla richiesta di introduzione del filtro anti particolato, sul quale è in corso un vero braccio di ferro fra costruttori e governo, con i primi che sono disposti all’introduzione, ma a patto di significativi contributi governativi per l’adeguamento degli impianti produttivi. Si tratta peraltro di un elemento importante ma non conclusivo, se si considera che i filtri abbattono il PM10 ma non IPA e tutti gli altri inquinanti.
Va detto che la riduzione di polveri da traffico non è possibile al 100%, ma va ridotta tendenzialmente, considerando che se è vero che l’indice di produzione di polveri per tipo di veicolo è quella che segue (in mg per km percorso):
– euro 0 sotto 3,5 ton 198
– euro 0 gasolio sopra 3,5 ton 571
– auto euro 4 benzina 0,8
– mezzo ATM con retro fit 150
– motociclo 4 tempi euro 1 15
il puro attrito produce 0,8 mg per km di polveri, e in qualche misura questo è ineliminabile, visto che avviene anche per una bicicletta.
Preoccupa poi la considerazione che una quota del PM10 secondario sia composta da ammoniaca, il che si spiega probabilmente con la presenza di tale elemento in agricoltura nei fertilizzanti usati nelle campagne. Si tratta quindi di un fattore sul quale risulta particolarmente difficile impegnativo intervenire, vista la lunghezza della catena che lo produce. La conseguenza è che solo in Lombardia, rispetto a Milano ed al suo traffico che hanno 116 come indice di PM10, Lodi ha indice 133, e Cremona 113.
La Lombardia presenta quindi una situazione complessa e sfavorevole, con condizioni meteo sfavorevoli, al pari delle regioni più colpite d’Euorpa come la Ruhr in Germania, per motivi simili ai nostri. Esistono però anche situazioni come quella del Belgio, la cui alta concentrazione di PM10 viene attribuita con certezza per la presenza di un alto livello di cadmio, a polveri portate dai venti dell’est, in particolare dalla Polonia. Altrettanto dicasi per la concentrazione registrata in Spagna di polveri provenienti dal Sahara. Purtroppo il PM10 delle nostre regioni è tutto nostro, e per questo in sede comunitaria saremo sanzionati, con circa 500 milioni annui di mancati trasferimenti da UE, per il supermento permanente dei livelli ammessi di concentrazione di PM10.
Ci sono strumenti per fare interventi strategici, che però possono essere solo il frutto di scelte politiche coraggiose: la decisione di questi giorni a livello di governo nazionale di bruciare olio combustibile per compensare il molto reclamizzato mancato apporto del gas russo, ci riporta indietro di vent’anni. Questa decisione non è giustificata dalla situazione attuale, alla fine di un pur rigido inverno, ma è direttamente funzionale alla difesa di interessi petroliferi ed automobilistici.
Altrettanto strategica e frutto di mancanza di coraggio politico, è la scelta di continuare a puntare sulle autostrade per lo sviluppo della mobilità, invece di progettare nuove e più efficienti linee ferroviarie, come è il caso dei due progetti lombardi di cui si parla da anni.
Concludendo:
– c’è un trend positivo nel lungo periodo, ma con singoli picchi negativi stagionali
– la colpa è del sistema nel suo complesso, con responsabilità diffuse ad ogni livello istituzionale e decisionale
– serve una maggiore organicità degli interventi perchè c’è un livello di complessità ed interdipendenza tale che ogni azione va coordinata e graduata con attenzione
– serve una svolta nella produzione di energia: turbogas, eolico, solare, fotovoltaico, sono tutte realtà che permettono importanti risparmi, ma ad oggi sotto utilizzate, anche perché pur in presenza di importanti risparmi di sistema, gli incentivi (ad esempio 300 megawatt di credito nel conto energico per l’uso di queste formule) sono ancora più limitati delle risorse naturali disponibili; l’ultimo esempio è dato dalla Finanziaria che ha eliminato la possibilità di dare contributi a privati in materia di risparmio energetico, tagliando tutto lo sviluppo possibile all’utilizzo di energie alternative in ambito privato

Si deve insistere nell’adozione di piccoli ma costanti e precisi interventi tesi ad ottenere risultati a lunga scadenza, anche se si deve dare per scontato che gli effetti non saranno lineari, perché ad ogni azione spesso corrisponde una reazione inattesa, non ostante il perfezionamento dei metodi matematici utilizzati.

Il saldo di chiusura dei centri urbani al traffico è solo parzialmente positivo, perché pur con qualche risultato al centro, la congestione nelle aree periferiche compensa in negativo. L’effetto più importante anche se minimo e di lunghissimo periodo, sta nella scoperta dell’uso dei mezzi pubblici o comunque di mezzi alternativi all’auto, il cui uso si riduce a lungo termine.

L’uso del bio diesel ha un senso limitato e non un impatto di sistema , visto il suo impatto ridotto per la possibilità di produzione limitata per legge, e perché il ciclo industriale di tale combustibile ha un costo analogo a quello del diesel tradizionale, ma risulta favorito dagli sgravi fiscali. L’adozione da parte dei mezzi dell’Azienda Tranviaria si è accompagnata all’adozione dei filtri anti particolato sui mezzi, ma purtroppo l’esempio non è stato seguito dalle altre amministrazioni pubbliche che incidono sul nostro territorio.

Il problema dell’inquinamento da traffico sta anche nei fattori esterni, per i quali esistono molti tentativi di analisi.
A livello di sistema la fine del modello della fabbrica fordista, e l’adozione del sistema Toyota del “just in time”, ha fatto sì che nell’odierno sistema produttivo l’industria non produca più per il magazzino, ma per la consegna immediata. Grazie al contemporaneo sviluppo dei sistemi di gestione dell’informazione, che hanno fatto nascere la logistica come sistema di gestione e controllo del movimento merci, questo si è tradotto in un enorme aumento di traffico di piccoli veicoli commerciali, spesso diesel, per le consegne rapide.

A livello strettamente politico, leggendo il primo documento del candidato sindaco del centro – destra, non può non risaltare il fatto che i primi 10 “progetti” siano di tema, ambito e persino linguaggio ambientalista. Forse c’è un pericolo di confusione delle identità su questi temi, ma è certo che senza una politica di scelte radicali e coraggiose, la sinistra non sarà più riconoscibile come tale neanche sulle tematiche ambientaliste, sulle quali riesce a sembrare più radicale ed innovatrice l’amministrazione Formigoni.

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