Introduzione
Piervito Antoniazzi
A sinistra storicamente c’è una posizione di chiusura verso la Lega, e verso molte delle sue posizioni, ma l’invito a Giancarlo Paglierini, uno dei padri del fenomeno leghista, avviene ancora una volta nella logica della Fabbrichetta, che è quella di mettere mano alla scatola degli attrezzi della politica. Infatti molte delle posizioni assunte nel tempo da Paglierini, politiche e di contenuto, ultima quella recentissima sulla governance delle aziende municipalizzate, hanno il segno di una politica che si interessa ai servizi resi ai cittadini, non dal punto di vista del detentore del monopolio, ma da quello del fruitore del servizio. Gli interessi pubblici e quelli degli utenti sono sempre meno tutelati. Forse i consigli di sorveglianza possono creare istanze di controllo da parte degli utenti, ancorché il nostro movimento comsumerista sia ancora complessivamente debole. Da un punto di vista più propriamente politico, l’uscita di Giancarlo Paglierini dalla Lega, fa sorgere spontaneo l’interrogativo sul destino del percorso che la Lega sta compiendo da vent’anni in qua.
GIANCARLO PAGLIARINI
Consigliere Comunale a Milano Revisore dei Conti
Raccolgo la domanda e la sfida, riproponendo la domanda e la sfida a questo proposito, che era e resta quella di quindici o venti anni fa: come si fa a non votare Lega ? E questo a prescindere dai toni recentemente assunti da troppe manifestazioni della Lega, o dall’appiattimento sulle posizioni di Forza Italia e del suo leader. Il punto è che le motivazioni sulle quali la Lega è nata sono ancora là, intatte e oggettivamente descritte dai numeri del nostro stato e della nostra economia. Infatti l’eccesso del fenomeno che viene riassunto con il termine “assistenzialismo” impedisce una normale dinamica economica alle imprese, in particolare limitando gli investimenti in ricerca e sviluppo da parte delle nostre imprese, indirizzando risorse dove non sono produttive di reddito. tre tabelle di dati ISTAT – anzitutto la pressione fiscale, che al 50,57 % reale toglie respiro ma soprattutto competitività alle imprese: le imprese irlandesi con una pressione al 32% o quelle inglesi al 37,8% sono evidentemente avvantaggiate;
PIL Pressione Ufficiale % “nero” meno 20% reale PIL 1.417.241 100,0% 20% 1.133.793 100,00% Tasse 390.911 27,6% 390.911 34,48% Contributi sociali 182.416 12,9% 182.416 16,09% 573.327 40,45% 573.327 50,57% è da notare che il dato ufficiale comprende anche il lavoro “nero”, che è parte integrante del nostro PIL (pochi oggi ricordano che fu una decisione del governo Craxi di integrarlo, mai cancellata dai successivi governi) – il secondo dato riguarda il costo della pubblica amministrazione che nel suo insieme è insopportabile, perché nel suo insieme costa più delle entrate dello stato Biancio consolidato di tutte le PA. 2005 Miliardi % di euro incassi Tutte le tasse (390.911) e tutti gli altri incassi 446,7 100,% Costo del lavoro dei dipendenti delle PA (155,5) (34,8%) Tutte le altre spese (225,5) (50,5%)
Soldi che crescono ma non sono sufficienti per “toppare” i due buchi 65,7 14,7% Contributi sociali 182,4 40,8% Costo della previdenza e dell’assistenza (241,7) (54,1%) “Buco” previdenziale (59,3) (13,3%) Piccolo surplus primario 6,4 1,4% Interessi passivi (64,5) (14,4%) Deficit del 2005 (58,1) (13,%) Detto in breve, da questa tabella appare chiaramente che le aziende non hanno soldi da investire perché con i proventi delle tasse viene pagato il buco previdenziale. – infine le nostre 100 e passa tasse, delle quali le prime 10 rappresentano il 90% del gettito fiscale complessivo, il che indica che il problema non sta nelle troppe tasse, ma nel sistema in sé 1 IRPEF 140.759 36,0% 2 IVA 83.152 21,3% 3 IRAP 34.587 8,8% 4 IRPEG 29.965 7,7% 5 Imposta sugli oli minerali e derivati 23.809 6,1% 6 ICI 11.600 3,0%
7 Tabacchi 8.971 2,3% 8 Ritenute sugli interessi e su altri redditi da capitale 6.903 1,8% 9 Lotto e lotterie 5.536 1,4% 10 Imposta di registro 4.957 1,3% 350.239 89,6% Tutte le altre tasse 40.672 10,4% Totale tasse 390.911 100,0% Altri soldi incassati dalle Pubbliche Amministrazioni 55.791 Totale 446.702 E sia chiaro, tanto per smentire un luogo comune sulle posizioni economiche leghiste e federaliste, che in tutto questo l’arrivo dell’euro è stato molto positivo per noi, come dimostra l’andamento del debito pubblico e degli interessi passivi che ne derivano, prima e dopo l’avvento dell’euro: 1990: debito pubblico e costo degli interessi passivi 663 100% 72,0 2005: debito pubblico e costo degli interessi passivi 1.508 227% 64,5 Il vero nodo quindi sta nell’intreccio fra una pressione fiscale alta ma che redistribuisce in termini di assistenzialismo, ed un buco previdenziale, che da un lato corre veloce, ma soprattutto corre in modo ineguale fra diverse Regioni, anche per diverse situazioni rispetto all’evasione (false pensioni, lavoro nero etc), come dimostrato dalla tabella che segue,
Contributi sociali, previdenza e assistenza Versati dai datori di lavoro 128850 Versati dai lavoratori 52976 Altri 590 Soldi che entrano 182416 Pensioni 222369 Assistenza 19323 Soldi che escono 241692 “Buco” finanziato con le tasse (59.276) Lombardia 2.625 Veneto 453 Tutte le altre Regioni (62.354) (59.276) Oltre alla necessità di chiudere questo buco, c’è anche la necessità di avviare un vero federalismo, che non è una minaccia razzista, ma solo la necessità economica che le regioni che spendono più di quello che hanno (Sicilia, Calabria, Puglia, Campania, Lazio, Piemonte), non facciano ricorso alla cassa “comune” dello Stato, ma intraprendano una strada, che magari durerà altri venti anni, ma che alla fine le riporti ad un equilibrio fra entrate e spesa.
Siamo arrivati al centro della questione, il federalismo, ma a proposito di spesa previdenziale è necessaria una parentesi: non si tratta solo di chiudere un buco enorme esistente, ma di evitare che diventi una voragine tale da affossare del tutto la nostra economia: infatti il nostro sistema previdenziale, concepito negli anni cinquanta e nato vecchio, non regge al progresso demografico ed all’invecchiamento della nostra popolazione, dato dalle migliorate condizioni di vita. Il dato fornito da Wim Kok, sindacalista ed ex premier olandese, nel suo “Rapporto sullo stato di avanzamento della strategia di Lisbona”, non lascia spazio a discussioni: “Old age dependency ratio” Oggi 2050 Italia 29% 61% U.K. 24% 42% E.U. 26% 49% Il nostro sistema previdenziale così com’era, fondato sull’accantonamento da parte di chi lavora per pagare chi è in pensione, è destinato a saltare, perché non può essere finanziato da una minoranza di persone attive rispetto ad una larga maggioranza di pensionati. A causa di queste situazioni stiamo perdendo posizioni ogni anno nelle classifiche che riguardano la competitività e le libertà economiche. Dall’estero gli investimenti in Italia sono quasi azzerati, e siamo sempre più poveri, con un PIL pro capite a 27.700 dollari l’anno, economia sommersa inclusa, che ci fa scendere al 30° posto nel mondo, mentre solo pochi anni fa eravamo fra i primi 10. Il federalismo quindi è una necessità assoluta, perché è l’unico sistema che può permettere:
– redistribuzione corretta del gestito fiscale – riduzione vera dell’evasione – maggior controllo della spesa pubblica – inversione del flusso: non più “cittadini > centro > periferia”, ma “cittadini > periferia > centro” Certo il federalismo per essere tale deve poggiare su presupposti molto forti, anche dal punto di vista politico, che consentano di avere regole di autonomia sostanziali: senza voler prendere a modello i nostri vicini della Confederazione Svizzera, il paragone può essere fatto con la Spagna e con il livello di autonomia della “Generalitat de Cataluna”. Il modello catalano si basa su alcuni principi che lo rendono interessante: – Competenze esclusive e competenze concorrenti, esistono così come nella nostra Costituzione aggiornata, ma in Catalogna le competenze esclusive sono tantissime, altro che la nostra “devolution” e le competenze concorrenti funzionano veramente. Per limitarci ad alcuni esempi, oltre a materie tipiche della competenza locale come agricoltura, trasporto e sicurezza pubblica, ci sono anche competenze delicate e decisive, come quelle sulle casse di risparmio, la borsa, i brevetti, il sistema giuridico locale che incidono in modo profondo sulla vita delle imprese e dei cittadini. Ed anche materie importanti per le sensibilità locali, come l’immigrazione, l’organizzazione e le responsabilità delle pubbliche amministrazioni o l’amministrazione penitenziaria. – Rapporti chiari con la Stato centrale: esiste una Commissione mista Stato-Generalitat per gli affari economici e fiscali. E’ un organo bilaterale con presidenza attribuita a rotazione, decide la percentuale dei tributi statali che vengono ceduti parzialmente dallo Stato alla Catalogna ed i contributi propri della Catalogna. ai meccanismi di solidarietà e perequazione. Inoltre calcola il costo dei servizi che lo Stato dà alla regione autonoma. – Autonomia delle entrate: la Generalitat dispone di finanze autonome per far fronte ai compiti del suo autogoverno. In questo modo le entrate tributarie proprie, si sommano a quelle cedute dalle Stato interamente o parzialmente (compartecipazioni) dallo Stato. – Meccanismo di solidarietà: per gli interventi statali di solidarietà per istruzione, sanità e altri servizi sociali essenziali la Catalogna partecipa “siempre y cuando lleven a cabo un esfuerzo fiscal tambien similar”
Trasparenza! E’ quello che serve qui da noi. Art 206 comma 4: ” i meccanismi di perequazione e solidarietà si realizzano nel rispetto del principio della trasparenza”. In Italia, con poche eccezioni, di trasparenza non parla mai nessuno. In Spagna i cittadini hanno capito che la trasparenza è la chiave per l’efficienza e per togliere potere ai tanti che ne fanno un pessimo uso. In Italia si può fare qualcosa, senza pretendere di fare tutto e subito; si può pensare ad alcune fasi successive: 1. passare dal federalismo fiscale al federalismo fiscale e contributivo 2. eliminare le Province, fonti di spreco e di ulteriore sovrapposizione delle competenze 3. Lavorare sull’Articolo 117 della Costituzione: lo Stato deve fissare i principi fondamentali relativi al lungo elenco di “sovranità concorrenti”. “Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato” Identificare i compiti di Regioni e Comuni. Valorizzarli pro-capite con costi standard. Il risultato (numero dei residenti moltiplicato per i vari costi standard) viene finanziato, in ogni singola Regione, con la compartecipazione ad un tributo erariale. Partendo da questi contenuti e con questi obbiettivi la riforma federale dello stato si può fare.
INTERVENTI DELLA FABBRICHETTA
Interventi di Piervito Antoniazzi. Luca Beltrami Gadola Agostino Fornaroli Francesco Florulli.
A proposito del problema previdenziale – demografico, come affrontare la questione dell’espulsione dei cinquantenni dal mondo del lavoro, che contraddice il meccanismo descritto ?
R – “Il fenomeno è complesso e riguarda prima di tutto le aziende, ma dobbiamo anche chiederci di fronte al turn over per età perché questo fenomeno avviene in Italia e non in Germania o in Inghilterra. Ci sono probabilmente anche fattori strutturali.
D – Cosa pensa delle diverse risultanze del poco di federalismo che abbiamo, in Valle d’Aosta o nelle Province autonome di Trento e Bolzano ?
R – Effettivamente i risultati sono contraddittori, ma dipende dalle situazioni locali integrate in un sistema che non funziona.
D – Una domanda politica: quale futuro per la Lega?
R – “Il mio metro di valutazione è quello della utilità concreta per il sistema paese, e devo dire che purtroppo oggi come oggi non vedo nessun futuro. Oggi la Lega è, come dire, “un’altra cosa”. Per le elezioni politiche di Aprile 06 ha accettato il programma elettorale della CDL nel quale
1) nella sezione “Fisco” non c’era nessun riferimento al federalismo fiscale.
2) nella sezione intitolata “SUD Piano decennale straordinario per il superamento della questione meridionale” si prevedeva un “Federalismo fiscale solidale e misure di fiscalità di sviluppo (compensativa) a favore delle aree svantaggiate”.
Questo vuol dire che se la CDL avesse vinto le elezioni avremmo dovuto trasferire ancora più quattrini dalle nostre Regioni a quelle del Mezzogiorno e vi ho già detto che questo significa minori investimenti in ricerca, sviluppo, nuove tecnologie e nuovi prodotti. In sintesi meno competitività, meno investimenti, meno lavoro e più povertà. Se la gente fa fatica ad arrivare alla fine del mese la colpa non è certo dell’Euro ma dell’enorme assistenzialismo che ci rende ogni giorno meno competitivi.
Infine 3) nella sezione intitolata “Finanza pubblica” il programma della CDL prevedeva di ridurre il debito dello Stato tramite la vendita di patrimonio pubblico, che per la maggior parte non è di proprietà dello Stato ma è proprietà delle nostre Regioni e dei nostri Comuni. Quando ho letto quel testo non potevo credere ai miei occhi.
Così come faccio ancora oggi molta fatica a credere a certe dichiarazioni di Gianpiero Fiorani es. amministratore della Banca Popolare di Lodi, dalle quali sembra che la Lega abbia “venduto” il suo voto a favore di Fazio durante la discussione della legge sul risparmio. Ho chiesto spiegazioni, ho aspettato con pazienza i congressi ma di fronte al silenzio non ho potuto fare altro che andarmene. Senza sbattere la porta perché per Bossi sento ancora affetto, ma è certo che per la Lega di oggi non riesco a vedere un futuro. Naturalmente spero che torni ad essere quella di una volta: liberista e seriamente impegnata per una riforma federale di cui il paese ha sempre più bisogno ogni giorno che passa.”
CARCERE: UN GHETTO IN CITTA’ ?
Valerio Onida
Professore di Diritto Costituzionale
Presidente Emerito della Corte Costituzionale
Fra le proposte di discussione concreta sulla Milano che viviamo e che vorremmo far cambiare, la Fabbrichetta ha colto l’occasione di interrogare il professo Valerio Onida, Presidente emerito della Corte Costituzionale, non dei molti temi propri della sua esperienza accademica e professionale, ma della sua sfera privata, poiché Valerio Onida si occupa come volontario della condizione carceraria. Uno dei molti argomenti sui quali il Comune di Milano potrebbe avere voce in capitolo.
Il tema è interessante, perché se solo passasse concretamente questa idea, ci sarebbe un enorme passo avanti nella considerazione dei temi carcerari, perché la realtà odierna è che di carcere non si occupa compiutamente neanche chi dovrebbe prendersi cura dell’istituzione carceraria nel suo complesso.
E’ considerazione evidente che la città si occupa dei propri luoghi, nei quali vivono i nostri concittadini. Tale è anche il carcere, e tali sono, anche se spesso lo si dimentica, i carcerati.
Non molti sanno che molti carcerati chiedono la residenza nel comune di reclusione, per poter risolvere in modo più pratico i loro problemi amministrativi. Ad esempio a San Vittore si reca periodicamente un impiegato comunale per gestire lo sportello . Analogamente l’amministrazione municipale si occupa di facilitare l’accesso ai luoghi di reclusione periferici con linee regolari di mezzi pubblici.
Milano ha quattro istituti carcerari maggiori, San Vittore, Opera, Bollate e il Beccaria per i minori. Il più vecchio e centrale, San Vittore, assolve ormai la funzione di custodia di detenuti in attesa di giudizio, che non scontano una pena definitiva, ma sono in regime di custodia cautelare. Per questo a San Vittore non si applicano tutti gli istituti del regime penitenziario, e quindi ad esempio il lavoro e la cultura non sono dei diritti. Giuridicamente si tratta di una situazione corretta a norma di legge, ciò non toglie che si pongano dei seri problemi pratici.
Opera e Bollate sono strutture relativamente recenti, anche se invecchiate in fretta ed in modo diverso fra loro, mentre al minorile Cesare Beccaria i giovani detenuti restano sino al 21° anno, prima di affrontare il salto, spesso drammatico, verso il carcere ordinario.
Questo mondo appartiene alla città, e qualcuno dice che le carceri contribuiscono a valutare il grado di civiltà di una nazione.
Questo principalmente perché il carcere ha un valore rieducativo, anche se oggi è un dato di fatto acquisito che tale non sia per chi ci arrivi da situazioni marginali per motivi sociali, economici o familiari. Il carcere dovrebbe essere un momento privilegiato per occuparsi di queste persone marginali, altrimenti così difficili da controllare e persino abbordare per l’istituzione. Purtroppo anche questa occasione non viene colta, non ostante, come spesso accade in Italia, l’esistenza di una buona legge, che però viene spesso male applicata. C’è una distanza siderale fra le belle esposizioni ed aspettative delle leggi, e la realtà carceraria.
Ad esempio l’art 20 della legge sull’ordinamento carcerario dice che il lavoro è obbligatorio, ma poi nelle carceri italiane solo il 20% dei detenuti ha un lavoro interno o esterno. Bollate arriva al 50%, e questo ne indica la situazione privilegiata. Il motivo delle differenze sta nelle strutture e nelle risorse: il sovra affollamento delle strutture è un fatto noto, e laddove manca la struttura minimale non è possibile pensare a spazi per il lavoro.
Ma le risorse sono anzi tutto gli uomini: la polizia penitenziaria non copre mai interamente gli organici né ha rapporti numerici adeguati agli standard internazionali. Si assiste invece ad un fenomeno di cattiva distribuzione geografica delle risorse umane, tema ricorrente nella nostra amministrazione pubblica così sbilanciata in termini di personale verso il mezzogiorno.
Tuttavia il rapporto fra polizia penitenziaria e detenuti è generalmente buono, non mancano le opportunità di formazione.
Del tutto carente è invece il livello delle risorse nelle aree del personale non di custodia: educatori, psicologi ed altre categorie sono rarissimi, al punto che si stima siano poco più di 200 in tutta Italia.
Ci sono poi limitazioni fortissime per tutto quanto costa, dall’acqua calda alla carta per scrivere, sino al capitolo delicatissimo della sanità. Il detenuto ha per legge, tutti i diritti del cittadino in materia di salute, e se prima esistevano strutture sanitarie all’interno del carcere, nel regime del Servizio Sanitario Nazionale è l’Azienda Sanitaria Locale a dover assicurare le prestazioni a tutti i carcerati, cittadini e non. Ovviamente le particolarità della condizione carceraria si riflettono sulle prestazioni sanitarie, perché il carcerato non è libero di spostarsi autonomamente né in modo programmato solo in funzione dei suoi bisogni sanitari, il che pone un serio problema organizzativo.
A Milano presso l’Ospedale San Paolo c’è un reparto di degenza riservato ai detenuti, ma ovviamente è poco per le quattro strutture di reclusione milanesi.
Stante questa situazione il problema è cosa fare.
Alcuni enti locali nominano un garante dei diritti dei detenuti, fra essi tanto il Comune di Roma che la Provincia di Milano. La cosa in sé potrebbe anche avere un valore, purtroppo questi enti non hanno né poteri reali né strutture su cui appoggiarsi, e quindi si finisce per essere condizionati dalla personalità del garante.
Che poi esiste già per legge, ed è il magistrato di sorveglianza, ovvero colui che ha, fra gli altri, il compito di sorvegliare la corretta gestione della struttura carceraria. Nella realtà gli altri numerosi compiti del magistrato di sorveglianza (in particolare amministrativi in relazione al calcolo ed alle modalità della pena per ciascun detenuto) finiscono per essere prevalenti, e quindi la figura determinante diviene quella del Direttore del carcere, come ad esempio a Bollate.
Ben vengano queste figure se propositive, ma spetterebbe alla amministrazione penitenziaria nel suo insieme l’azione concreta, e non le sole iniziative di bandiera molto visibili ma poco reali.
L’ente locale ha funzioni che interagiscono in modo sostanziale col mondo carcerario, prima fra tutte la competenza sui servizi sociali , che si occupano di raccordare i detenuti che stanno anche parzialmente fuori dalla struttura, in regime di semi libertà. Ha poi competenza sull’edilizia, il che non è secondario perché se come vuole la teoria la pena dovesse essere scontata principalmente fuori dal carcere allora una politica edilizia per il carcere avrebbe un impatto serio. Potrebbe infatti incidere sulla detenzione domiciliare, che spesso risulta impossibile per la pratica mancanza del domicilio specificamente per i detenuti extra comunitari, ma anche per molti cittadini. E’ il caso delle detenute madri, che se hanno figli minori di 10 anni, e in assenza del rischio che possano commettere reati gravi, dopo avere scontato 1/3 della pena possono accedere alla carcerazione domiciliare.
Inoltre il Comune si occupa di lavoro interviene in prima persona sul mercato del lavoro, e questo è un tema centrale per il detenuto, che se non ha lavoro oggi in carcere, ben difficilmente potrà trovarlo domani quando dal carcere uscirà. La legge Smuraglia aveva dato 6 mesi di sgravi fiscali a chi assumeva un detenuto all’uscita dal carcere, ma dovrebbe fare seguito un’assunzione a tempo indeterminato, e questo avviene raramente, per motivi legati alla congiuntura economica.
Ancora, il Comune ha competenza sulla cultura, ma interviene oggi solo con la limitata fornitura alle biblioteche del carcere, laddove potrebbe intervenire con risorse aggiuntive. C’è un esempio della Regione Lombardia che paga personale integrativo che ha funzione di supplenza rispetto alla citata carenza di organici.
Peraltro è evidente che per fare ci vogliono risorse, anche solo per creare le condizioni materiali del pratico utilizzo delle risorse stesse. Si può parlare di una miriade di micro progetti che potrebbero essere supportati con un minimo impegno da parte dell’ente locale.
(Viene citato il caso della costruzione di un bagno nuovo per l’asilo nido di San Vittore, finanziato da privati e realizzato nella sostanziale indifferenza dell’istituzione e nella competitività fra organizzazioni volontariato).
Spesso il problema si limita all’assenza di coordinamento: nella stessa amministrazione penitenziaria c’è grande lentezza per arrivare all’applicazione della pena, figuriamoci della lentezza con la quale i detenuti possono fruire dei benefici di legge. Il solo collegamento informatico reale svecchierebbe l’amministrazione dando maggiore efficacia al suo lavoro.
Esiste un esempio evidente della carenza di coordinamento: la legge di riforma dell’ordinamento carcerario, prevedeva l’istituzione di “Consigli di aiuto sociale” in ogni distretto di Corte d’appello. Questi enti, presieduti dal Presidente del Tribunale avrebbero dovuto avere ampie competenze su tutti gli aspetti della vita carceraria, ed essere finanziati con la cassa ammende dei tribunali. Non ne è entrato in funzione neanche uno, e le loro funzioni di coordinamento non sono svolte da nessun altro organo.
C’è poi il lungo e complesso capitolo degli stranieri: certamente non tutti gli stranieri che arrivano sono tutti delinquenti. Oggi gli stranieri rappresentano il 30% della popolazione carceraria a livello nazionale, mentre se ne stima una quota intorno al 10% della popolazione nazionale. Questa quota supplementare è dovuta all’assenza di quella rete esterna di supporti che conduce in condizioni normali ad evitare il carcere, e quando ciò non è possibile, ad affrontarlo con la disponibilità dell’appoggio familiare all’esterno. Così il carcere è pieno di detenuti che scontano pene brevi, sino a tre anni, alle quali quasi tutti gli italiani sfuggono.
Se il comune collaborasse in maniera attiva nella gestione del processo di rilascio dei permessi di soggiorno, oggi svolto dalla Polizia di Stato con spirito di sacrificio, ma nessun mezzo supplementare, si avrebbero famiglie più rapidamente e compitamente integrate. E questo finirebbe per evitare marginalità, e nel caso, di dare un supporto ai detenuti, per non fare del carcere una condizione irreversibile e prolungata nel tempo.
Su tutto questo il Comune potrebbe intervenire, ma con fantasia e buona volontà molto si potrebbe fare. Si tratta in primo luogo di intervenire in modo coordinato con altri enti pubblici aventi competenza sul carcere, dalla magistratura alla stessa amministrazione penitenziaria, alla sanità pubblica, e con gli enti privati quali il settore del volontariato. Questo complesso di enti funziona meglio e con maggiore efficacia se c’è un coordinamento ed un supporto, innanzi tutto tecnico, non necessariamente finanziario.
Il Comune di Milano non è decisivo ma neanche del tutto assente: c’è un Osservatorio Comune/Carcere, coordinato dal Dirigente dell’Assessorato ai servizi sociali, che si occupa di coordinare gli interventi delle associazioni di volontariato. Ci sono iniziative minime, come 3 appartamenti messi a disposizione ad Opera per i permessi e la semi libertà, su fondi Cariplo, peraltro non permanenti. Si tratta di rendere continuativa e coerente questa politica.
Il volontariato e l’intervento sostitutivo dell’ente locale non possono essere anche letti come l’abdicazione dello stato dai suoi compiti in materia di rieducazione ? E la gestione del rapporto con il volontariato, non è legata a politiche di breve respiro ed a strutture che poi sono di potere o sotto potere economico ? Nell’esaminare le responsabilità politiche dell’ente locale in materia carceraria questi dubbi non sono eludibili. Anche perché che la responsabilità sia politica, giudiziaria, istituzionale, quello che è certo è l’impatto dell’universo carcerario sulla realtà sociale.
“E’ ancora possibile limitare il traffico a Milano?”
Prof Marco Ponti
Docente di Economia dei trasporti
Politecnico di Milano
Introduzione di Pier Vito Antoniazzi
Corriamo volentieri il rischio di ripeterci ricordando che la Fabbrichetta è nata per rinnovare la scatola degli attrezzi necessaria per ragionare su Milano, anche con un occhio alle idee ed alle cose concrete da trasmettere al candidato sindaco della sinistra. Il tema del traffico è di portata tale da fare tremare le vene nei polsi, ma la sinistra ha saputo in passato affrontarlo in modo innovativo, a partire dai ragionamenti. Così tra il 1985 ed il 1990, quando in Consiglio Comunale la discussione a proposito del secondo referendum sul traffico (che voleva estendere ai bastioni il limite) venne drammaticamente cancellata e rinviata sine die a causa della morte durante l’ultima seduta consiliare di legislatura del socialdemocratico Cucchi. Così nel 1989, quando il primo allarme anti inquinamento venne lanciato a seguito dei lavori di una commissione coordinata da Bruno Ferrante, all’epoca capo di gabinetto del Prefetto Caruso. Per la prima volta un’amministrazione ammetteva l’esistenza del problema inquinamento, per di più in una città come Milano che “per antonomasia” non si può fermare. Dopo quella stagione innovativa il comune sull’argomento si è limitato a fare da comparsa, lasciando la scena in parte alla regione.
Chiediamo oggi a Marco Ponti, che studia da tempo i problemi del traffico, di darci il suo contributo per ragionare sui problemi del traffico a Milano, e su cosa aspetta la prossima amministrazione comunale.
Il problema traffico ha soluzioni, ma non ricette magiche: non c’è una misura unica che risolve tutto, ma una serie di misure parziali, anche pesanti per come possono incidere sulla vita dei cittadini, che vadano in una direzione unica, quella della riduzione complessiva del traffico cittadino.
Questo innanzi tutto perché Milano, come molte altre metropoli, soffre dell’effetto detto dei vasi comunicanti: se si ferma totalmente il traffico in centro, immediatamente si rende caotico il traffico in periferia, ed analogamente per l’inquinamento che ne consegue.
E’ anche vero che basta poco per ottenere dei risultati, magari piccoli, che pero devo essere stabilmente acquisiti per avere un effetto concreto e per evitare i vasi comunicanti. La stabilità degli effetti è il nocciolo del problema di qualunque misura di regolazione del traffico.
Ci sono anche aspetti sociali che inducono a non pensare a misure uniche e drastiche: non si può demonizzare il traffico generato da quanti arrivano ogni giorno in macchina dagli insediamenti urbani più o meno lontani dal centro cittadino, perché queste persone sono nella quasi totalità cittadini che, privi di alternative sostenibili, sono sfuggiti agli alti costi della città.
Una delle proposte comunque sul tappeto è quella del “road pricing”, e su questa la prossima amministrazione dovrà non solo lavorare, ma produrre risultati. In proposito si possono fare alcune asserzioni anche provocatorie: se seguissimo l’esempio di Londra a Milano i cittadini che usano il mezzo di trasporto pubblico potrebbero essere pagati invece di pagare il biglietto, e se ci limitassimo a quello francese, quei cittadini potrebbero semplicemente non pagare nulla. Questo perché i costi di esercizio delle aziende di Londra o Parigi sono enormemente inferiori a quelli nella nostra azienda municipalizzata, ed è doloroso a dirsi, principalmente per la componente di costo del personale. Non che i guidatori ATM abbiano stipendi principeschi, ma da un lato c’è una scarsa produttività dovuta alla scarsa efficienza del sistema del trasporto pubblico, e dall’altro sono stati innescati meccanismi corporativi tali che oggi in ATM guadagna di più chi lavora di meno. Ci sono incredibili residui di passato che si mischiano a nuove intolleranze, come il divieto di assumere nelle società di trasporti personale non di nazionalità italiana, ciò che preclude l’accesso a fasce di lavoratori a più basso reddito.
Per iniziare una spirale virtuosa, fatta di piccoli passi, con effetti stabili, potremmo spostarci rapidamente da una situazione vicina a quella del Cairo (con tutto il rispetto per la capitale egiziana) ad una più prossima a Stoccolma: basterebbe cambiare la politica delle sanzioni. Sui comportamenti scorretti, l’Economist ha recentemente definito Milano la capitale mondiale della sosta in doppia fila, ed un fondo di verità c’è. Il fatto certo è che per qual comportamento, la sosta in doppia fila, altrove, a partire dagli Stati Uniti, c’è certezza di sanzione. Da noi certezza di impunità, ma peggio di tenere un comportamento accettabile, ed economicamente vantaggioso: col basso numero di multe ricevute, parcheggia quotidianamente in seconda fila non costa più di un caffé al giorno. Se invece la sanzione fosse certa e il comportamento ci sarebbe un effetto di civiltà e di educazione, aggiustando inoltre il prezzo complessivo, perché aumenterebbe, in termini di multe o di spesa per parcheggio, la spesa complessiva di chi in città può o deve permettersi di entrare, a vantaggio di tutta la collettività. C’è il problema più vasto della sosta delle auto dei residenti, per il quale si calcola che ¼ delle auto siano parcheggiate in permanenza in divieto di sosta.
Il sindaco uscente ha ottenuto la nomina a Commissario straordinario per il traffico, sperando di affrancarsi dagli interessi di partito, ma poi non ha saputo resistere alle pressioni di Alleanza Nazionale che ha cavalcato la tigre del rifiuto della rigidità delle norme. Esempio lampante quello della restrizioni degli orari per le consegne ai commercianti, che sono state sì limitate ad uno specifico orario, ma con una riserva, con la quale sono fatte salve “le esigenze produttive o commerciali”, ovvero tutto. Ed infatti non ci sono più limitazioni.
Una delle cose più banali da fare sarebbe provvedere a ridisegnare l’arredo urbano, ad esempio facendo marciapiedi più alti, per evitare che le macchine ci salgano, e con corsie bene disegnate, rendendo evidente dove non è ammessa la sosta.
Misura altrettanto banale, ma di forte impatto, vietare completamente la sosta nelle aree ad almeno 30 metri dai semafori, perché l’efficienza complessiva del sistema dipende dal numero di auto che passano ad ogni tempo di verde.
Uno degli effetti combinati di tutte queste misure sarebbe quello di liberare il trasporto pubblico, che presenta tutta una serie di aspetti specifici su cui intervenire. Quello delle corsie riservate al mezzo pubblico è un argomento caldo: si potrebbe renderle fruibili per auto con almeno 3 persone a bordo, auto a basso impatto ambientale (elettriche) o semplicemente che paghino un ticket elevato, perché queste sono le leve del “road pricing”: il ricco paga per gli altri, e le tariffe contengono elementi di equità più forti dei divieti.
Parlando di mezzo pubblico, fra tram ed autobus ecologici la scelta se orientata solo economicamente non può che essere per l’autobus, perché il tram essendo anelastico ha bisogno di un sistema di protezione e supporto dei binari costoso. L’autobus ha rispetto al tram un costo infrastrutturale di circa ¼, ma senza essere legato ai binari serve più gente ed evita la cosiddetta “rottura di carico”, ovvero il cambio di mezzo, tipica del tram.
C’è il mito del ferro, inteso principalmente come treno, sul quale è bene non farsi illusioni: solo una piccola percentuale di utenti può essere realisticamente spostata dalla gomma al ferro, anche per i costi enormi delle infrastrutture necessarie, che rendono il nostro trasporto su ferro il più caro d’Europa.
Ed a questi altissimi costi corrispondono miglioramenti reali limitati, anche a fronte di potenzialità smisurate: la linea Milano – Torino sulla quale viaggiano oggi 28 treni semivuoti al giorno, avrà a linea completata una potenzialità di 350 treni al giorno. Che non sembra potrà essere sfruttata adeguatamente, rendendo l’enorme investimento davvero poco razionale.
Il mezzo pubblico e la politica dei trasporti sono in stretta relazione con quello della densità urbana e della rendita degli investimenti immobiliari: tornando alla fascia di popolazione che ha lasciato la città, per insediamenti urbani a prezzi più accessibili, l’arrivo di una linea metropolitana ha un effetto dirompente, creando nuove tensioni economiche e sociali in quegli insediamenti. Questo perché c’è una relazione problematica fra trasporti pubblici e densità:le alte densità facilitano l’efficienza dei mezzi pubblici, limitando la dispersione del trasporto, ma innescano processi di tensione sulla rendita immobiliare. In questo senso i vincoli facilitano la rendita, mentre il liberismo sfrenato in materia di trasporti, all’estremo farebbe crollare i prezzi.
Anche le metropolitane sono un ottimo modo di viaggiare in città, ma hanno un costo altissimo e investimenti di questo tipo non possono essere affrontati soltanto capitalizzando alcune proprietà comunali per fare cassa: è necessario un consenso sul livello di investimenti e sui progetti, che vanno comunicati alla popolazione, il cui consenso è necessario.
Il problema sta nel modello di vita che va in un’altra direzione, e non si tratta di fatto milanese: in Veneto è stato fatto un piano di trasporti ferroviari che avrebbero dovuto portare molti pendolari ad abbandonare l’auto, ma è stato il piano ad essere abbandonato dopo due anni, perché i treni continuavano a viaggiare vuoti negli orari di morta e ad essere insufficienti in quelli di punta. Non si deve poi dimenticare che il sistema ferroviario è fatto di monopoli (pubblici, semi pubblici e privati) non contendibili, che aggiungono alle aspettative dei loro azionisti quelle dei loro dipendenti, generando possibili tensioni sociali non secondarie.
Un nemico forte della politica dei piccoli passi stabili è proprio l’insieme delle corporazioni, che hanno una capacità di alzare la voce e di farsi ascoltare dalle istituzioni e dalla collettività, evidenziando i loro problemi a scapito di quelli di tutti. Oltre ai dipendenti dei monopoli, basti pensare ai commercianti.
Certamente sono da contare fra le misure da perseguire all’interno dei piccoli passi, le piste ciclabili, sulle quali anche io ho avuto dubbi in passato, ma l’esempio delle grandi città del nord è positivo, e quindi che siano piste vere e proprie, marciapiedi allargati o percorsi verdi, ben vengano.
Un’alternativa al “road pricing”, argomento trasversale in diverse misure possibili, è quello del “park pricing”, in particolare a Milano. Infatti Milano non è Londra, ha una conformazione urbana tale per cui il ticket avrebbe un forte impatto sociale. Fare invece pagare a tutti il parcheggio è economicamente più facile, anche se le controversie sugli aspetti giuridici ed il timore di reazioni sociali forti, non hanno fino ad oggi fatto fare passi significativi su questa strada.
Il parcheggio sotterraneo è un utile supporto alla politica della sosta regolamentata, anche se ci sono le resistenze degli urbanisti e se le esperienze non sono tutte positive.
Tutte queste misure si possono definire discriminazioni dei comportamenti: possono essere proposte a proposito delle emissioni, favorendo quindi la circolazione dei veicoli a basso impatto ambientale (euro 4 ecc.). Anche queste politiche hanno un impatto sociale, perché non si possono obbligare le categorie a basso reddito a cambiare auto, ma il risultato da conseguire è troppo importante a livello complessivo per farsi fermare da queste considerazioni.
Anche le dimensioni dei veicoli devono diventare una discriminante: lo spazio pubblico è un bene cui va dato il giusto valore, ed un SUV deve pagare più di una Smart, indipendentemente dal fatto che questa possa essere una quarta macchina.
All’interno di una politica di questo tipo anche la realizzazione di viabilità sotterranea con tunnel riservati alla circolazione delle auto, potrebbe essere parte del progetto, perché libera le strade, promuove una circolazione fluida e quindi meno inquinante in quanto libera dall’effetto “stop and go”. Inoltre la tecnologia relativa alla realizzazione e ventilazione dei tunnel ha fatto grandi passi avanti negli ultimi anni.
Un altro ausilio tecnologico importante può venire dal “transponder”, noto per la sua applicazione “telepass”, che ormai è un circuito integrato applicabile su di un foglio di carta, e se incollato sui vetri delle auto permette una serie di soluzioni attive (controllo degli accessi) e repressive (multe a tappeto), che potrebbe liberare risorse per costruire una contropartita fatta di servizi ai cittadini (parcheggi – corsie preferenziali – piste ciclabili).
Se il risultato delle misure combinate che l’amministrazione può mettere in campo sarà positivo, avremo nelle strade un numero ragionevole di veicoli, creando meno inquinamento, e allora si potrà orientare la politica alla fluidità, badando di evitare l’effetto dei vasi comunicanti, ovvero non liberare le strade per attirare nuove auto.
La continuità della giunta Albertini con i progetti conosciuti della candidata Moratti stanno proprio nel subire questa percentuale del 60% dei cittadini che scelgono l’auto, rispetto alla minoranza che sceglie il mezzo pubblico. Avendo chiaro l’obbiettivo di migliorare il trasporto pubblico di superficie, moderare il traffico e incentivare l’uso del treno, con i provvedimenti citati ed altri ancora si può riuscire nell’impresa di migliorare le condizioni del traffico.
Ci sono alcune parole d’ordine che si possono evocare, e che per gli urbanisti rappresentano contributi concreti alle politiche di modernizzazione del traffico urbano:
– intermodalità, nel senso di favorire gli scambi di mezzo al fine di rendere più fluido il sistema nel suo complesso
– informazione on line, per contrastare l’effetto vasi comunicanti dovuto ad ogni piccolo incidente ed inconveniente nella vita di ogni giorno, consentendo di non creare i tappi nella circolazione
– arrivare a porre un fine alla crescita esponenziale delle vetture in città, con il controllo da parte del comune che ad ogni nuova immatricolazione corrisponda un posto auto
– gestione attiva della politica dei taxi, dal taxi sharing come discriminante positiva accanto a quelle già evocate, e l’aumento del numero delle licenze con metodi che proteggano il valore delle licenze attualmente in essere
Nella politica di informazione un capitolo a parte va lasciato all’effetto annuncio: cambiamenti anche importanti e controversi non hanno possibilità di essere recepiti se non sono opportunamente e tempestivamente comunicati e spiegati ai cittadini.
MILANO CHIAMA L’ASSICURATORE
Francesco Bizzotto
Già Ufficio Studi FIBA CISL
Da alcuni anni alcune persone di diversa estrazione, ma accomunate dalla passione politica e dall’esperienza assicurativa, hanno messo a disposizione le loro competenze, dando vita all’Ulivo delle Assicurazioni.
Il riscontro purtroppo non è stato positivo: i partiti sono refrattari a recepire competenze che non possano essere strumentalizzate e quindi non hanno dato la sponda che ci si aspettava.
Quella delle competenze è la questione della società civile, nel senso che una società civile organizzata pone la questione della rappresentanza in modo alternativo rispetto a quello proposto dai partiti.
Nella professione assicurativa ci sono ampie riserve di competenza, benché poco conosciute tanto a destra che a sinistra, a causa di una scarsa considerazione in cui la politica tiene la cultura d’impresa in generale e quella del rischio in particolare.
Il settore assicurativo ha una ricca produzione di cultura aziendale, ad esempio nel CINEAS “Consorzio Universitario per l’ingegneria nelle assicurazioni”, all’interno del quale Politecnico di Milano e industria assicurativa promuovono lo studio ingenieristico del rischio (risk engineering) con la tecnica propria della gestione degli eventi dannosi (loss adjusting). Il tutto arrivando anche alla produzione di corsi formativi per attività di servizio a tutto vantaggio della collettività, quali quelli di “Hospital Risk management”.
Il mondo assicurativo sta cercando in molti suoi settori di abbandonare l’autoreferenzialità ancorata al passato nella misurazioni dei rischi, che è entrata in crisi.
Da esperienze innovative di questo genere possono venire dei suggerimenti per l’amministrazione cittadina, che sia di stimolo per un nuovo approccio comune fra compagnie e cittadini ai problemi legati alla copertura dei rischi. In questo senso molto interessante sarebbe l’idea che il comune spinga le compagnie a proporre nell’area metropolitana forme di copertura veramente ampia (cosiddetta all risk), che non si basi sul tradizionale rimpallo fra garanzie ed esclusioni, ma copra per intero una categoria di rischi. Se si prova ad applicare questo approccio alle polizze dei condomini, si ha un’idea immediata di quale ritorno possa esserci per i cittadini intermini di maggiore sicurezza. Infatti insieme amministrazione e cittadini investirebbero in una iniziativa di lungo periodo, volta all’equilibrio ed alla stabilità di un importante settore della vita cittadina, tale da favorire il controllo di una serie non trascurabile di rischi.
Oltre che per progetti particolari come questo, gli assicuratori cittadini, che sono molti ed importanti non solo all’interno della categoria, potrebbero essere chiamati dalla nuova amministrazione a partecipare ad un tavolo nel quale far convergere la ricerca di soluzioni a problemi di ordine generale della città.
Il traffico ed i suoi legami con la copertura assicurativa per antonomasia, quella di RC auto, ma anche i temi dell’autosufficienza, che possono vedere un approccio multidisciplinare fra volontariato, istituzioni e privati, limando gli sprechi dovuti alla cronica duplicazione di interventi, ed arrivando fino quasi a fornire uno sportello unico delle soluzioni a questo grave problema tipico della città che invecchia.
Il mondo assicurativo ha in sé competenze e cultura che possono permettergli di essere utilmente messo se non al servizio, quanto meno in sintonia con una nuova politica di una nuova amministrazione cittadina.
Dobbiamo capire cosa può fare l’amministrazione per ridurre veramente i rischi dei cittadini, all’interno di una politica vera dell’emergenza. Probabilmente il primo compito dell’amministrazione è quello di prevenire ed informare: cercare di prevenire le situazioni di rischio, e nel contempo dare il massimo di informazione e trasparenza su questi temi.
Nell’economia nazionale la componente assicurativa milanese ha un peso molto rilevante, che non ha un adeguato ritorno verso la città. A Milano vengono sottoscritti, a seconda delle valutazioni, fra il 20 ed il 27% dei contratti di assicurazione che annualmente si accendono in Italia. Cosa resta di questo a Milano: sempre meno in termini occupazionali, benché non sia ancora cominciata una vera delocalizzazione, ma soprattutto molto poco sul piano sociale.
C’è anche una visione meno ottimistica del mondo assicurativo, che è sempre più improntato alla logica del breve periodo ed all’assorbimento nella logica finanziaria di quella che dovrebbe essere un’industria di servizi. Esistono dubbi che effettivamente azionisti e manager vogliano e possano impegnarsi in iniziative che non rientrino nella loro visione di immediato ritorno di utilità.
Nota per La Fabbrichetta di Francesco Bizzotto
Il mercato. Premi incassati ogni anno in Italia: 100 miliardi di euro (65 Vita, 18 RCA e 17 altri rami Danni). Per il 12,5% (Vita), 11,1% (Danni) e 7,3% (RCA) in provincia di Milano.
Riserve e investimenti per 500 miliardi.
Tipico servizio della Società, con la sua mediazione ha reso possibile l’iniziativa individuale (che esplora la possibilità, rischia). Non si contrappone ma aggiunge valore alle Comunità.
Le domande. Quale servizio è in campo a Milano? Quali innovazioni sono mature, necessarie? Cosa ritorna alla città in termini di investimenti? È possibile un dialogo che apra allo sviluppo e associ l’assicuratore, soggetto di Welfare e investitore istituzionale di equilibrio (il suo 1° interesse)?
Sì. Su tre terreni in particolare Milano chiama l’assicuratore a crescere e innovare:
Aiutare di più le nostre IMPRESE che competono nel mondo: con polizze All Risks e con informazioni sistematiche sui rischi specifici (in Usa l’80% degli assicuratori promuove servizi di completa gestione dei rischi; in Inghilterra il 30%; in Italia il 6%).
Definire una nuova polizza SALUTE per la FAMIGLIA, che consenta di scegliere differenze di prestazioni nel pubblico (solventi): per personalizzare la cura, premiare le eccellenze mediche e far affluire risorse agli ospedali. Una polizza che preveda e incentivi percorsi di Prevenzione.
Ripensare la RCA. Il sistema di Indennizzo diretto è buona occasione per: assicurare la Patente e legare la dinamica del premio al comportamento di guida (il vero rischio) anziché al sinistro (il caso); investire in Prevenzione (Francia); Assistere nel sinistro (intervento immediato).
VIVIBILITA’. L’assicuratore ha un preciso interesse alla salute dell’uomo e dell’ambiente. È l’attore di mercato per eccellenza di questi equilibri. Come coinvolgerlo? Ascoltarlo, parlarne!
Per la cultura cittadina c’è davvero il “crollo delle aspettative” recentemente evocato ? MILANO CITTA’ MUSEALE ?
Prof. Paolo Biscottini
Direttore del Museo Diocesano di Milano
Nella sala in cui si svolge questa riunione c’è su di una parete la foto di un elefante in ginocchio, che rende perfettamente l’idea della situazione della cultura milanese: una grande potenzialità, un enorme patrimonio , un incredibile ricchezza di idee e soprattutto una grande storia di civiltà e di pensiero. Questa è Milano, un gigante piegato su di sé, sul il crollo delle sue aspettative, parafrasando un’affermazione di Luca Doninelli.
San Carlo, dopo la peste, nel suo famoso memoriale invocava il risveglio di Milano: alzati Milano cieco!
Così noi oggi vorremmo riassaporare il risveglio culturale di Milano e vedere la nostra città recuperare il suo ruolo morale e culturale, in Italia, in Europa, nel mondo.
L’amministrazione comunale uscente non ha colto la gravità della crisi esistente e l’ha ridotta ad un problema finanziario, come se la carenza dei fondi ne fosse responsabile. Il problema è più profondo. Le risorse finanziarie sono certamente fondamentali, ma da un lato è necessario ripensare e rivedere i costi (non è giunto il tempo di istituire nell’ambito comunale il cosiddetto bilancio di settore?), abbassandoli drasticamente, con una politica oculata e meno faraonica (penso soprattutto alle mostre), mentre dall’altro bisogna formulare progetti capaci di attrarre l’attenzione del privato, che sempre di più vuole capire la serietà delle proposte che gli vengono presentate, disposto anche a non discutere soltanto il suo ritorno d’immagine. Il problema è questo. Il progetto. E’ questo è il problema di cui dovrà farsi carico il nuovo sindaco, quello di un progetto culturale che, tenendo conto delle grandi risorse culturali di Milano, le orienti verso un nuovo sviluppo, capace di suscitare l’interesse anche del mondo finanziario.
Manca, è mancato un progetto inteso come “modifica del presente” e quindi come proiezione nel futuro dell’identità culturale della città.
Si è parlato della grande potenzialità museale cittadina, del suo incredibile patrimonio artistico (quale altra città vanta la presenza così importante di opere di Leonardo, Raffaello, Michelangelo, Caravaggio, Boccioni ecc., solo per citare i giganti?). Perché il Sindaco di Milano non si fa interprete di un progetto che prescindendo dalle diverse proprietà delle opere (lo Stato, il Comune, la Chiesa, i privati ecc.), le consideri nella loro appartenenza a Milano?
I beni culturali di Milano sono o non sono innanzi tutto beni dei milanesi, della città? E perché il Sindaco pensa di doversi occupare e preoccupare solo di quelli di proprietà civica? Non è forse giunto il momento di aprire un tavolo di concertazione fra i vari musei cittadini e definire con loro il progetto culturale di Milano? Con loro, con le Università, con i Centri di ricerca, con la Scuola, con i grandi quotidiani e via dicendo, è necessario aprire un confronto dal quale il Sindaco possa trarre elementi per la sua proposta. Non la proposta dell’Assessore alla Cultura, quella del Sindaco. E’ forse infatti giunto il momento in cui il Sindaco assuma su di sé la responsabilità della Cultura, perché è la responsabilità più alta, quella in cui l’identità ambrosiana incrocia il presente e prospetta il futuro. Così possono nascere i nuovi musei, così i vecchi rimescolano le loro carte e le giocano in una prospettiva coerente e solidale. Così la cultura esce dai suoi recinti ed entra in circolo. Penso alle periferie, ma anche al centro, con la sua straordinaria capacità propositiva. Penso che un progetto culturale vero potrebbe contemplare la fondazione (anche architettonica) di nuovi musei e la rigenerazione di quelli esistenti. Immagino che la programmazione culturale tenga conto della scuola, entri in essa e da essa riesca nella forza creativa dei giovani. Il problema delle periferie e più in generale del degrado non è anche, e forse soprattutto, un problema di valori e quindi di una cultura che non c’è, appiattita sul gusto, sulle mode e nel complesso priva di un centro?
Il Museo in un simile contesto può fare molto, ma bisogna tornare a credere in esso e a puntare sulla sua capacità di proposta.
Si parla, si è parlato talora, dell’anima di Milano. E non si sa bene che cosa voglia dire tutto ciò. Ma se alla parola anima sostituiamo la parola identità, allora diventa più semplice e non astratto lavorare intorno ad un progetto che tenda a recuperare l’identità ambrosiana in una prospettiva ampia, con iniziative non effimere.
Il problema non è certo solo cittadino, ma nazionale: mettere la cultura al centro della strategia politica non è un’operazione elitaria, ma la costruzione del nostro futuro sulla base di un patrimonio che attraverso la cultura e l’arte trasmette un’eredità fatta di valori morali. Questo è reso più difficile dalla scomparsa in Italia della grande committenza, e dalla nascita della cultura dell’evento, che celebrando l’effimero svilisce la nostra storia, il nostro patrimonio artistico, i nostri stessi artisti, ignorati da tutti.
Che ne è dell’arte del secondo Novecento lombardo? Chi ha provveduto ad essa? Quale Museo si interessa di questi artisti, oggi magari settantenni, o di quelli più giovani?
Milano è stata storicamente grande nell’arte di tutti i tempi ed anche in quella recente ha espresso e continua ad esprimersi a livelli altissimi. Ma chi, al di fuori degli addetti ai lavori, lo sa? Nei grandi Musei del mondo vediamo opere di Lucio Fontana (che può essere detto milanese), di Piero Manzoni (milanese), di Castellani ecc. , ma gli altri? E perché Milano non ha un Museo dedicato a Fontana? Oppure ai futuristi (quanto si battè per questo il compianto Tadini!) ?
Abbiamo tanto da fare perché l’elefante in ginocchio si alzi e riconosca con orgoglio la sua identità.
Durante il periodo dell’egemonia culturale social-comunista e del potere culturale craxiano, gli artisti se non erano organici a queste realtà non avevano chances. Oggi, o si piegano al mercato ed alla sua violenza, oppure non esistono.
A differenza poi di quanto avviene ad esempio negli Stati Uniti d’America, il mercato non lavora in collaborazione con le istituzioni culturali, e queste ultime sono affette da un moralismo snobistico, che pretende la separazione totale di mercato e cultura. Questo ha portato da un lato all’isolamento della cultura accademica, mentre il mercato si è definitivamente separato da premesse culturali. Alcuni galleristi hanno fatto grandi investimenti su artisti che poi non hanno avuto occasione di emergere, principalmente a causa della latitanza dell’istituzione che, sola, può legittimare operazioni di promozione culturale.
C’è una metafora della situazione data da un recente evento teatrale: in questo periodo il Piccolo Teatro propone nel doppio cinquantenario “Madre coraggio ed i suoi figli” di Brecht, rappresentato, in modo per altro bellissimo, con un’attenzione alle coreografie tale da mettere in secondo piano la forza del testo, cosa che se è accettabile in uno spettacolo operistico (la specializzazione del regista Carsen), lo è molto meno nel teatro di prosa. Infatti si perde lo spessore del testo, la profondità dell’autore, per di più su di un argomento di assoluta attualità quale la guerra.
Così nella politica culturale cittadina, resta un’impressione di eleganza e raffinatezza senza alcuna profondità di pensiero.
E’ necessario un rinnovamento culturale vero e non di facciata.
Avere una carica di speranza, in questa situazione è possibile solo sperando nel nuovo sindaco, e nel fatto che le sue scelte non vengano condizionate dai vari salotti milanesi.
Dal nuovo sindaco si può sperare un gesto simbolico forte: l’abolizione dell’assessorato alla cultura, e l’avocazione alla competenza del sindaco stesso del ruolo e dell’impegno per una strategia di costruzione di un progetto culturale per il futuro.
In questo modo il sindaco potrebbe avvalersi delle competenze di altri specialisti, coinvolgendo ogni assessore nella responsabilità di una politica culturale visibile in assoluto.
Da una strategia culturale di questo tipo, può discendere un orgoglio municipale che si deve concretizzare anche in cose minime, quali le modalità di conservazione della città, il cui scempio è stato perfezionato con la distruzione della sky-line
neoclassico della Scala.
In questo sta il grande ruolo del sindaco, ripartire dalle radici lombarde della nostra cultura, nella visione dell’innesto di queste radici nella cultura globale.
Questo evidenzia la mancanza di un ruolo di guida e consiglio nelle scelte culturali dei cittadini: non serve il minimalismo funambolico della cultura televisiva, ma il progetto di un sindaco e della sua amministrazione.
Il progetto presuppone una modifica del presente, questo il senso da dare ad un lavoro culturale concreto ed attento.
La speranza c’è, va concentrata sulle persone. Va concentrata sul sindaco. Che possa pensare la cultura a 360 gradi, nei musei ma anche portandola nelle carceri, quindi ovunque. Bisogna ricollocare la cultura al centro per uscire da una rete di mistificazioni che ha finito col far perdere a tutti il senso critico.
E’ necessario riflettere sui motivi per cui Milano non è stata sino ad oggi in grado di organizzare un’offerta culturale che abbia un minimo di struttura logistica, come hanno fatto ad esempio in modo molto concreto Napoli e la Campania.
(P. Biscottini) Questa mancanza è un esempio di mancata coordinazione fra gli attori del sistema, ma prima ancora una dimostrazione di scarso interesse per la cultura in sè.
Gli allestimenti faraonici degli eventi più visibili rappresentano uno spreco, per la spesa concentrata sulle strutture temporanee, senza nessuna ricaduta sulle strutture permanenti.
(P.Biscottini) esiste la possibilità per l’amministrazione di governare questi eventi, orientando e coordinando le attività museali; va anche stimolata la responsabilità dei funzionari e dei direttori di museo nel controllo della spesa.
L’organizzazione dei flussi di visitatori agli eventi culturali risente certamente dell’assenza di una politica globale, perché altrimenti non si spiegherebbe perché un patrimonio come quello dell’Ambrosiana sia così trascurato.
(P. Biscottini) certamente ci vogliono politiche nuove anche sulla biglietteria. Ad esempio si potrebbe pensare al sistema anglosassone dell’offerta libera, che spesso finisce per essere vantaggiosa per l’ente museale.
Esiste una sottovalutazione della cultura scientifica, onda lunga della cultura crociana, che porta a limitare l’importanza di musei come scienza e tecnica o scienza naturale.
(P. Biscottini) pur nel successo di pubblico costante, l’offerta dei musei scientifici cittadini non solo non è aumentata negli ultimi cinquanta anni, ma ha visto un progressivo deterioramento delle strutture di quei musei.
La devolution rischia di avere nel campo museale lo stesso effetto dirompente della questioni dei diritti televisivi nel mondo del calcio: l’offerta nazionale deve essere globale e non si possono concentrare le risorse nelle città d’arte di punta, ma diffonderle ad ogni livello. Analogamente a livello cittadino fra le varie istituzioni museali.
(P. Biscottini) a livello regionale in Lombardia esisteva una commissione musei, oggi abolita, che aveva il compito di coordinare per fare in modo che all’interno di un progetto collettivo ciascuno avesse un ruolo, e l’insieme si valorizzasse. Oggi questo ruolo, anche nel rispetto delle norme sui beni culturali, può essere utilmente ricoperto dal sindaco, sotto la cui responsabilità si faccia il gioco di squadra fra le istituzioni culturali. Questo può avvenire se il sindaco si mette al servizio della città, partendo dall’ascolto degli altri.
Ferrari
Senza venire meno alla sua vocazione cittadina, La Fabbrichetta si presenta all’appuntamento elettorale europeo cercando di cogliere l’occasione per portare alla luce e fare esprimere non solo le realtà di bandiera, ma le persone, perché la regola proporzionale con le tre preferenze porterà l’elettorato ad esprimersi sui candidati all’interno degli schieramenti.
Da parte di chi vota c’è poca conoscenza dei parlamentari europei; in generale c’è una percezione della politica europea, come una complessa realtà burocratica, e anche per chi segue con attenzione la politica, è difficile avere una visione complessiva della politica europea. Di qui la prima domanda che ci sentiamo di porre a Francesco Ferrari, deputato europeo uscente del PD dopo una vita passata nella Coldiretti e nel Parlamento italiano, è: il singolo parlamentare in Europa può fare qualcosa oppure anche lì è difficile contare qualcosa ?
E subito dopo la seconda domanda, inevitabile visto il precedente ruolo nazionale rivestito dal nostro ospite: in Europa è ancora centrale la questione dell’agricoltura ?
L’organizzazione dell’Europa politica ha tre livelli: il consiglio, la commissione ed il parlamento. I ruoli e l’importanza di questi livelli cambia radicalmente con l’attuazione dell’accordo di Lisbona, per cui si dice normalmente che siamo nella fase del passaggio dall’Europa delle Nazioni all’Europa dei cittadini. Certo visto dall’Italia ed in particolare guardando all’azione del nostro governo e del Ministro per l’Europa Ronchi, siamo lontanissimi da questa trasformazione, di cui vengono respinti i 10 punti fondamentali. Un fatto è certo, parlando di questi tre livelli: la commissione, l’esecutivo europeo, produce moltissimo, poi tocca al parlamento decidere, prima con il lavoro in commissione sui progetti di direttiva e di regolamento, poi in aula. In commissione il lavoro del singolo deputato è determinante, anzi tutto per il meccanismo dei relatori: in commissione ogni gruppo ha un relatore “ombra”, che interagisce con il relatore principale di ogni disegno di legge. Questo dà un’opportunità straordinaria di incidere sul processo legislativo, anche più di quanto accada nel parlamento nazionale, almeno in Italia. Rispetto all’esperienza nazionale completamente diverso è il ruolo delle lobby, che agiscono alla luce del sole in difesa degli interessi delle categorie produttive e professionali, entrando in modo costruttivo nel processo decisionale. La trasparenza diventa determinante perché il loro lavoro sia un contributo positivo e non puro corporativismo. Per fare un esempio pratico, derivante dalla mia esperienza personale, nell’iter legislativo del progetto di legge sulla protezione dei pedoni e dei ciclisti, le case automobilistiche si sono mosse tutte, anche se con diverse posizioni: le case tedesche, che hanno standard di mercato meno rigidi e quindi meno protettivi per i consumatori, hanno cercato di porre freni, mentre costruttori italiani e francesi che hanno già standard di progetto e di prodotto che recepiscono le norme più avanzate per la protezione dei pedoni, hanno collaborato con la commissione parlamentare nel definire le norme europee. Poi alla fine c’è stato un compromesso politico, che si è concretizzato nell’allungare i tempi per l’entrata in vigore definitivo dei disciplinari normativi di produzione, il che consente a italiani e francesi di manetener eil loro vantaggio competitivo, senza mettere fuori mercato i tedeschi. Il vero vantaggio di tutto questo sarà però per i cittadini, perché è stato calcolato da uno studio neutrale universitario, che le nuove norme porteranno ad una diminuzione del 35% della mortalità negli incidenti stradali che coinvolgono pedoni e ciclisti.
Perché tutto questo si realizzi condizione necessaria è però la presenza costante dei deputati alle sedute della commissione e dell’aula, per poter opportunamente valutare i pareri delle varie lobby, e poi per realizzare quei compromessi che sono l’essenza di ogni sintesi politica. Con l’entrata in vigore delgi accordi di Lisbona poi, la commissione europea dovrà coinvolgere in maniera crescente il parlamento. Sarà necessaria coesione a livello di politica estera ed economia per realizzare concretamente la libertà di movimento dei cittadini entro norme comuni in tutta Europa.
Per quanto riguarda l’agricoltura, storicamente si tratta di uno dei settori chiave dell’integrazione comunitaria, anche se oggi la percentuale più importante dei finanziamenti comunitari effettivamente erogati all’Italia si è spostata verso altri settori, come quello di trasporti e comunicazioni. Questo deriva non solo dalla crescente importanza di questi altri settori, ma anche dalla presenza più costante dei deputati italiani nelle commissioni: in Commissione trasporti Paolo Costa ed il sottoscritto hanno lavorato di conserva con tutti i governi per la realizzazione dei corridoi di comunicazione, mentre nello stesso periodo i finanziamenti al’agricoltura italiana sono calati dal 60 al 38% del finanziato complessivo. Con questo si è comunque arrivati, grazie ad una positiva interazione con le Regioni, a destinare direttamente importanti contributi alle politiche infrastrutturali, alle politiche agricole ed al sostegno all’occupazione, e solo per fare un esempio solo per la Lombardia sono stati recentemente stanziati per queste voci 600 milioni di euro da qui al 2013.
Questi risultati sono diretta conseguenza anche di quanto si diceva a proposito dell’importanza del lavoro del singolo deputato, in quanto ogni membro del parlamento europeo partecipa ai lavori di due commissioni, in una come titolare, nell’altra come supplente. In questo modo un deputato che sia sempre presente in ambedue le funzioni, ha una capacità di condizionamento importante, perché può riuscire a fare mediazioni con le altre forze politiche giocando su più tavoli.
Lavorando in questo modo è stato possibile ottenere il risultato di cui si diceva per la normativa sulla protezione dei pedoni, ed a sostenere i finanziamenti all’agricoltura italiana, che poi non avrà tutto il risultato ottenuto a causa della scelta del Ministro Zaia di utilizzare ad esempio in un’unica soluzione il finanziamento triennale per le quote latte, per ottenere risultati immediati, che però saranno deludenti nel medio termine.
Parlando poi di agricoltura la grande opportunità che l’Europa offre alla produzione italiana è la difesa dei prodotti di qualità: su produzioni come quella del parmigiano, il sostegno dei prezzi a livello europeo è determinante per supportare la politica di difesa della qualità della produzione nazionale contro i surrogati. Per realizzare questa protezione è però necessaria una presenza costante che eviti i colpi di mano dei sostenitori delle produzioni di massa a scarsa qualità, esattamente come abbiamo fatto nel 2008, quando con un colpo di mano a fine legislatura, con la commissione del senato concentrata sulla campagna elettorale, siamo riusciti a ottenere la proroga del decreto del 2001 su qualità, prodotti tipici ed etichettatura.
In definitiva il parlamentare europeo deve con una presenza costante, riuscire a fare conciliare gli interessi del consumatore europeo con quelli della produzione nazionale.
DOMANDE E RISPOSTE
1) Come interagiscono norme europee e norme nazionali ?
A livello italiano la produzione normativa è ormai quasi per 80% attuativa di normativa europea. Se si prende ad esempio un settore come la zootecnia in Italia la normativa è di competenza regionale: quando a livello comunitario è stata fatta una normativa sull’uso dei nitrati negli allevamenti, in Italia ci sono state 20 diverse applicazioni a livello regionale della normativa comunitaria. Questo ha finito con l’aumentare il distacco delle regioni avanzate in questo settore, come la Lombardia che è una delle quattro regioni chiave, un vero motore a livello europeo, rispetto ad altre regioni italiane. Questo avviene anche in altri paesi , basti pensare alla Spagna dove la Catalogna ha la stessa funzione della Lombardia, ma per l’Italia poi pesa anche una certa divisione della rappresentanza parlamentare, che a livello europeo resta fortemente divisa.
2) Posto che la reputazione europea dell’Italia è vicina allo zero, ci sono vere prospettive di sviluppo dell’unione europea, oppure tutto resterà delimitato entro schemi che finiscono per penalizzare la specifica situazione italiana ?
Personalmente sono fiducioso, ma è necessario fare un lavoro di sintesi. Torniamo agli esempi concreti: quando nel passato abbiamo permesso ai francesi di zuccherare il vino, abbiamo rinunciato a difendere i nostri interessi, visto che da noi quelle operazioni non erano necessarie. Sarebbe bastato imporre l’indicazione del tipo di utilizzo degli zuccheri sulle etichette dei prodotti, per difendere la nostra produzione di qualità che avrebbe potuto confrontarsi con la produzione di qualità francese, eche invece deve difendersi dalla concorrenza di bassa qualità. In generale ci siamo accontentati di contropartite sul breve periodo, perdendo però tutte le battaglie strategiche. Altrettanto per le politiche sulle carni suine e sui frantoi.
E poi abbiamo del tutto rinunciato alle politiche di controllo dei prezzi: sui mercati esteri la nostra produzione di qualità viene strapagata a tutto vantaggio degli importatori. Basta controllare il livello dei prezzi del parmigiano nelle nostre città e nelle principali capitali europee.
Il nostro governo è stato assente in tutte queste battaglie, confermando il detto bresciano secondo cui “a andà se lecca, e a stà se secca”.
3) Da tutto questo esce anche un quadro desolante dell’informazione sulla politica europea: di tutto questo in Italia non si parla.
Giornali e TV parlano poco di Europa. I nostri ministri, Ronchi in testa, sono isolazionisti e in generale euro-scettici, e quindi abbiamo poi politiche italiane come quella di boicottare i 10 punti di Lisbona, l’uso parziale dei finanziamenti, i supporti privi di controllo al sistema bancario e finanziario a scapito del sistema produttivo. Al venir meno della protezione statale non corrisponde una maggiore protezione europea.
4) Come si vede da Strasburgo la questione dell’adesione della Turchia alla UE ?
Secondo me l’Europa arriverà a 40: quando riusciranno a dare adeguate garanzie su diritti umani, libertà civili e regole di reciprocità, anche Russia e Turchia entreranno. Certo sarà un processo lungo, ma la direzione è quella, anche perché a livello strategico, dopo che è venuto meno il bipolarismo militare fra USA e Russia, l’Europa ha un ruolo solo se unita.
Oltre che lungo non può che essere un processo progressivo: il completo recepimento degli accordi di Lisbona sarà determinante, e poi conterà la flessibilità con i nuovi membri. Un esempio c’è stato recentemente con le misure anti crisi a favore delle nazioni più deboli dell’Est europeo. Che ci devono fare ricordare che anche l’Italia in tempi non così lontani ha tirato la cinghia per rispettare i criteri comunitari.
5) Come si concilia la responsabilità planetaria dell’Europa unita, con il rapporto demografico sbilanciato rispetto al terzo mondo ?
Anche questa questione va inquadrata in una prospettiva storica di lungo periodo, guardando al passato per capire il presente ed orientare il futuro. L’Europa come la conosciamo oggi, nasce dalla Comunità del carbone e dell’acciaio. Dove sono oggi il carbone e l’acciaio: esiste un monopolio, ma con un sistema di regole che sono la conseguenza diretta dell’esperienza comunitaria. L’esistenza delle strutture comunitarie ha permesso di controllare l’evoluzione di un settore una volta determinante, oggi solo importante, evitando che diventasse un sistema a scapito dei cittadini.
Altrettanto dobbiamo fare per guardare in prospettiva futura. Pensiamo ad esempio alla cruciale questione degli organismo geneticamente modificati: la scienza non dà certezze oggi, forse le darà fra vent’anni sulle conseguenze dell’uso di questi prodotti in agricoltura. Il ruolo dell’Europa è di governare questa evoluzione con regole che garantiscano risultati vantaggiosi per i cittadini ed un quadro di mercato controllato, senza distorsioni.
In questo modo l’Europa può proporsi anche riferimento a livello planetario.
Un Sindaco amico delle bambine e dei bambini, dei ragazzi e delle ragazze
Progetto di politica partecipata dell’associazionismo educativo milanese
Un nuovo soggetto deve imporsi per costruire una città migliore. Il nuovo soggetto è costituito dai bambini e dai ragazzi.
Per questo riteniamo davvero importante e anzi necessario sviluppare un programma per Milano fondato sui bambini e sui ragazzi.
Solamente in questo modo si può investire sul futuro delle nostre città e sulla qualità del nostro vivere civile.
Otto proposte che muovono dai loro sogni, esigenze, richieste, necessità e diritti.
Otto proposte che sono i fondamenti del progetto di politica partecipata; quella che vuole Milano amica dei cittadini più giovani.
La città amica dei bambini e dei ragazzi
1.1 Un metodo di governo partecipato e condiviso
I Consigli di zona devono diventare punti di ascolto dei bambini e dei ragazzi.
Istituzione del Consiglio Comunale dei ragazzi.
1.2 Una città dove muoversi e respirare
La mobilità sostenibile: costruire percorsi sicuri casa-scuola e piste ciclabili.
Possibilità di andare gratis a scuola con i mezzi pubblici.
Aumento degli spazi per giocare. Esercitare il diritto al gioco
1.3 Un nuovo slancio educativo e culturale
Sostegno della didattica e recupero delle progettualità innovative
Maggiori fondi e spazi per il tempo libero e per lo sport
1.4 Le politiche di accoglienza
Iniziative per favorire la multiculturalità.
Integrazione dei bambini e dei ragazzi in situazioni di difficoltà e disagio.
1.5 Una sanità per tutti
Una medicina scolastica qualificata.
Sviluppare attività di prevenzione e di promozione del benessere.
Maggiore sensibilizzazione sulla educazione alimentare.
1.6 Il sostegno alla genitorialità
Sostegno per l’accesso alla casa e per l’inserimento lavorativo
Più qualità e quantità dei servizi per l’infanzia
Sviluppare e rilanciare iniziative e spazi per “il tempo per le famiglie”
1.7 Un consumo consapevole
Programmi educativi per una maggior responsabilità nel consumo
Tutela del bambino consumatore.
1.8 Più verde e meno cemento
Un piano per l’edilizia e
una riqualificazione urbana e dei quartieri a dimensione dei bambini.
Valorizzazione dei quartieri come luoghi di identità.
Un bosco intorno alla città
Dal mese di giugno – in vari incontri tra le associazioni e le agenzie di Milano e della Lombardia che, a diverso titolo, si occupano di attività educative e di politiche per e con i bambini e gli adolescenti – abbiamo voluto intraprendere un percorso sfociato in un progetto programmatico, per una città amica dei bambini e dei ragazzi. Tale processo rende partecipi anche i cittadini più giovani, attraverso una indagine qualitativa e numerosi focus group. Un ascolto attivo che li riconosce come protagonisti e costruttori delle nuove città.
Crediamo in questo modo di poter fornire un contributo importante. Crediamo, inoltre, di suggerire così facendo una differente e innovativa visione riguardo a come progettare lo sviluppo metropolitano. Il tentativo è quello di mutare la pelle della nostra città, per trovare finalmente una Milano che risponda ai bisogni delle persone che ci vivono.
Hanno partecipato e aderiscono:
Agesci Milano
Arci Milano
Arciragazzi
Ass. Amici del Parco Trotter
Coop. Sociale ABCittà
Celim Milano
Confcoperative Milano
LegaCoopSociali
Fondazione Roberto Franceschi
Legambiente
Movi Lombardia
Piccola Scuola di Circo
Rete Scuole
Tempo per le Famiglie
Unicef Comitato provinciale di Milano
Altri documenti per il programma “Un Sindaco amico dei bambini e dei ragazzi”:
1. “Bambini e ragazzi oggi a Milano. Per un patto educativo con le nuove generazioni”, Forum provinciale del Terzo Settore di Milano, 2004
2. “Costruire città amiche delle bambine e dei bambini. Nove passi per l’azione”, Unicef Italia, 2005
3. Sintesi degli incontri del tavolo
Per contatti e informazioni ci si può rivolgere alle associazioni che hanno aderito oppure a info@arciragazzimilano.it
“STRADE NUOVE NELL’URBANISTICA MILANESE”
Incontro con il prof. Alessandro Balducci,
Direttore del Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano.
Se quella della Fabbrichetta è almeno in parte la scommessa generazionale sulla possibilità di ritrovare una sintesi tra competenza tecnica e passione politica che ha costituito per esempio la forza di quel “socialismo municipale” milanese di inizio secolo che così tanto ha caratterizzato le istituzioni locali, Alessandro Balducci è tra i più qualificati ad intervenire. Non solo per il suo brillante percorso professionale, ma per la lunga e coerente attività pubblica, dagli esordi con la tesi di laurea sui primi passi di Berlusconi (pubblicata dalle Acli “Dal Parco Sud al cemento armato”), alla sua esperienza come giovanissimo consigliere comunale di San Donato, alla sua presenza nei momenti di forte partecipazione alle scelte urbanistiche in diverse aree cittadine.
In effetti senza risalire toppo indietro nel tempo, alcune recenti esperienze alimentano la mia relazione:
– la redazione del Libro Bianco sulla casa per il Prefetto di Milano
– lo studio di fattibilità per il Fondo Sociale Immobiliare della Cariplo
– il Progetto per il Villaggio Urbano alla Barona
– i Contratti di Quartiere per il Comune di Milano
– il progetto Città Sane
Il problema della casa ha tali caratteri di drammaticità da rivestire un ruolo centrale nella vita cittadina, ma è praticamente scomparso dalle agende politiche. In parte per la scomparsa dei partiti stessi, ma anche per il mutamento cittadino che ha realizzato di fatto l’espulsione dalle città delle categorie che esprimevano tradizionalmente il bisogno della casa.
Per verificare questo mutamento è sufficiente confrontare una fotografia aerea di Milano oggi con quella di trent’anni fa, e verificare come dall’esistenza evidente di una città costituita da centro e periferia, si è passati a quella nebulosa di cui già ci ha parlato Stefano Boeri in un suo precedente intervento. In questo passaggio si è verificato lo spostamento non solo da Milano, ma dalla Provincia di Milano, a vantaggio di Bergamo, Lodi, Lecco, tutte Province limitrofe, che hanno aumenti di popolazione nell’ordine del 10 % negli ultimi vent’anni. Questo il motivo quantitativo per cui il problema della casa non si concretizza a Milano in una domanda politica significativa.
Ma c’è anche un aspetto qualitativo, perché la domanda si è fatta più articolata, inglobando accanto all’evoluzione delle forme tradizionali della domanda abitativa, anche forme nuove di disagio.
Anzitutto si registra un fenomeno di rischio, una vulnerabilità nuova che colpisce fasce ampie del ceto medio, che per evitare nuove forme di strozzamento economico, devono assolutamente farsi ascoltare dalla città. Ci sono poi, con una grande varietà di casistica, forme di disagio rispetto all’accesso all’alloggio e vere e proprie forme di esclusione per i casi più marcati e duri, come quelli degli immigrati, delle tossicodipendenze.
Di fatto i numeri dicono che in pochi anni a Milano si è passati dal 50% delle case in affitto a solo il 20% , che si compone di un 5% di forme di affitto dalla mano pubblica, che si trasformano per la loro durata e resistenza in forme di quasi proprietà, e di un 15% che si ricicla sul mercato, ma solo per una fascia particolare, caratterizzata dall’ampia disponibilità di spesa e dal prezzo altissimo.
A fronte di questo cambiamento epocale, la totale disattenzione della politica cittadina, che nei tre bandi dal 1997 ha ricevuto 17.000 domande nel 1997, 12.000 nel 1999, ed ancora nel 2003 di fronte a 9.000 sfratti per morosità e 2.000 per finita locazione, ha offerto 495 nuovi alloggi comunali di edilizia sociale e 1.300 assegnazioni di case popolari. Le assegnazioni finiscono per testimoniare lo stato di difficoltà, perché le poche case che si liberano finiscono per essere assegnate alle persone che sono portatrici di gravi situazioni di disagio, quali la presenza di malati lungo degenti o portatori di handicap
Il patrimonio complessivo ammonta a 42.000 alloggi ALER e 20.000 del Comune di Milano, all’interno dei quali la popolazione ha un invecchiamento anche superiore alla già alta media cittadina, cui si aggiungono i problemi dati dall’abusivismo, nell’impossibilità per l’ALER di fare controlli. I motivi stanno in una scarsa efficienza storica dell’ente, visto che altre realtà analoghe in Lombardia, per tutte Brescia, funzionano relativamente bene.
Il cambiamento della città che si accompagna non è governato con gli strumenti esistenti, quali il Piano Regionale per l’Edilizia Pubblica o il Piano di riutilizzo dei Fondi Gescal, che risale al Ministro Nesi alla fine degli anni novanta. Infatti se con questi strumenti si sono potuti attivare alcuni fenomeni virtuosi, come alcuni bandi, i contratti di quartiere, è certo che la situazione complessivamente presenta troppe lacune. Ad esempio solo il piano Lombardo prevede un fabbisogno di 60.000 case, per le quali gli unici interventi sono dei programmi di facilitazione dell’accesso al mutuo.
In definitiva la rilocalizzazione della popolazione trasferisce costi enormi, senza dare benefici corrispondenti. Infatti il differenziale fra prezzo pagato per l’abitazione fuori città finisce per essere largamente compensato dai costi evidenti (trasporto) e da costi occulti, primi fra i quali il tempo e la qualità della vita. Si è creato un modello dissipativo di risorse, difficilmente controllabile. Certo non si può dire che si tratti di un fenomeno che non abbia alcuni aspetti positivi, soprattutto in prospettiva, ma al momento prevalgono le criticità.
A fianco della trasformazione del problema della casa, sta la trasformazione del vivere la città, in particolare in relazione ai quartieri cittadini.
Secondo alcune ricerche di Ilvo Diamanti sulla sicurezza, nell’attesa di sicurezza da parte delle popolazioni del nord Italia, cresce la parte riservata alle relazioni di tipo individualistico (famiglia – lavoro) a scapito dell’attesa di risposte provenienti dalle relazioni sociali ed istituzionali.
Ne sono esempi evidenti le situazioni che si creano in molti quartieri dell’area metropolitana di Milano. Uno per tutti un quartiere urbanisticamente bello e ricco di verde pubblico come il Sant’Amborgio a Milano, che vede una forte difficoltà nella vita di tutti i giorni, fra una popolazione invecchiata e la difficoltà dei giovani e giovanissimi di vivere normalmente in situazioni di degrado sociale e di insicurezza.
Milano è stato sempre storicamente una città di quartieri, che davano un senso di identificazione molto forte, accompagnando realmente tutta la vita dei cittadini. Oggi nei quartieri si sono anzitutto svuotati quei meccanismi intergenerazionali a cui si dovevano molti fenomeni di appartenenza. Anzitutto nei quartieri la mobilità è molto bassa, sino ad assistere a fenomeni di invecchiamento collettivo di interi quartieri che si erano popolati inizialmente di famiglie estremamente omogenee. Si è quindi assistito alla trasformazione dei circoli scolastici in comprensori, alla riduzione del numero dei Consigli di Zona e delle sedi ASL, e così la ridotta capacità economica della macchina comunale ha allontanato ed in molti casi del tutto eliminato la presenza ed il supporto del settore pubblico.
La crisi del modello del quartiere è diventata quasi irreversibile per questi fenomeni di eliminazione dei servizi di prossimità, proprio mentre invece si è data grande eco ad aspetti repressivi della risposta al bisogno di sicurezza, quali il vigile di quartiere e la polizia di quartiere.
Come per la casa, anche per i quartieri è importante distinguere le aree di intervento: per la casa il rilancio dell’affitto per dare nuova sicurezza ed aspettativa di vita migliore, e riduzione del disagio sociale, per il quartiere la valorizzazione di aspetti apparentemente esteriori diventa valorizzazione della vita civile e recupero di spazi di vivibilità altrimenti non riconquistabili. E’ essenziale non continuare a ripetere gli errori del passato, come si è fatto ancora una volta al quartiere Sant’Ambrogio, dove gli spazi commerciali sono stati vandalizzati e ripristinati più volte, ma senza mai pensare un intervento che li mettesse al riparo dai vandali rendendoli vivi e funzionanti. Avrebbe sempre senso un piano di recupero ed inserimento di dimensioni poli funzionali, non come fatto a Ponte Lambro nel progetto di Renzo Piano.
Per chi osserva anche la realtà internazionale è evidente che una delle nostre particolarità sta ad esempio nell’incapacità di mettere d’accordo diverse istanze istituzionali e nella perdita da parte della politica della capacità di mediare fra interessi e bisogni. Un esempio concreto: a Madrid ad Atocha la municipalità ha realizzato un nuovo polo dei trasporti eliminando le orrende e intasate sopraelevate, ed integrando nella nuova sistemazione anche un polo di edilizia residenziale ed il Museo Reina Sofia. A Milano in questo momento, nella nuova area della Fiera a Rho, assistiamo alla realizzazione di due stazioni dell’Alta velocità e della Metropolitana, distinte e lontane fra loro oltre 1 km. La politica dovrebbe recuperare la capacità di coordinamento degli interventi, che sono sempre più monolaterali, nel senso che hanno un solo protagonista, proprio per la sopravvenuta impossibilità di trovare accordi fra diversi interessi. In questo modo si perdono gradi opportunità.
Un esempio di uso mirato delle risorse è dato dai contratti di quartiere, un istituto che per chi lo ha voluto e vissuto è rapidamente passato dalla fase iniziale delle minacce a quella del giubilo popolare per le realizzazioni, come nel caso di Cinisello Balsamo.
I contratti di quartiere a Milano si sono concretizzati in un finanziamento di 220 milioni di € sui cinque quartieri a proprietà pubblica, con il fine di evitare che una volta finanziato l’intervento, il Comune ne abbandoni il controllo in senso sociale e non strettamente contabile.
Per fare questo si sono programmati interventi articolati di:
– inserimento di attività economiche
– rifacimento di alcune tipologie di appartamenti ormai obsolete
– inserimento di progetti sociali
– riqualificazione del verde
– partecipazione dei cittadini alle scelte ed alle realizzazioni
Questa tiplogia di intervento nasce dai programmi Urban della UE, che partono dal presupposto che senza dare agli abitanti un senso di appartenenza, non si riesce a cambiare lo stato di degrado delle città. La dimensione contrattuale per il coinvolgimento degli abitanti sarebbe un requisito necessario nei bandi di concorso.
Un comitato di sorveglianza coordina gli interventi ed arriva anche a gestirne la realizzazione. Gli interventi possono essere i più diversi, ed andare dalla trasformazione di spazi pubblici inutilizzati in spazi di servizio, all’affidamento a cooperative di giovani dei servizi di trasloco interni al quartiere.
Il risultato viene raggiunto nella totale assenza della macchina comunale tradizionale, che non è minimamente coinvolta. Ad esempio a Milano benché quattro dei cinque quartieri interessati siano all’interno di una sola zona, il Consiglio di zona non solo non ha alcun ruolo nel contratto, ma non se ne è nemmeno interessato.
Se si cercasse una risposta in termini politici, c’è invece una connessione fra problemi della casa e problemi dei quartieri, perché costruendo una politica vera della casa si potrebbero affrontare anche i disagi dei quartieri. E vero che quella della casa non è una questione solo di livello cittadino, ma è anche vero che non ripetendo gli errori del passato (PRU) una migliore selezione degli interventi può consentire un utilizzo migliore delle risorse disponibili.
A dimostrazione e conclusione l’esempio del Fondo Sociale Immobiliare Cariplo, che pur restando nei limiti statutari delle proprie obbligazioni istituzionali, ha sostenuto progetti di edilizia sociale, garantendosi la possibilità di finanziare al 4% il capitale investito (al netto del costo dell’area). Posto che nel passato c’erano costruttori di nicchia capaci di ritagliarsi un ruolo ed una remunerazione proprio nella costruzione di edilizia sociale, questo dimostra che anche oggi è possibile operare in questa fascia con interventi che senza essere speculativi, siano economicamente sostenibili.
Il costo sociale della delocalizzazione in provincia potrebbe essere maggiormente evidenziato, per sottolineare i problemi ed i disagi sociali che questa comporta.
Assistiamo nel campo del valore delle aree edificabili e già edificate, ad un rafforzamento della rendita di posizione per chi possiede aree cittadine, o ne ha fatto scambi con aree semi centrali, ottenendo in cambio vantaggi urbanistici. La rendita su questo tipo di area ha assunto dimensioni oggi imponenti., che erano inimmaginabili sino a pochi anni fa.
Rispetto all’eccesso di terziario e davanti ai vecchi interventi degli anni ’80 sulle aree dimesse, sarebbe anche interessante valutare la possibilità di recuperare a fini abitativi molti immobili deserti. Questo non ostante la valutazione di Alessandro Balducci sulla sostanziale certa anti economicità di questo tipo di interventi (riconversione diretta da uffici ad abitazioni).
Anche gli investitori istituzionali privati come banche ed assicurazioni hanno abbandonato il loro patrimonio immobiliare, dimesso con forme selvagge che hanno premiato solo alcuni più fortunati. Infatti quelli fra gli inquilini che potevano rispondere ad offerte sostenibili, hanno acquistato, gli altri sono stati espulsi dalla speculazione successiva. E’ un segno della dimensione economica del problema della casa.
Permane una visione pessimistica sullo sviluppo della città, al di là delle volontà politiche che sarà possibile esprimere. Infatti il seguito del fenomeno di delocalizzazione descritto, sta nella sopravvivenza in città solo di una fascia di cittadini ricchi insieme ad una fascia di sostanziali manutentori della città stessa, al servizio delle attività economiche ed espositive e degli abitanti ricchi. Il ceto medio viene inevitabilmente espulso da una città nella quale la qualità della vita tende allo zero. La volontà politica delle amministrazioni passate si è esaurita nella politica degli annunci, e non ha capito che la qualità della vita non sta nel sistema del global service ma nel coinvolgimento dei cittadini.
VINCENZO SIMONE
Settore Educazione al Patrimonio Culturale
Coordinatore Ecomuseo Urbano Torino
SILVIA DELL’ORSO
Giornalista
Gruppo Repubblica-Espresso
INTERVENTI DELLAFABBRICHETTA
Interventi di
Piervito Antoniazzi.
Enrico Borg Presidente Commissione “Città della conoscenza”zona 9
Silvia Mascheroni
Walter Marossi
Giorgio Poidomani (cdz 9)
Egidio Greco
Introduzione
n po’ di emozione oggi perché il secondo incontro della nuova stagione della Fabbrichetta si svolge in quella vera cattedrale del lavoro che è la Fonderia Napoleonica di Milano, restaurata dai proprietari in modo tale da restituire un piccolo patrimonio alla città. Qui si è fatta la storia di un pezzo di città che ancora campeggia nelle nostre piazze più importanti, visto che qui è stata fusa la statua di Vittorio Emanuele che sta in Piazza del Duomo. Così come le porte dello stesso Duomo.
Il tema di oggi attiene proprio alle esperienze di cultura e territorio, e sarà introdotto da Silvia dell’Orso che sul tema sta per pubblicare un libro-inchiesta e che ci ha segnalato l’esperienza di cui parliamo. Si tratta di una realtà torinese interessante da diversi punti di vista, non ultimo quello politico, visto che si tratta di un’esperienza nata in gran parte dal basso, dall’attività delle Circoscrizioni, l’equivalente dei Consigli di Zona milanesi. Il luogo di quest’incontro è all’interno dell’unica zona amministrata dalla sinistra, di Milano. Una città che comunque la si voglia definire e giudicare, ha un disperato bisogno di progetti.
L’esperienza dell’ecomuseo di Torino vale la pena di essere raccontata e soprattutto ascoltata, anche sotto il profilo della sua replicabilità. L’ecomuseo è la rappresentazione plastica di come una struttura museale possa essere messa in relazione con la città che la ospita. E’ particolarmente bello farlo in un luogo come questo che rappresenta in sé un esempio di legame fra strutture e città. A parlare dell’ecomuseo è Vincenzo Simone, che ha seguito questo progetto dal primo giorno, e che ne è uno dei principali protagonisti nella vita amministrativa e culturale torinese.
Inviterei Vincenzo Simone a cominciare il suo racconto proprio dalla genesi del progetto.
La genesi del progetto ecomuseo si colloca all’interno delle politiche museali della città di Torino nelle ultime due amministrazioni. La città che gestisce le collezioni civiche si è posta di tutelare il suo patrimonio più ampio, quello non musealizzato, a lungo trascurato. Accanto al Settore musei che si occupa dei luoghi tradizionali della cultura cittadina, è stato creato un nuovo Settore che ha centrato la propria attività sulla accessibilità del patrimonio cittadino, creando un’accezione nuova del termine museo..
La città aveva già vissuto l’esperienza del Settore periferie, che ha lavorato a lungo sul rapporto fra periferia da un lato e patrimonio ed attività culturali. Da quell’esperienza sono nati i centri di documentazione storica locale sulla storia del patrimonio cittadino.
La trasformazione urbanistica di Torino negli ultimi anni è passata per il nuovo piano regolatore del 1994, i lavori olimpici, la costruzione della metropolitana e del passante ferroviario, ha provocato la trasformazione dei luoghi della città, mutando tanti punti di riferimento locali, al punto da porre la domanda su cosa rimanesse della vecchia città.
C’è stata anche una trasformazione della civitas, con il fenomeno dell’immigrazione che cambia continuamente la città, che già aveva vissuto a partire dagli anni cinquanta un fenomeno analogo, al punto che oggi la maggioranza dei torinesi ha almeno un genitore non originario del Piemonte. Questi fenomeni pongono la questione dell’identità cittadina in trasformazione.
In questo scenario cittadino si è innestata nel 1995 la legge della regione Piemonte che ha dato un preciso riferimento normativo e finanziario al progetto dell’ecomuseo. Ultimo tassello della situazione è dato dalla questione dell’accessibilità dei musei, questione non solo torinese ma nazionale se l’ISTAT ha calcolato che 3 italiani su 10 entrano in un museo, che è un medium culturale vecchio in un mondo in cui la mediazione del museo non è più strettamente necessaria.
Questo il quadro d’insieme quando nel 2003 la Giunta Comunale istituisce un gruppo di lavoro inter assessorile che ha cominciato a lavorare sull’argomento ecomuseo. A tre anni di distanza questo strano oggetto può essere definito partendo dalla sua pratica, ciò che rappresenta un’esperienza emotiva perché si colloca in un ambito umano e rappresenta il bisogno di mettere in relazione l’ambiente con lo spazio in cui si vive. Il territorio.
I quartieri, intesi come abitanti, associazioni, gruppi, scuole, fanno la loro parte, occupandosi di elementi tanto fisici che immateriali, memorie di luoghi e relazioni umane. L’oggetto non è dato dall’alto, ma viene proposto dal quartiere ad un gruppo di lavoro.
Dei dieci quartieri, le Circoscrizioni, otto hanno aderito alla proposta della Giunta, dimostrando la loro vicinanza ai problemi del territorio. La Giunta chiedeva loro di farsi promotori di progetti, di individuare i luoghi fisici che rappresentassero il progetto scelto nei confronti dei cittadini, facendosi nel contempo garanti dell’interesse generale di ogni progetto.
Dopo le 3 circoscrizioni inziali, già nel 2005 erano cinque, per diventare oggi otto, essendo ancora fuori dal progetto le Circoscrizioni Centro e San Calvario. Non è significativo il dato politico che queste due circoscrizioni siano amministrate dalla destra, visto che invece ha aderito e lavorato molto bene la Circoscrizione del Lingotto, che è amministrata dalla Lega. (Oggi tutte le circoscrizioni sono amministrate dal centrosinistra dopo le elezioni di maggio).
Concretamente il progetto decolla con una delibera della Circoscrizione, che viene sostenuta dal centro soprattutto in termini di sostegno e lavoro, molto meno in termini economici. L’amministrazione cittadina interviene anche a livello di normazione, di contributo, di esperienza sulla sicurezza e sulla promozione della capacità di auto finanziamento.
Un ruolo specifico è rivestito dai Centri di interpretazione, dedicati alla documentazione storica locale: un esempio è dato dalla Circoscrizione 5 che ingloba Borgo Vittoria, così denominato per ricordare la guerra con i francesi del 1706, e che si è dedicato al terzo centenario di questo evento storico. Il centro di interpretazione ha analizzato miti e documenti, rielaborato le celebrazioni del secondo centenario del 1906, tutte improntate allo sfruttamento del mito in senso funzionale a Casa Savoia (Pietro Micca!), mediando la rilettura dell’evento verso i cittadini.
Un altro esempio quello della circoscrizione Lingotto, che comprende il luogo in cui sorgeva, ed in parte sorge ancora, l’area dello Stadio Filadelfia, legato al mito del grande Torino. Oltre che patrimonio dei tifosi, lo stadio è patrimonio del quartiere, nel senso che è un’occasione per dare attenzione ad un patrimonio di memoria che è definito culturale dai cittadini.
Ma chi sono nel concreto gli attori di questo sistema ?
Gli attori sono di diverso genere e peso: fra i forti ci sono le scuole e le biblioteche che possono mettere a disposizione la loro organizzazione, e le associazioni abituate al lavoro in rete. Fra gli attori deboli, ma non di secondaria importanza, i singoli, gli anziani, i nuovi cittadini.
In una recente presentazione di Diego Novelli ad un volume sull’imigrazione a Barriera Milano, erano presenti in maggioranza non gli anziani interessati alla memoria del quartiere, ma i giovani interessati alla storia del loro quartiere, ed alla precedente esperienza di integrazione di immigrati. Questi sono attori del sistema.
Parlando degli attori non si può dimenticare che Torino ha già musealizzato molta della sua storia, ma senza rappresentare la città del ‘900. Ad esempio già molto tempo fa Vittorio Viale aveva proposto Palazzo Madama come sede di un museo contemporaneo.
L’ecomuseo permette tutto questo: non è l’unico né forse il migliore dei mezzi, ma è un tentativo di definire un patrimonio culturale per poi tutelarlo.
DOMANDA
C’è una collaborazione pubblico/privato per mettere in campo finanziamenti accanto alla volontà politica ?
RISPOSTA
Ogni circoscrizione definisce uno spazio aperto ai cittadini per l’attività, che viene quindi offerto dal “pubblico”, in cui il comune interviene finanziariamente in conto capitale.
Poi i privati intervengono in vario modo nei gruppi di lavoro come portatori di interessi e progetti.
Posto che in un anno la gestione di otto centri di questo tipo costa meno dell’allestimento di una sola cosiddetta “grande mostra”, c’è poi tutto lo spazio per il lavoro dal basso sui progetti. Chiaro che i condizionamenti politici, i rapporti anche politici e di schieramento con il centro cittadino, contano e sono ineludibili. Ma sempre gestibili.
DOMANDA
Forse è improprio porre la domanda in una città come Milano che spende in cultura molto meno di città di gran lunga più piccole, ma la domanda c’è ugualmente: cosa ci guadagna la città ?
RISPOSTA
Il progetto è principalmente rivolto ai residenti, con obbiettivo ultimo la qualità del loro vita. Inevitabilmente poi si creano forti interessi cittadini generati dalle esperienze di ecomuseo, e persino fenomeni di turismo cittadino, perché in molti vogliono vedere le esperienze delle Circoscrizioni.
In ogni caso oltre al ricavo di lungo periodo con le ricadute positive sulla vita sociale, ci sono anche ricadute più immediate in termini di conservazione del patrimonio.
DOMANDA
Tra museo tradizionale ed ecomuseo ci sono due diverse modalità di interpretare la conservazione e valutazione del patrimonio museale. Come interagiscono ?
RISPOSTA
Da parte dell’istituzione museale tradizionale c’è inevitabilmente una chiusura iniziale, ma ci sono anche molte esperienze trasversali, ad esempio come nel caso della realizzazione delle mappe di comunità con la Fondazione Mek che opera in ambito museale tradizionale, specificamente nell’arte contemporanea.
DOMANDA
C’è nell’esperienza dell’ecomuseo una tendenza al localismo, alla auto referenzialità ?
RISPOSTA
Il localismo è un grosso rischio, mediato e controllato da chi come noi ha il compito di coordinare.
DOMANDA
Come viene monitorata e controllata l’attività dell’ecomuseo ?
RISPOSTA
Si tratta di uno problemi più seri: il controllo di gestione interno dell’amministrazione comunale aveva proposto di misurare l’efficacia del progetto sul numero dei visitatori. Questo criterio non era però soddisfacente, perché non si tratta di fare record di visitatori, quindi da parte del nostro settore si è contro proposto di monitorare il numero delle persone attivamente coinvolte nel progetto. Criterio che viene attualmente seguito.
Certo che l’esperimento funziona a pieno regime, si cercano nuovi indicatori di soddisfazione e si cerca di fare in modo che ci sia in merito una buona comunicazione.
Per concludere, visto che in parte è stato introdotto da questa ultima domanda, quali sono le criticità del progetto ecomuseo ?
Le criticità sono molte: una prima è di ordine politico, perché la delibera che stava alla base del progetto era il frutto di un concerto fra più assessori, che all’inizio ha funzionato molto bene. Poi, con il passare del tempo, soprattutto le esigenze proprie del settore urbanistica hanno cominciato a divergere rispetto a quelle del settore cultura, e quindi si è aperto un lungo periodo di mediazione politica. Un altro aspetto delicato rappresenta in modo alternato nel tempo criticità ed opportunità ed è dato dal carattere un po’ anarchico delle iniziative, dal grande fermento che le genera, che va governato senza irreggimentarlo per non rischiare di renderlo sterile. Noi tentiamo di non intervenire mai nel merito del contenuto, ma nel sostegno al progetto con una attiva partecipazione ai gruppi di lavoro, un altro elemento critico è dato dall’evoluzione del concetto stesso di ecomuseo, che è nato ed di per sé un concetto flessibile, che però nel tempo fa sentire la necessità di darsi regole di crescita, sulle quali il dibattito è aperto presso una comunità molto allargata.
Paradossalmente nell’insieme dell’esperienza dell’ecomuseo la questione finanziaria è importante ma non determinante, pur se in questo momento storico così difficile per le risorse finanziarie degli enti pubblici.
Conclusione
C’è un po’ di invidia da parte di noi milanesi nell’ascoltare questo racconto, ma da questo tipo di esperienze e proprio dalla Zona 9 di Milano, c’è la voglia e lo spazio per ripartire.
Perché abbiamo perso ? Analisi della campagna elettorale per le elezioni comunali svolta da Walter Marossi
a LA FABBRICHETTA , giovedì 8 giugno 2006
La campagna elettorale era iniziata nel migliore dei modi:
1) un candidato per la prima volta autorevole e conosciuto
2) che partiva con largo anticipo
3) che veniva legittimato dalle primarie a larga maggioranza e senza grandi lacerazioni
4) che godeva del consenso di settori significativi di quello che è chiamato terzismo
5) cui veniva permesso di preparare una propria lista per pescare in settori diversi da quelli della sinistra e di formulare un programma con ampia autonomia
La strategia di Ferrante appare anche abbastanza semplice:
1) riportare al voto l’elettorato che si era astenuto alle regionali
2) ridurre il gap tra liste e candidato che aveva caratterizzato la campagna di antoniazzi
3) conquistare l’elettorato moderato d’opinione su cui il prefetto poteva certo fare maggior presa del sindacalista
4) sfruttare le condizioni di relativa difficoltà dell’avversario appesantito da una confusa gestione del ministero e appiattito su posizioni cattomoderate in materia di scuola e assistenza in una città tradizionalmente più laica della sua classe politica
Non è certamente una partita in discesa ma per la prima volta appare possibile la vittoria. Eppure si perde e si perde pure male.
Perché male?
solo un anno fa alle regionali con lo stesso numero di elettori (alle regionali votarono 680782 elettori alle comunali 680061 quindi i raffronti una volta tanto sono coerenti) Sarfatti prese il 47,89% di voti cioè quasi un punto in più di Ferrante, mentre la coalizione si fermò al 44,39 contro il 44,54 delle comunali, va tuttavia ricordato che alle comunali con Ferrante si schierava anche il partito radicale che alle regionali non era nella coalizione.
In un anno si perde quasi un punto percentuale ma soprattutto in una elezione fortemente caratterizzata dalla candidatura del sindaco diminuisce drasticamente, circa il 50%, il numero di elettori che vota solo il candidato.
La Lombardia tra l’altro lo scorso anno era stata la regione italiana con la più alta percentuale di voti solo al presidente.
Come a dire che Ferrante non solo non fa la differenza ma la fa meno di Sarfatti.
E questo quando il suo competitor è meno popolare della sua coalizione
Il risultato della coalizione, a parità di componenti, è più basso delle due elezioni politiche precedenti, ed è di pochi decimali superiore (sempre accorpando i voti delle liste in modo il più possibile omogeneo) a quello delle comunali del 2001.
Delle provinciali e delle europee è più difficile parlare perché i sistemi elettorali e le caratteristiche di quelle competizioni erano troppo diverse per numero di candidati e per tipologia delle coalizioni, tuttavia non mi pare che il saldo di queste comunali sia positivo, riaggregando i dati
Di più il numero degli astenuti comparando elezioni politiche e comunali vede un saldo negativo del centro sinistra di circa 15000 elettori.
In sostanza non solo non si riesce a spostare segmenti di elettorato moderato ma non si riesce neppure a riportare al voto quegli stessi cittadini che si erano mobilitati solo due mesi prima.
La campagna non convince quindi i moderati ma neppure il complesso dei cittadini che vogliono liberarsi del berlusconismo, anzi pare non convincere neppure a sinistra. Infatti storicamente alle elezioni milanesi più alto è il tasso di astensione più pesano percentualmente i voti della sinistra radicale, qui avviene il contrario con un numero di elettori pari a quello dello scorso anno il peso della sinistra radicale si riduce percentualmente.
In sostanza Ferrante non recupera a destra neppure i voti dei partiti che si aggregano per la primavolta alla coalizione (basti pensare che la rosa nel pugno tra politiche e comunali perde quasi tre quarti dei voti) e perde qualche cosa a sinistra probabilmente verso l’astensione.
Perche?
Avere certezze il giorno dopo le elezioni è abbastanza semplice, basta usare il bartaliano “gli è tutto sbagliato gli è tutto da rifare” e si è a posto, tuttavia alcune osservazioni si possono fare anche senza un’analisi approfondita che richiede tempo:
1) il profilo del candidato, che in una campagna presidenziale è fondamentale, non è emerso. la sensazione trasmessa è stata quella di un buon mediatore ma indeciso
2) il profilo programmatico della coalizione è stato ambiguo, cosicchè un elettore moderato poteva pensarlo caratterizzato dai no dei settori più radicali (primo fra tutti Fo) ed un elettore più radicale poteva vederlo come compromissorio, in altre parole non era ne carne ne pesce. Più ancora non si è capito a chi si rivolgeva come ha detto Morganti ci si è rivolti di più ai taxisti che agli utenti di taxi (certamente più numerosi)
3) la lista del candidato non è stata una lista di incursione in terreni altrui o inesplorati ma una lista contenitore, addirittura con due dei suoi competitor alle primarie (che difatti hanno preso cadauno qualche centinaio di voti in meno di quelli delle primarie); tanto più che notoriamente più liste ci sono alle elezioni comunali più voti (magari pochi) si prendono
4) l’elettorato d’opinione non si è mosso. Qui occorre fare una precisazione, nelle analisi degli anni ‘70 , l’elettorato d’opinione urbano veniva identificato con un ceto medio colto ed informato che sceglieva in funzione dei programmi in genere all’interno dello schieramento laico. Oggi probabilmente bisogna intendere per elettorato d’opinione quello che non legge i giornali, che sta più nella periferia che nel centro della città e che si forma le proprie convinzioni politiche fondamentalmente attraverso la televisione, il passa parola e la comunicazione dei candidati in campagna elettorale. E’ un elettorato che spesso decide all’ultimo minuto.
5) Ebbene la mia sensazione è che la campagna del centro sinistra sia stata qualitativamente molto inferiore a quella del centro destra, una comunicazione tutta autoreferenziale molto pubblicitaria e poco elettorale (che ha portato ad esempio ad utilizzare principalmente, come ha detto Penati, il manifesto Ferrante, Cornacchione, Zelig con un ammiccamento tutto da capire).
6) La ragione della differenza tra la campagna della Moratti e quella di Ferrante è solo economica? Non credo: si possono fare campagne anche povere ma efficaci, bisogna però adeguare gli strumenti ai mezzi economici. Tuttavia è vero che per una campagna tradizionale a Milano ci vuole all’incirca un milione e mezzo di euro, ora considerando che si è partiti a novembre che alle primarie hanno votato oltre 80000 elettori, che tra candidati al comune ed alle zone erano in pista più di duemila persone non mi pare una cifra irraggiungibile.
7) l’avversario non è mai stato messo in difficoltà, per usare termini calcistici gli si è lasciato fare il gioco che voleva, gli si è lasciato il controllo della palla, non si è fatto pressing. Così Letizia Moratti è riuscita a cambiare due otre volte linea e soprattutto ad accreditarsi via via con una immagine accattivante quale non aveva all’inizio. Certamente su questo ha influito anche il comportamento esemplare di Albertini che è uscito di scena con estrema dignità, dando un contributo fondamentale con la sua presenza/assenza alla campagna della Moratti
8) Il centro sinistra è supponente,continua a ritenere il centro destra ed in particolare Forza Italia un partito di parvenue privo di classe dirigente, come se non amministrasse questa città e questa regione da più di un decennio, la sottovalutazione dell’avversario porta poi ad equivoci sostanziali come dare per schierato un elettorato popolare che non c’è, o per lo meno non c’è nella misura ipotizzata, porta a credere ad uno zoccolo duro che è in realtà molto minore, porta a credere ad una rete di militanti e di movimenti a sostegno che in realtà è molto più teorica che reale. Del resto le preferenze prese dai protagonisti dell’associazionismo “politico” e della cosiddetta società civile sono li a spiegare bene pesi e misure reali.
Per farla breve è stata una campagna troppo gauchista che ha scontentato i moderati, o una campagna troppo moderata che ha allontanato i gauchisti, paradossalmente è stata tutte e due le cose in pratica è stata una campagna dilettantesca.
Banalizzando: di chi è la colpa?
Del candidato o dei partiti, che hanno fatto mancare il loro appoggio?
Io credo che il candidato avesse tutte le qualità per vincere ma come in tutte le competizioni quello che conta è la gara non il record in allenamento, e Ferrante è arrivato del tutto impreparato alla gara, sfiancato dalla preparazione, privo di una strategia.
I partiti credo che abbiano dato tutto quello che potevano dare, considerato che da anni il centro sinistra non esprime una classe di governo cittadina, che figure di spicco non ce ne sono, che le sconfitte del passato hanno generato una sindrome isolazionista permanente, e che tutto sommato i partiti forse con la sola eccezione dei ds sono poca cosa in termini di forza organizzata.
Anche l’importanza della lista unitaria ds- margherita così forte all’interno degli apparati non è correlata al comportamento dell’elettorato che infatti appena gli viene fatta un offerta più vasta
(con la lista Ferrante)si sposta; è vero che si potrebbe dire che la lista Ferrante ha trattenuto voti che erano in uscita ma francamente credo che all’interno del centro sinistra esistano due elettorati: uno che vota il proprio partito di riferimento con una forte continuità, e uno che si sposta con facilità anche a pochi mesi di distanza; un elettorato che deve essere ogni volta motivato sia nella scelta dei temi che nella scelta dei candidati sbagliare l’uno o l’altro o peggio tutte e due espone a brusche sorprese.
Probabilmente quindi la responsabilità maggiore come del resto in tutte le presidenziali va addebitata al candidato, o meglio ancora ai suoi allenatori.
In fondo Ferrante ha accettato una sfida al buio, erano altri che dovevano spiegargli che quello del candidato è un mestiere difficile e spietato, soprattutto perché in caso di sconfitta sei solo.
Mi resta un dubbio alla fine di questa chiacchierata : magari saremmo andati al ballottaggio e avremmo vinto se solo ci si fosse occupati di alcuni dettagli, fra cui quello di far star zitto Visco.
Ed una domanda : come è possibile che nel 2006 la coalizione di centro sinistra a Milano abbia meno voti di quelli che avevano pci e psi nel 1980?