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La Fabbrichetta

laboratorio politico aperto

lafabbrichetta

VINCENZO SIMONE

September 30, 2015 By admin

Settore Educazione al Patrimonio Culturale
Coordinatore Ecomuseo Urbano Torino
 
SILVIA DELL’ORSO
Giornalista
Gruppo Repubblica-Espresso

INTERVENTI DELLAFABBRICHETTA
Interventi di
Piervito Antoniazzi.
Enrico Borg Presidente Commissione “Città della conoscenza”zona 9
Silvia Mascheroni
Walter Marossi
Giorgio Poidomani (cdz 9)
Egidio Greco
 
Introduzione
n po’ di emozione oggi perché il secondo incontro della nuova stagione della Fabbrichetta si svolge in quella vera cattedrale del lavoro che è la Fonderia Napoleonica di Milano, restaurata dai proprietari in modo tale da restituire un piccolo patrimonio alla città. Qui si è fatta la storia di un pezzo di città che ancora campeggia nelle nostre piazze più importanti, visto che qui è stata fusa la statua di Vittorio Emanuele che sta in Piazza del Duomo. Così come le porte dello stesso Duomo.
Il tema di oggi attiene proprio alle esperienze di cultura e territorio, e sarà introdotto da Silvia dell’Orso che sul tema sta per pubblicare un libro-inchiesta e che ci ha segnalato l’esperienza di cui parliamo. Si tratta di una realtà torinese interessante da diversi punti di vista, non ultimo quello politico, visto che si tratta di un’esperienza nata in gran parte dal basso, dall’attività delle Circoscrizioni, l’equivalente dei Consigli di Zona milanesi. Il luogo di quest’incontro è all’interno dell’unica zona amministrata dalla sinistra, di Milano. Una città che comunque la si voglia definire e giudicare, ha un disperato bisogno di progetti.

L’esperienza dell’ecomuseo di Torino vale la pena di essere raccontata e soprattutto ascoltata, anche sotto il profilo della sua replicabilità. L’ecomuseo è la rappresentazione plastica di come una struttura museale possa essere messa in relazione con la città che la ospita. E’ particolarmente bello farlo in un luogo come questo che rappresenta in sé un esempio di legame fra strutture e città. A parlare dell’ecomuseo è Vincenzo Simone, che ha seguito questo progetto dal primo giorno, e che ne è uno dei principali protagonisti nella vita amministrativa e culturale torinese.

Inviterei Vincenzo Simone a cominciare il suo racconto proprio dalla genesi del progetto.

La genesi del progetto ecomuseo si colloca all’interno delle politiche museali della città di Torino nelle ultime due amministrazioni. La città che gestisce le collezioni civiche si è posta di tutelare il suo patrimonio più ampio, quello non musealizzato, a lungo trascurato. Accanto al Settore musei che si occupa dei luoghi tradizionali della cultura cittadina, è stato creato un nuovo Settore che ha centrato la propria attività sulla accessibilità del patrimonio cittadino, creando un’accezione nuova del termine museo..
La città aveva già vissuto l’esperienza del Settore periferie, che ha lavorato a lungo sul rapporto fra periferia da un lato e patrimonio ed attività culturali. Da quell’esperienza sono nati i centri di documentazione storica locale sulla storia del patrimonio cittadino.
La trasformazione urbanistica di Torino negli ultimi anni è passata per il nuovo piano regolatore del 1994, i lavori olimpici, la costruzione della metropolitana e del passante ferroviario, ha provocato la trasformazione dei luoghi della città, mutando tanti punti di riferimento locali, al punto da porre la domanda su cosa rimanesse della vecchia città.
C’è stata anche una trasformazione della civitas, con il fenomeno dell’immigrazione che cambia continuamente la città, che già aveva vissuto a partire dagli anni cinquanta un fenomeno analogo, al punto che oggi la maggioranza dei torinesi ha almeno un genitore non originario del Piemonte. Questi fenomeni pongono la questione dell’identità cittadina in trasformazione.
In questo scenario cittadino si è innestata nel 1995 la legge della regione Piemonte che ha dato un preciso riferimento normativo e finanziario al progetto dell’ecomuseo. Ultimo tassello della situazione è dato dalla questione dell’accessibilità dei musei, questione non solo torinese ma nazionale se l’ISTAT ha calcolato che 3 italiani su 10 entrano in un museo, che è un medium culturale vecchio in un mondo in cui la mediazione del museo non è più strettamente necessaria.

Questo il quadro d’insieme quando nel 2003 la Giunta Comunale istituisce un gruppo di lavoro inter assessorile che ha cominciato a lavorare sull’argomento ecomuseo. A tre anni di distanza questo strano oggetto può essere definito partendo dalla sua pratica, ciò che rappresenta un’esperienza emotiva perché si colloca in un ambito umano e rappresenta il bisogno di mettere in relazione l’ambiente con lo spazio in cui si vive. Il territorio.
I quartieri, intesi come abitanti, associazioni, gruppi, scuole, fanno la loro parte, occupandosi di elementi tanto fisici che immateriali, memorie di luoghi e relazioni umane. L’oggetto non è dato dall’alto, ma viene proposto dal quartiere ad un gruppo di lavoro.
Dei dieci quartieri, le Circoscrizioni, otto hanno aderito alla proposta della Giunta, dimostrando la loro vicinanza ai problemi del territorio. La Giunta chiedeva loro di farsi promotori di progetti, di individuare i luoghi fisici che rappresentassero il progetto scelto nei confronti dei cittadini, facendosi nel contempo garanti dell’interesse generale di ogni progetto.
Dopo le 3 circoscrizioni inziali, già nel 2005 erano cinque, per diventare oggi otto, essendo ancora fuori dal progetto le Circoscrizioni Centro e San Calvario. Non è significativo il dato politico che queste due circoscrizioni siano amministrate dalla destra, visto che invece ha aderito e lavorato molto bene la Circoscrizione del Lingotto, che è amministrata dalla Lega. (Oggi tutte le circoscrizioni sono amministrate dal centrosinistra dopo le elezioni di maggio).
Concretamente il progetto decolla con una delibera della Circoscrizione, che viene sostenuta dal centro soprattutto in termini di sostegno e lavoro, molto meno in termini economici. L’amministrazione cittadina interviene anche a livello di normazione, di contributo, di esperienza sulla sicurezza e sulla promozione della capacità di auto finanziamento.
Un ruolo specifico è rivestito dai Centri di interpretazione, dedicati alla documentazione storica locale: un esempio è dato dalla Circoscrizione 5 che ingloba Borgo Vittoria, così denominato per ricordare la guerra con i francesi del 1706, e che si è dedicato al terzo centenario di questo evento storico. Il centro di interpretazione ha analizzato miti e documenti, rielaborato le celebrazioni del secondo centenario del 1906, tutte improntate allo sfruttamento del mito in senso funzionale a Casa Savoia (Pietro Micca!), mediando la rilettura dell’evento verso i cittadini.
Un altro esempio quello della circoscrizione Lingotto, che comprende il luogo in cui sorgeva, ed in parte sorge ancora, l’area dello Stadio Filadelfia, legato al mito del grande Torino. Oltre che patrimonio dei tifosi, lo stadio è patrimonio del quartiere, nel senso che è un’occasione per dare attenzione ad un patrimonio di memoria che è definito culturale dai cittadini.

Ma chi sono nel concreto gli attori di questo sistema ?
Gli attori sono di diverso genere e peso: fra i forti ci sono le scuole e le biblioteche che possono mettere a disposizione la loro organizzazione, e le associazioni abituate al lavoro in rete. Fra gli attori deboli, ma non di secondaria importanza, i singoli, gli anziani, i nuovi cittadini.
In una recente presentazione di Diego Novelli ad un volume sull’imigrazione a Barriera Milano, erano presenti in maggioranza non gli anziani interessati alla memoria del quartiere, ma i giovani interessati alla storia del loro quartiere, ed alla precedente esperienza di integrazione di immigrati. Questi sono attori del sistema.
Parlando degli attori non si può dimenticare che Torino ha già musealizzato molta della sua storia, ma senza rappresentare la città del ‘900. Ad esempio già molto tempo fa Vittorio Viale aveva proposto Palazzo Madama come sede di un museo contemporaneo.
L’ecomuseo permette tutto questo: non è l’unico né forse il migliore dei mezzi, ma è un tentativo di definire un patrimonio culturale per poi tutelarlo.

DOMANDA
C’è una collaborazione pubblico/privato per mettere in campo finanziamenti accanto alla volontà politica ?
RISPOSTA
Ogni circoscrizione definisce uno spazio aperto ai cittadini per l’attività, che viene quindi offerto dal “pubblico”, in cui il comune interviene finanziariamente in conto capitale.
Poi i privati intervengono in vario modo nei gruppi di lavoro come portatori di interessi e progetti.
Posto che in un anno la gestione di otto centri di questo tipo costa meno dell’allestimento di una sola cosiddetta “grande mostra”, c’è poi tutto lo spazio per il lavoro dal basso sui progetti. Chiaro che i condizionamenti politici, i rapporti anche politici e di schieramento con il centro cittadino, contano e sono ineludibili. Ma sempre gestibili.
DOMANDA
Forse è improprio porre la domanda in una città come Milano che spende in cultura molto meno di città di gran lunga più piccole, ma la domanda c’è ugualmente: cosa ci guadagna la città ?
RISPOSTA
Il progetto è principalmente rivolto ai residenti, con obbiettivo ultimo la qualità del loro vita. Inevitabilmente poi si creano forti interessi cittadini generati dalle esperienze di ecomuseo, e persino fenomeni di turismo cittadino, perché in molti vogliono vedere le esperienze delle Circoscrizioni.
In ogni caso oltre al ricavo di lungo periodo con le ricadute positive sulla vita sociale, ci sono anche ricadute più immediate in termini di conservazione del patrimonio.
DOMANDA
Tra museo tradizionale ed ecomuseo ci sono due diverse modalità di interpretare la conservazione e valutazione del patrimonio museale. Come interagiscono ?
RISPOSTA
Da parte dell’istituzione museale tradizionale c’è inevitabilmente una chiusura iniziale, ma ci sono anche molte esperienze trasversali, ad esempio come nel caso della realizzazione delle mappe di comunità con la Fondazione Mek che opera in ambito museale tradizionale, specificamente nell’arte contemporanea.
DOMANDA
C’è nell’esperienza dell’ecomuseo una tendenza al localismo, alla auto referenzialità ?
RISPOSTA
Il localismo è un grosso rischio, mediato e controllato da chi come noi ha il compito di coordinare.
DOMANDA
Come viene monitorata e controllata l’attività dell’ecomuseo ?
RISPOSTA
Si tratta di uno problemi più seri: il controllo di gestione interno dell’amministrazione comunale aveva proposto di misurare l’efficacia del progetto sul numero dei visitatori. Questo criterio non era però soddisfacente, perché non si tratta di fare record di visitatori, quindi da parte del nostro settore si è contro proposto di monitorare il numero delle persone attivamente coinvolte nel progetto. Criterio che viene attualmente seguito.
Certo che l’esperimento funziona a pieno regime, si cercano nuovi indicatori di soddisfazione e si cerca di fare in modo che ci sia in merito una buona comunicazione.

Per concludere, visto che in parte è stato introdotto da questa ultima domanda, quali sono le criticità del progetto ecomuseo ?
Le criticità sono molte: una prima è di ordine politico, perché la delibera che stava alla base del progetto era il frutto di un concerto fra più assessori, che all’inizio ha funzionato molto bene. Poi, con il passare del tempo, soprattutto le esigenze proprie del settore urbanistica hanno cominciato a divergere rispetto a quelle del settore cultura, e quindi si è aperto un lungo periodo di mediazione politica. Un altro aspetto delicato rappresenta in modo alternato nel tempo criticità ed opportunità ed è dato dal carattere un po’ anarchico delle iniziative, dal grande fermento che le genera, che va governato senza irreggimentarlo per non rischiare di renderlo sterile. Noi tentiamo di non intervenire mai nel merito del contenuto, ma nel sostegno al progetto con una attiva partecipazione ai gruppi di lavoro, un altro elemento critico è dato dall’evoluzione del concetto stesso di ecomuseo, che è nato ed di per sé un concetto flessibile, che però nel tempo fa sentire la necessità di darsi regole di crescita, sulle quali il dibattito è aperto presso una comunità molto allargata.
Paradossalmente nell’insieme dell’esperienza dell’ecomuseo la questione finanziaria è importante ma non determinante, pur se in questo momento storico così difficile per le risorse finanziarie degli enti pubblici.

Conclusione
C’è un po’ di invidia da parte di noi milanesi nell’ascoltare questo racconto, ma da questo tipo di esperienze e proprio dalla Zona 9 di Milano, c’è la voglia e lo spazio per ripartire.

 

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Perché abbiamo perso ? Analisi della campagna elettorale per le elezioni comunali svolta da Walter Marossi

September 30, 2015 By admin

a LA FABBRICHETTA , giovedì 8 giugno 2006

La campagna elettorale era iniziata nel migliore dei modi:
1) un candidato per la prima volta autorevole e conosciuto
2) che partiva con largo anticipo
3) che veniva legittimato dalle primarie a larga maggioranza e senza grandi lacerazioni
4) che godeva del consenso di settori significativi di quello che è chiamato terzismo
5) cui veniva permesso di preparare una propria lista per pescare in settori diversi da quelli della sinistra e di formulare un programma con ampia autonomia

La strategia di Ferrante appare anche abbastanza semplice:
1) riportare al voto l’elettorato che si era astenuto alle regionali
2) ridurre il gap tra liste e candidato che aveva caratterizzato la campagna di antoniazzi
3) conquistare l’elettorato moderato d’opinione su cui il prefetto poteva certo fare maggior presa del sindacalista
4) sfruttare le condizioni di relativa difficoltà dell’avversario appesantito da una confusa gestione del ministero e appiattito su posizioni cattomoderate in materia di scuola e assistenza in una città tradizionalmente più laica della sua classe politica

Non è certamente una partita in discesa ma per la prima volta appare possibile la vittoria. Eppure si perde e si perde pure male.
Perché male?
solo un anno fa alle regionali con lo stesso numero di elettori (alle regionali votarono 680782 elettori alle comunali 680061 quindi i raffronti una volta tanto sono coerenti) Sarfatti prese il 47,89% di voti cioè quasi un punto in più di Ferrante, mentre la coalizione si fermò al 44,39 contro il 44,54 delle comunali, va tuttavia ricordato che alle comunali con Ferrante si schierava anche il partito radicale che alle regionali non era nella coalizione.
In un anno si perde quasi un punto percentuale ma soprattutto in una elezione fortemente caratterizzata dalla candidatura del sindaco diminuisce drasticamente, circa il 50%, il numero di elettori che vota solo il candidato.
La Lombardia tra l’altro lo scorso anno era stata la regione italiana con la più alta percentuale di voti solo al presidente.
Come a dire che Ferrante non solo non fa la differenza ma la fa meno di Sarfatti.
E questo quando il suo competitor è meno popolare della sua coalizione
Il risultato della coalizione, a parità di componenti, è più basso delle due elezioni politiche precedenti, ed è di pochi decimali superiore (sempre accorpando i voti delle liste in modo il più possibile omogeneo) a quello delle comunali del 2001.
Delle provinciali e delle europee è più difficile parlare perché i sistemi elettorali e le caratteristiche di quelle competizioni erano troppo diverse per numero di candidati e per tipologia delle coalizioni, tuttavia non mi pare che il saldo di queste comunali sia positivo, riaggregando i dati

Di più il numero degli astenuti comparando elezioni politiche e comunali vede un saldo negativo del centro sinistra di circa 15000 elettori.
In sostanza non solo non si riesce a spostare segmenti di elettorato moderato ma non si riesce neppure a riportare al voto quegli stessi cittadini che si erano mobilitati solo due mesi prima.
La campagna non convince quindi i moderati ma neppure il complesso dei cittadini che vogliono liberarsi del berlusconismo, anzi pare non convincere neppure a sinistra. Infatti storicamente alle elezioni milanesi più alto è il tasso di astensione più pesano percentualmente i voti della sinistra radicale, qui avviene il contrario con un numero di elettori pari a quello dello scorso anno il peso della sinistra radicale si riduce percentualmente.
In sostanza Ferrante non recupera a destra neppure i voti dei partiti che si aggregano per la primavolta alla coalizione (basti pensare che la rosa nel pugno tra politiche e comunali perde quasi tre quarti dei voti) e perde qualche cosa a sinistra probabilmente verso l’astensione.
Perche?
Avere certezze il giorno dopo le elezioni è abbastanza semplice, basta usare il bartaliano “gli è tutto sbagliato gli è tutto da rifare” e si è a posto, tuttavia alcune osservazioni si possono fare anche senza un’analisi approfondita che richiede tempo:
1) il profilo del candidato, che in una campagna presidenziale è fondamentale, non è emerso. la sensazione trasmessa è stata quella di un buon mediatore ma indeciso
2) il profilo programmatico della coalizione è stato ambiguo, cosicchè un elettore moderato poteva pensarlo caratterizzato dai no dei settori più radicali (primo fra tutti Fo) ed un elettore più radicale poteva vederlo come compromissorio, in altre parole non era ne carne ne pesce. Più ancora non si è capito a chi si rivolgeva come ha detto Morganti ci si è rivolti di più ai taxisti che agli utenti di taxi (certamente più numerosi)
3) la lista del candidato non è stata una lista di incursione in terreni altrui o inesplorati ma una lista contenitore, addirittura con due dei suoi competitor alle primarie (che difatti hanno preso cadauno qualche centinaio di voti in meno di quelli delle primarie); tanto più che notoriamente più liste ci sono alle elezioni comunali più voti (magari pochi) si prendono
4) l’elettorato d’opinione non si è mosso. Qui occorre fare una precisazione, nelle analisi degli anni ‘70 , l’elettorato d’opinione urbano veniva identificato con un ceto medio colto ed informato che sceglieva in funzione dei programmi in genere all’interno dello schieramento laico. Oggi probabilmente bisogna intendere per elettorato d’opinione quello che non legge i giornali, che sta più nella periferia che nel centro della città e che si forma le proprie convinzioni politiche fondamentalmente attraverso la televisione, il passa parola e la comunicazione dei candidati in campagna elettorale. E’ un elettorato che spesso decide all’ultimo minuto.
5) Ebbene la mia sensazione è che la campagna del centro sinistra sia stata qualitativamente molto inferiore a quella del centro destra, una comunicazione tutta autoreferenziale molto pubblicitaria e poco elettorale (che ha portato ad esempio ad utilizzare principalmente, come ha detto Penati, il manifesto Ferrante, Cornacchione, Zelig con un ammiccamento tutto da capire).
6) La ragione della differenza tra la campagna della Moratti e quella di Ferrante è solo economica? Non credo: si possono fare campagne anche povere ma efficaci, bisogna però adeguare gli strumenti ai mezzi economici. Tuttavia è vero che per una campagna tradizionale a Milano ci vuole all’incirca un milione e mezzo di euro, ora considerando che si è partiti a novembre che alle primarie hanno votato oltre 80000 elettori, che tra candidati al comune ed alle zone erano in pista più di duemila persone non mi pare una cifra irraggiungibile.
7) l’avversario non è mai stato messo in difficoltà, per usare termini calcistici gli si è lasciato fare il gioco che voleva, gli si è lasciato il controllo della palla, non si è fatto pressing. Così Letizia Moratti è riuscita a cambiare due otre volte linea e soprattutto ad accreditarsi via via con una immagine accattivante quale non aveva all’inizio. Certamente su questo ha influito anche il comportamento esemplare di Albertini che è uscito di scena con estrema dignità, dando un contributo fondamentale con la sua presenza/assenza alla campagna della Moratti
8) Il centro sinistra è supponente,continua a ritenere il centro destra ed in particolare Forza Italia un partito di parvenue privo di classe dirigente, come se non amministrasse questa città e questa regione da più di un decennio, la sottovalutazione dell’avversario porta poi ad equivoci sostanziali come dare per schierato un elettorato popolare che non c’è, o per lo meno non c’è nella misura ipotizzata, porta a credere ad uno zoccolo duro che è in realtà molto minore, porta a credere ad una rete di militanti e di movimenti a sostegno che in realtà è molto più teorica che reale. Del resto le preferenze prese dai protagonisti dell’associazionismo “politico” e della cosiddetta società civile sono li a spiegare bene pesi e misure reali.

Per farla breve è stata una campagna troppo gauchista che ha scontentato i moderati, o una campagna troppo moderata che ha allontanato i gauchisti, paradossalmente è stata tutte e due le cose in pratica è stata una campagna dilettantesca.

Banalizzando: di chi è la colpa?
Del candidato o dei partiti, che hanno fatto mancare il loro appoggio?

Io credo che il candidato avesse tutte le qualità per vincere ma come in tutte le competizioni quello che conta è la gara non il record in allenamento, e Ferrante è arrivato del tutto impreparato alla gara, sfiancato dalla preparazione, privo di una strategia.
I partiti credo che abbiano dato tutto quello che potevano dare, considerato che da anni il centro sinistra non esprime una classe di governo cittadina, che figure di spicco non ce ne sono, che le sconfitte del passato hanno generato una sindrome isolazionista permanente, e che tutto sommato i partiti forse con la sola eccezione dei ds sono poca cosa in termini di forza organizzata.
Anche l’importanza della lista unitaria ds- margherita così forte all’interno degli apparati non è correlata al comportamento dell’elettorato che infatti appena gli viene fatta un offerta più vasta
(con la lista Ferrante)si sposta; è vero che si potrebbe dire che la lista Ferrante ha trattenuto voti che erano in uscita ma francamente credo che all’interno del centro sinistra esistano due elettorati: uno che vota il proprio partito di riferimento con una forte continuità, e uno che si sposta con facilità anche a pochi mesi di distanza; un elettorato che deve essere ogni volta motivato sia nella scelta dei temi che nella scelta dei candidati sbagliare l’uno o l’altro o peggio tutte e due espone a brusche sorprese.
Probabilmente quindi la responsabilità maggiore come del resto in tutte le presidenziali va addebitata al candidato, o meglio ancora ai suoi allenatori.
In fondo Ferrante ha accettato una sfida al buio, erano altri che dovevano spiegargli che quello del candidato è un mestiere difficile e spietato, soprattutto perché in caso di sconfitta sei solo.

Mi resta un dubbio alla fine di questa chiacchierata : magari saremmo andati al ballottaggio e avremmo vinto se solo ci si fosse occupati di alcuni dettagli, fra cui quello di far star zitto Visco.
Ed una domanda : come è possibile che nel 2006 la coalizione di centro sinistra a Milano abbia meno voti di quelli che avevano pci e psi nel 1980?

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CENTRI URBANI E SICUREZZA

September 30, 2015 By admin

Incontro a La Fabbrichetta con Roberto Cornelli, Sindaco di Cormano – 19 aprile 2007
 
Pier Vito Antoniazzi: Cornelli è un personaggio interessante per noi… E’ giovane (compie 33 anni a giugno), dal 2004 è sindaco di Cormano (città di prima fascia dell’hinterland milanese), è criminologo, studioso e docente nell’Università di Milano-Bicocca di sicurezza urbana e criminalità…
Roberto Cornelli: Il problema della sicurezza “esplode” in Italia a metà degli anni ’90, con qualche anno di ritardo rispetto ad altri Paesi europei. Dopo una stagione in cui la criminalità organizzata e il terrorismo interno avevano catalizzato le attenzioni e le preoccupazioni dei politici e dell’opinione pubblica, ondate di panico morale investono le aree urbane strutturando sentimenti di paura e di esasperazione per la micro-criminalità, per il disordine urbano e per le inciviltà. Sono soprattutto i fatti di criminalità comune, come i furti in appartamento, gli scippi e le rapine, ad alimentare le campagne “informative” dei mass-media e le insicurezze delle persone.
Sono gli stranieri extracomunitari i principali bersagli del sentimento di intolleranza che si diffonde rapidamente e che porta nelle piazze migliaia di persone in fiaccolate contro la microcriminalità e l’immigrazione.
La “protesta civile”, resa più acuta dalla sfiducia verso il sistema politico colpito duramente dalle indagini giudiziarie di Mani Pulite, s’indirizza verso i Sindaci, in quanto referenti istituzionali più prossimi ai cittadini, anche grazie alla legge che nel 1993 ha introdotto la loro elezione diretta. Mentre al Governo nazionale si chiede una politica di “legge e ordine”, vale a dire di inasprimento delle pene e di stanziamento di risorse per mettere le forze di polizia nelle condizioni di controllare il territorio e contrastare i fenomeni devianti e criminali, ai governi locali si chiede di intervenire nelle numerose situazioni di disagio, di precarietà, di conflitto e di insicurezza che affollano la vita delle persone nelle città, e che vengono espresse attraverso una generica e indistinta domanda di sicurezza.
L’ allarme sociale per la criminalità non è un fenomeno nuovo in Italia: il biennio 1974-75 fu caratterizzato da un’intensa campagna di opinione sulla drammaticità e la diffusione del fenomeno criminale, unita alla richiesta di maggiore fermezza rispetto a fenomeni criminali emergenti, quali terrorismo e criminalità organizzata. E sicuramente è un tratto caratteristico di tutti i Paesi Occidentali. Stati Uniti in testa: negli anni Sessanta il Presidente Jonshon, Democratico, indicò nel 1966 la paura della criminalità come il più diffuso tra i “costi” che la criminalità infligge ai cittadini e, dunque, il problema principale da affrontare in un programma governativo centrato sulla “guerra al crimine”. Fu la prima volta che il termine fear of crime (paura della criminalità) entrava in un discorso presidenziale: gli eventi ( tra cui le rivolte dei ghetti neri, il clima di sfiducia nel sistema penale, le preoccupazioni dei ceti medi) stavano conducendo un Presidente Democratico fortemente impegnato nell’attuazione di un programma keynesiano di riforme sociali in direzione fortemente socialdemocratica a promulgare – dopo passaggi congressuali molto difficili – una legge, il The Omnibus Crime Control and Safe Streets Act, limitativa delle libertà e delle garanzie processuali. Da quel momento in poi, con l’avvento di Nixon e dopo un decennio di Reagan, la paura diventa un elemento sempre presente in ogni discorso elettorale o presidenziale riguardante la giustizia penale, la criminalità e lo stato sociale e attorno a cui elaborare politiche penali.
In Italia, i Governi di centro-sinistra a partire dal 1996 si sono trovati a gestire l’esplosione dell’allarme sociale per la criminalità e l’immigrazione, probabilmente senza esserne preparati trattandosi di un tratto nuovo della sensibilità diffusa e della politica.
E hanno reagito con misure, come il “pacchetto sicurezza” del 2001 del Governo D’Alema, che ha avuto più la funzione di affermare una volontà di governare politicamente il fenomeno della criminalità (giustizia simbolica o espressiva) più che un’efficacia nel governarlo effettivamente.
Nel pacchetto sono state previste – secondo le parole dell’allora Ministro della Giustizia on. Piero Fassino – “misure che assicurano maggiore certezza della pena, accelerazione dei processi, ampliamento dei poteri di indagine della polizia, inasprimento della severità per reati che destano forte allarme sociale”.
Questa linea repressiva, che intende rassicurare le persone attraverso l’aumento delle pene, dei comportamenti punibili (penalizzazione) e l’incremento dell’organico delle forse di polizia, non tenne conto delle riflessioni e delle politiche adottate a livello locale, ad esempio nell’ambito del progetto della Regione Emilia-Romagna o del Forum Italiano sulla Sicurezza Urabana, o dalle associazioni tematiche di partito, come l’associaizone VivereSicuri dei DS. Questa linea repressiva non tenne, e non tiene tuttora, conto dei risultati della ricerca criminologica che sull’analisi delle tendenze criminali e sul tema della “deterrenza” ha un sapere ormai consolidato e fruibile anche dalla politica.
Un approfondimento breve per parlare di un aspetto specifico e limitato relativo all’efficacia: se si pensa che circa la metà dei reati commessi in Italia ogni anno (tot. reati denunciati nel 2004 in Italia: 2 milioni e 970 mila circa) è un furto, e che circa il 95% dei furti sono di autore ignoto, si comprende come l’aumento delle pene non abbia un effetto così deterrente per la commissione di furti. E non è un problema tanto di certezza della pena, perché per per quel 5% circa di furti con autore noto, le sentenze di condanna arrivano: subiscono una pena detentiva il 65% di coloro che sono stati imputati di un furto (sono tutte elaborazioni su dati Istat). E molto spesso sono persone che ormai non note al sistema penale, riconoscibili e quindi più facilmente arrestate: spesso entrano in carcere sempre gli stessi, perché i più facili da prendere.
La politica reagisce all’allarme criminalità spesso semplificando – la semplificazione è, d’altra parte, una necessità della politica, che si scontra in questo caso con l’efficacia delle misure messe in campo – e dando l’idea che ci sia maggiore “controllo”.
Il governo nazionale tende a riaffermare la centralità della “risposta penale” per rassicurare i cittadini, secondo l’assunto classico – debole nei fatti – che aumentando le pene, aumenti la deterrenza e diminuisca la criminalità. Il risultato è, invece, una delega al sistema penale, sempre più collassato e che non produce giustizia per molti motivi, ma anche perché viene investito, senza criteri di priorità, di una quantità enorme di fatti.
La protesta civile dalla politica nazionale si sposta sulla giustizia, per poi tornare, con maggior vigore e maggiore sfiducia, alla politica, non in grado di assicurare alla giustizia (e alla polizia soprattutto) di funzionare bene. E le insicurezze si alimentano della sfiducia derivante da questa promessa mancata.
Ma lo Stato non è più centrale nelle strategie di rassicurazione adottate dai cittadini.
Tre tendenze caratterizzano questi anni:
1) La privatizzazione o commercializzazione della sicurezza (in USA anche delle carceri oltre che della polizia). A Singapore, ad esempio, ci sono due agenti di polizia privata ogni agente di polizia pubblica; negli Stati Uniti il rapporto tra polizia pubblica e polizia privata è di 1 a 3. In Italia nel 2001 siamo arrivati a 1 poliziotto privato ogni 6 pubblici.
2) Dallo stato alla “comunità”. Oggi si chiede sicurezza al Sindaco. Persino nei comuni più piccoli oggi si va più dal sindaco che dai carabinieri per segnalare problemi di sicurezza.
3) Ricorso a misure extralegali legate alla prevenzione situazionale o comunitaria. Esempio le ronde, le recinzioni, le telecamere. Spesso senza considerarne attentaemente l’uso, la funzionalità e l’efficacia. Facendo un passo indietro e analizzando le tendenze della criminalità a partire dal Secondo Dopoguerra notiamo un forte aumento dei reati denunciati tra il ’70 ed il ’75, non paragonabile per importanza (un vero e proprio salto) a quello degli inizi degli anni Novanta. Perché allora “l’allarme sociale” è venuto 20 anni dopo?
La “paura della criminalità” entra nel dibattito pubblico italiano a metà degli anni Novanta in un periodo di “crisi drammatica e profonda”.
Provo a elencare solamente per titoli alcuni dei fenomeni che penso abbiano accompagnato l’insorgere della paura della criminalità come tema politico:
– fine del bipolarismo Est-Ovest e crisi dei partiti ‘ sfiducia nel sistema di rappresentanza
– fine del bipolarismo Est-Ovest e crisi economica ‘ sfiducia nella capacità di governo dell’economica
– immigrazione e la difficile co-abitazione con lo straniero
– “Mani pulite” e questione morale ‘ sfiducia nella politica
– Mass-media: la scoperta della vittima come risorsa comunicativa.

Interventi di Gadola, Gori, Antoniazzi, Meroni,Crapanzano:
-Un giornale ha scritto che a Milano si droga 1 su 3. Ci sarà ben un mercato vasto…
-Com’è la situazione ad Amsterdam che ha legalizzato le droghe leggere e che ha i quartieri a luci rosse ?
-Ho letto “Gomorra”. L’esercito della camorra è fatto di quindicenni…
-La sinistra è subalterna, anche nel linguaggio,pensiamo a “tolleranza zero” per esempio. Cornelli: “Tolleranza zero” fu coniato da alcune femministe canadesi in una campagna contro le violenze sessuali. Hobbes diceva che la paura è all’origine dello Stato moderno: la paura di ciascuno verso ogni altro spinge gli uomini a rinunciare alla propria libertà delegando allo Stato la funzione di protezione e di sicurezza. Oggi sembra essere un problema di equilibrio e prospettiva: in uno stato democratico dobbiamo cercare di garantire sicurezza costruendo risposte di civiltà, di convivenza, dirette alla creazione di una società aperta.
 

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MILANO CHIAMA L’ASSICURATORE

September 30, 2015 By admin

Francesco Bizzotto
Già Ufficio Studi FIBA CISL

Da alcuni anni alcune persone di diversa estrazione, ma accomunate dalla passione politica e dall’esperienza assicurativa, hanno messo a disposizione le loro competenze, dando vita all’Ulivo delle Assicurazioni.
Il riscontro purtroppo non è stato positivo: i partiti sono refrattari a recepire competenze che non possano essere strumentalizzate e quindi non hanno dato la sponda che ci si aspettava.
Quella delle competenze è la questione della società civile, nel senso che una società civile organizzata pone la questione della rappresentanza in modo alternativo rispetto a quello proposto dai partiti.
Nella professione assicurativa ci sono ampie riserve di competenza, benché poco conosciute tanto a destra che a sinistra, a causa di una scarsa considerazione in cui la politica tiene la cultura d’impresa in generale e quella del rischio in particolare.

Il settore assicurativo ha una ricca produzione di cultura aziendale, ad esempio nel CINEAS “Consorzio Universitario per l’ingegneria nelle assicurazioni”, all’interno del quale Politecnico di Milano e industria assicurativa promuovono lo studio ingenieristico del rischio (risk engineering) con la tecnica propria della gestione degli eventi dannosi (loss adjusting). Il tutto arrivando anche alla produzione di corsi formativi per attività di servizio a tutto vantaggio della collettività, quali quelli di “Hospital Risk management”.
Il mondo assicurativo sta cercando in molti suoi settori di abbandonare l’autoreferenzialità ancorata al passato nella misurazioni dei rischi, che è entrata in crisi.

Da esperienze innovative di questo genere possono venire dei suggerimenti per l’amministrazione cittadina, che sia di stimolo per un nuovo approccio comune fra compagnie e cittadini ai problemi legati alla copertura dei rischi. In questo senso molto interessante sarebbe l’idea che il comune spinga le compagnie a proporre nell’area metropolitana forme di copertura veramente ampia (cosiddetta all risk), che non si basi sul tradizionale rimpallo fra garanzie ed esclusioni, ma copra per intero una categoria di rischi. Se si prova ad applicare questo approccio alle polizze dei condomini, si ha un’idea immediata di quale ritorno possa esserci per i cittadini intermini di maggiore sicurezza. Infatti insieme amministrazione e cittadini investirebbero in una iniziativa di lungo periodo, volta all’equilibrio ed alla stabilità di un importante settore della vita cittadina, tale da favorire il controllo di una serie non trascurabile di rischi.

Oltre che per progetti particolari come questo, gli assicuratori cittadini, che sono molti ed importanti non solo all’interno della categoria, potrebbero essere chiamati dalla nuova amministrazione a partecipare ad un tavolo nel quale far convergere la ricerca di soluzioni a problemi di ordine generale della città.
Il traffico ed i suoi legami con la copertura assicurativa per antonomasia, quella di RC auto, ma anche i temi dell’autosufficienza, che possono vedere un approccio multidisciplinare fra volontariato, istituzioni e privati, limando gli sprechi dovuti alla cronica duplicazione di interventi, ed arrivando fino quasi a fornire uno sportello unico delle soluzioni a questo grave problema tipico della città che invecchia.
Il mondo assicurativo ha in sé competenze e cultura che possono permettergli di essere utilmente messo se non al servizio, quanto meno in sintonia con una nuova politica di una nuova amministrazione cittadina.

Dobbiamo capire cosa può fare l’amministrazione per ridurre veramente i rischi dei cittadini, all’interno di una politica vera dell’emergenza. Probabilmente il primo compito dell’amministrazione è quello di prevenire ed informare: cercare di prevenire le situazioni di rischio, e nel contempo dare il massimo di informazione e trasparenza su questi temi.

Nell’economia nazionale la componente assicurativa milanese ha un peso molto rilevante, che non ha un adeguato ritorno verso la città. A Milano vengono sottoscritti, a seconda delle valutazioni, fra il 20 ed il 27% dei contratti di assicurazione che annualmente si accendono in Italia. Cosa resta di questo a Milano: sempre meno in termini occupazionali, benché non sia ancora cominciata una vera delocalizzazione, ma soprattutto molto poco sul piano sociale.

C’è anche una visione meno ottimistica del mondo assicurativo, che è sempre più improntato alla logica del breve periodo ed all’assorbimento nella logica finanziaria di quella che dovrebbe essere un’industria di servizi. Esistono dubbi che effettivamente azionisti e manager vogliano e possano impegnarsi in iniziative che non rientrino nella loro visione di immediato ritorno di utilità.
 
Nota per La Fabbrichetta di Francesco Bizzotto
 
Il mercato. Premi incassati ogni anno in Italia: 100 miliardi di euro (65 Vita, 18 RCA e 17 altri rami Danni). Per il 12,5% (Vita), 11,1% (Danni) e 7,3% (RCA) in provincia di Milano.
Riserve e investimenti per 500 miliardi.
 
Tipico servizio della Società, con la sua mediazione ha reso possibile l’iniziativa individuale (che esplora la possibilità, rischia). Non si contrappone ma aggiunge valore alle Comunità.
 
Le domande. Quale servizio è in campo a Milano? Quali innovazioni sono mature, necessarie? Cosa ritorna alla città in termini di investimenti? È possibile un dialogo che apra allo sviluppo e associ l’assicuratore, soggetto di Welfare e investitore istituzionale di equilibrio (il suo 1° interesse)?
 
Sì. Su tre terreni in particolare Milano chiama l’assicuratore a crescere e innovare:
Aiutare di più le nostre IMPRESE che competono nel mondo: con polizze All Risks e con informazioni sistematiche sui rischi specifici (in Usa l’80% degli assicuratori promuove servizi di completa gestione dei rischi; in Inghilterra il 30%; in Italia il 6%).
Definire una nuova polizza SALUTE per la FAMIGLIA, che consenta di scegliere differenze di prestazioni nel pubblico (solventi): per personalizzare la cura, premiare le eccellenze mediche e far affluire risorse agli ospedali. Una polizza che preveda e incentivi percorsi di Prevenzione.
Ripensare la RCA. Il sistema di Indennizzo diretto è buona occasione per: assicurare la Patente e legare la dinamica del premio al comportamento di guida (il vero rischio) anziché al sinistro (il caso); investire in Prevenzione (Francia); Assistere nel sinistro (intervento immediato).
VIVIBILITA’. L’assicuratore ha un preciso interesse alla salute dell’uomo e dell’ambiente. È l’attore di mercato per eccellenza di questi equilibri. Come coinvolgerlo? Ascoltarlo, parlarne!

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POVERI EQUILIBRISTI -Sintesi dell’incontro con don Roberto Davanzo, Direttore della Caritas Ambrosiana, a LA FABBRICHETTA di via Pepe 38- Mercoledì 19 ottobre 2005

September 30, 2015 By admin

P.Vito Antoniazzi presenta don Davanzo. Assistente regionale dei boy-scout’s,poi parroco alla Fontana e da 10 mesi Direttore Caritas,un osservatorio “privilegiato” rispetto alle povertà, ai problemi della città…
“10 mesi sono pochi per una realtà come questa-attacca don Davanzo- sto imparando…Persino la “giornata mondiale della povertà”,inventata da un prete e fatta propria dall’ONU,mi era sconosciuta. Del resto in Italia non molti la celebrano. C’è “Terre di Mezzo” una delle realtà che lavora con gli homeless (un’altra che promuoviamo noi è “Scarp de tennis” con l’idea di tenere viva un’attenzione culturale e di dare insieme lavoro a questo popolo fragile) che l’ha onorata con “la notte dei senza fissa dimora”, una notte all’aperto in piazza S.Stefano il 17 ottobre.
Io non mi entusiasmo troppo per “gli eventi”,per gli spettacoli (nemmeno per le adunate oceaniche…). Mi sembrano episodici,quasi che poi il giorno dopo il problema non ci sia più oppure sia solo “affar nostro”, di “delegati permanenti all’emarginazione”. Non voglio essere “il cerotto” per l’occasione. Certo è però che secondo la retorica dell’amministrazione ci sarebbero più posti letto contro “l’emergenza freddo” che domande. Figuriamoci! Se vai a vedere di 1660 posti annunciati, 1500 sono quelli stabili,già occupati tutto l’anno…
Qui c’è la prima questione da porre. L’Ente locale deve assumersi responsabilità, deve avere uno sguardo complessivo. La Legge 238 del 2000 prevede che l’Ente locale apra un tavolo col Terzo Settore, con il no-profit per discutere la Programmazione dei servizi.
Solo ora, al secondo biennio di Piani,il Comune di Milano,stimolato dalla Regione, chiama a un tavolo il Terzo Settore. Ma con incertezza e poca voglia di ascoltare.
Su 1100 parrocchie della Diocesi Ambrosiana (oltre a Milano,Lecco,Varese,Treviglio) abbiamo 800 Caritas,ma soprattutto abbiamo 260 Centri di ascolto che ogni settimana sono aperti ai problemi della povera gente (di tutti i colori e di tutte le religioni). I comuni si facciano aiutare dal terzo settore non per una sorta di pancooperativismo che punti a gestire tutti i servizi,ma prima di tutto per capire la domanda.
Seconda questione : la sicurezza è diventato un tema esplosivo. Un tema spesso “emotivo”, enfatizzato, che fa paura e paralizza. Mi è capitato ultimamente di occuparmi di Rom. Assicuro che non c’è niente di poetico e letterario. Però la risposta non può essere “la cultura dello sgombero”.
Persino questore e prefetto l’hanno detto: è inefficace ed antieconomica pure. Ci vuole integrazione,ma non è facile. Bisogna lavorare sull’educazione,sui giovani e conoscere la loro tradizione.
Luca Gadola racconta dell’esperienza di “tolleranza zero” in Canton Ticino (sassi nei campi dove si accampavano..):fallimentare. Esperienze positive sono state invece dove l’amministrazione svizzera ha cercato di facilitare il recupero di tradizionali attività artigiana.
Massimo Cingolati , a conferma dell’enfasi sulla sicurezza,dice che le assicurazioni (che basano le loro tariffe sulle statistiche e le probabilità di evento) riducono ogni anno le tariffe sui furti a milano,mentre aumentano in altre località.
Davanzo ricorda l’esempio coraggioso della Amministrazione di Rho che si è assunta la responsabilità di un campo per i Rom anche in presenza di un referendum contrario leghista.
Occorre creare una rete informale di solidarietà,di prossimità. Milano ha ancora tante risorse umane in questo senso. Non è tollerabile che nell’estate scorsa a Milano ci siano stati 29 anziani trovati morti in casa loro dopo diverso tempo (mentre nello stesso periodo nell’hinterland ci sono stati solo 2 casi simili). Lo stesso carcere non riesce nella sua teorica missione di rieducazione. Persone che escono dal carcere(o potrebbero uscire se…) non hanno casa, lavoro, nessuna rete relazionale che li aiuti. Ci sono stranieri “fragili”, ci sono sofferenti psichici, ci sono disabili destinati a rimanere soli (e i parenti si pongono il problema del “dopodinoi”).
Ci sono per fortuna esempi virtuosi. Condomini solidali,comuni che si mettono in rete e assumono responsabilità,tanta gente che cerca di lasciare meno sole le persone in questa città.
 

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MUNICIPALITA’ A MILANO: UNA NUOVA STAGIONE DI LOCALISMO DEMOCRATICO ?

September 29, 2015 By admin

Di Pier Vito Antoniazzi

A proposito di “riforma” delle municipalità milanesi nel quadro dell’istituzione dell’Area Metropolitana sul n.21 di arcipelagomilano Valentino Ballabio si domanda “Possibile che tra il fare male ed il fare nulla non ci sia una terza via possibile?”
In effetti le modifiche al decentramento amministrativo impostate dalla maggioranza di Palazzo Marino (con il coordinamento di Anna Scavuzzo e Andrea Fanzago), dopo una sostanziale stasi dei primi quattro anni di mandato amministrativo, appaiono parziali e non certo sufficienti a definire un orientamento chiaro sul futuro del wadecentramento istituzionale nel quadro di un coordinamento più efficace delle politiche urbane di un’area che non può piu essere delimitata ai confini municipali (…e per le quali vanno stretti persino i confini delle vecchie province).
Pur tuttavia, se il complesso percorso istituzionale (consultazione nelle zone, modifica dello Statuto municipale, modifica del regolamento comunale,…) riuscirà a produrre un risultato entro l’autunno, forse qualche spiraglio di ripresa di soggettività politica ci potrà essere.
Al di là del passaggio di alcune (poche) competenze e capitoli di bilancio alle municipalità, il punto nuovo della “riforma” è l’elezione diretta del Presidente delle municipalità.
Questo fatto (che per inciso sottrarrebbe in parte alla trattativa tra i partiti la nomina) potrebbe produrre una nuova soggettività dei quartieri e della loro rappresentanza politica.
In un recente incontro promosso da “la Fabbrichetta” su “Decentramento: ieri, oggi, domani” è emerso come nella sua genesi negli anni “60 il decentramento, senza un impalcatura istituzionale, senza personale, con sedi improvvisate, con i presidenti nominati dal sindaco (Aniasi)…contava ed era ascoltato più di oggi.
Semplicemente perché in una Milano piena di problemi determinati da una crescita enorme di popolazione, con una quantità di immigrati decuplicata rispetto alla tanto enfatizzata attuale “invasione di stranieri”, in una Milano in cui mancavano case, scuole,asili, strade, trasporti…i Comitati di quartiere esprimevano la domanda dei cittadini e la politica era “costretta” a cercare con loro le soluzioni.
Oggi i Consigli di Zona non si capisce se sono uno sportello reclami, se sono un centro di servizi (pochi) o se sono un’istituzione nella quale più che rappresentare i cittadini si rappresenta il gioco del parlamentino tra diverse forze politiche.
Eppure anche oggi, in un mondo globale e standardizzato, è a livello locale che si esprimono le esperienze di partecipazione politica. In assenza di grandi correnti e movimenti politici, molti praticano una “micropolitica” o quella che con buona dose di presunzione dai partiti viene chiamata “prepolitica”.
Chi crea una esperienza comune di autogestione di orti urbani, chi pratica la strada del “buon vecchio” don Milani aiutando i ragazzi in difficoltà scolastica, chi attraverso il distretto del commercio crea una rte di comunità che promuove coesione sociale, chi crea officine per insegnare a ripararsi le biciclette, chi promuove gruppi di acquisto solidale e organizza mercatini biologici a km zero….
E’ dal locale che nascono esperienze originali di risposta alla crisi e in nuce nuovi paradigmi del vivere oggi la città.
Ed è nei quartieri (non nelle zone che sono una astrazione calata dall’alto) che si sviluppa ,se non una “identità” almeno uno spirito di gruppo volto ad una migliore qualità sociale ed ecologica del vivere.
Può questo “localismo democratico” divenire un movimento che ridà fiato alla partecipazione ed al decentramento istituzionale?
Forse l’elezione diretta di un Presidente chiama in causa queste forze vive della cittadinanza.
Forse una selezione che passi da primarie zonali e di quartiere può riaprire un dibattito.
Municipalità come rappresentanza diretta e piu vicina ai cittadini, come promozione e coordinamento della cittadinanza attiva dei quartieri, come soggetto della costruzione di un’area metropolitana più vivibile e coesa.
Tutto questo se la politica avrà “battuto un colpo” senza impaludarsi nelle resistenze di chi difende piccolissime rendite di posizione.
E tutto questo se qualcuno vorrà crederci e correre il rischio, poiché nulla è scontato, le strade nuove sono piene di imprevisti e soggettività e intelligenza politica sono erbe rare di questi tempi.

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