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La Fabbrichetta

laboratorio politico aperto

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CENTRI URBANI E SICUREZZA

September 30, 2015 By admin

Incontro a La Fabbrichetta con Roberto Cornelli, Sindaco di Cormano – 19 aprile 2007
 
Pier Vito Antoniazzi: Cornelli è un personaggio interessante per noi… E’ giovane (compie 33 anni a giugno), dal 2004 è sindaco di Cormano (città di prima fascia dell’hinterland milanese), è criminologo, studioso e docente nell’Università di Milano-Bicocca di sicurezza urbana e criminalità…
Roberto Cornelli: Il problema della sicurezza “esplode” in Italia a metà degli anni ’90, con qualche anno di ritardo rispetto ad altri Paesi europei. Dopo una stagione in cui la criminalità organizzata e il terrorismo interno avevano catalizzato le attenzioni e le preoccupazioni dei politici e dell’opinione pubblica, ondate di panico morale investono le aree urbane strutturando sentimenti di paura e di esasperazione per la micro-criminalità, per il disordine urbano e per le inciviltà. Sono soprattutto i fatti di criminalità comune, come i furti in appartamento, gli scippi e le rapine, ad alimentare le campagne “informative” dei mass-media e le insicurezze delle persone.
Sono gli stranieri extracomunitari i principali bersagli del sentimento di intolleranza che si diffonde rapidamente e che porta nelle piazze migliaia di persone in fiaccolate contro la microcriminalità e l’immigrazione.
La “protesta civile”, resa più acuta dalla sfiducia verso il sistema politico colpito duramente dalle indagini giudiziarie di Mani Pulite, s’indirizza verso i Sindaci, in quanto referenti istituzionali più prossimi ai cittadini, anche grazie alla legge che nel 1993 ha introdotto la loro elezione diretta. Mentre al Governo nazionale si chiede una politica di “legge e ordine”, vale a dire di inasprimento delle pene e di stanziamento di risorse per mettere le forze di polizia nelle condizioni di controllare il territorio e contrastare i fenomeni devianti e criminali, ai governi locali si chiede di intervenire nelle numerose situazioni di disagio, di precarietà, di conflitto e di insicurezza che affollano la vita delle persone nelle città, e che vengono espresse attraverso una generica e indistinta domanda di sicurezza.
L’ allarme sociale per la criminalità non è un fenomeno nuovo in Italia: il biennio 1974-75 fu caratterizzato da un’intensa campagna di opinione sulla drammaticità e la diffusione del fenomeno criminale, unita alla richiesta di maggiore fermezza rispetto a fenomeni criminali emergenti, quali terrorismo e criminalità organizzata. E sicuramente è un tratto caratteristico di tutti i Paesi Occidentali. Stati Uniti in testa: negli anni Sessanta il Presidente Jonshon, Democratico, indicò nel 1966 la paura della criminalità come il più diffuso tra i “costi” che la criminalità infligge ai cittadini e, dunque, il problema principale da affrontare in un programma governativo centrato sulla “guerra al crimine”. Fu la prima volta che il termine fear of crime (paura della criminalità) entrava in un discorso presidenziale: gli eventi ( tra cui le rivolte dei ghetti neri, il clima di sfiducia nel sistema penale, le preoccupazioni dei ceti medi) stavano conducendo un Presidente Democratico fortemente impegnato nell’attuazione di un programma keynesiano di riforme sociali in direzione fortemente socialdemocratica a promulgare – dopo passaggi congressuali molto difficili – una legge, il The Omnibus Crime Control and Safe Streets Act, limitativa delle libertà e delle garanzie processuali. Da quel momento in poi, con l’avvento di Nixon e dopo un decennio di Reagan, la paura diventa un elemento sempre presente in ogni discorso elettorale o presidenziale riguardante la giustizia penale, la criminalità e lo stato sociale e attorno a cui elaborare politiche penali.
In Italia, i Governi di centro-sinistra a partire dal 1996 si sono trovati a gestire l’esplosione dell’allarme sociale per la criminalità e l’immigrazione, probabilmente senza esserne preparati trattandosi di un tratto nuovo della sensibilità diffusa e della politica.
E hanno reagito con misure, come il “pacchetto sicurezza” del 2001 del Governo D’Alema, che ha avuto più la funzione di affermare una volontà di governare politicamente il fenomeno della criminalità (giustizia simbolica o espressiva) più che un’efficacia nel governarlo effettivamente.
Nel pacchetto sono state previste – secondo le parole dell’allora Ministro della Giustizia on. Piero Fassino – “misure che assicurano maggiore certezza della pena, accelerazione dei processi, ampliamento dei poteri di indagine della polizia, inasprimento della severità per reati che destano forte allarme sociale”.
Questa linea repressiva, che intende rassicurare le persone attraverso l’aumento delle pene, dei comportamenti punibili (penalizzazione) e l’incremento dell’organico delle forse di polizia, non tenne conto delle riflessioni e delle politiche adottate a livello locale, ad esempio nell’ambito del progetto della Regione Emilia-Romagna o del Forum Italiano sulla Sicurezza Urabana, o dalle associazioni tematiche di partito, come l’associaizone VivereSicuri dei DS. Questa linea repressiva non tenne, e non tiene tuttora, conto dei risultati della ricerca criminologica che sull’analisi delle tendenze criminali e sul tema della “deterrenza” ha un sapere ormai consolidato e fruibile anche dalla politica.
Un approfondimento breve per parlare di un aspetto specifico e limitato relativo all’efficacia: se si pensa che circa la metà dei reati commessi in Italia ogni anno (tot. reati denunciati nel 2004 in Italia: 2 milioni e 970 mila circa) è un furto, e che circa il 95% dei furti sono di autore ignoto, si comprende come l’aumento delle pene non abbia un effetto così deterrente per la commissione di furti. E non è un problema tanto di certezza della pena, perché per per quel 5% circa di furti con autore noto, le sentenze di condanna arrivano: subiscono una pena detentiva il 65% di coloro che sono stati imputati di un furto (sono tutte elaborazioni su dati Istat). E molto spesso sono persone che ormai non note al sistema penale, riconoscibili e quindi più facilmente arrestate: spesso entrano in carcere sempre gli stessi, perché i più facili da prendere.
La politica reagisce all’allarme criminalità spesso semplificando – la semplificazione è, d’altra parte, una necessità della politica, che si scontra in questo caso con l’efficacia delle misure messe in campo – e dando l’idea che ci sia maggiore “controllo”.
Il governo nazionale tende a riaffermare la centralità della “risposta penale” per rassicurare i cittadini, secondo l’assunto classico – debole nei fatti – che aumentando le pene, aumenti la deterrenza e diminuisca la criminalità. Il risultato è, invece, una delega al sistema penale, sempre più collassato e che non produce giustizia per molti motivi, ma anche perché viene investito, senza criteri di priorità, di una quantità enorme di fatti.
La protesta civile dalla politica nazionale si sposta sulla giustizia, per poi tornare, con maggior vigore e maggiore sfiducia, alla politica, non in grado di assicurare alla giustizia (e alla polizia soprattutto) di funzionare bene. E le insicurezze si alimentano della sfiducia derivante da questa promessa mancata.
Ma lo Stato non è più centrale nelle strategie di rassicurazione adottate dai cittadini.
Tre tendenze caratterizzano questi anni:
1) La privatizzazione o commercializzazione della sicurezza (in USA anche delle carceri oltre che della polizia). A Singapore, ad esempio, ci sono due agenti di polizia privata ogni agente di polizia pubblica; negli Stati Uniti il rapporto tra polizia pubblica e polizia privata è di 1 a 3. In Italia nel 2001 siamo arrivati a 1 poliziotto privato ogni 6 pubblici.
2) Dallo stato alla “comunità”. Oggi si chiede sicurezza al Sindaco. Persino nei comuni più piccoli oggi si va più dal sindaco che dai carabinieri per segnalare problemi di sicurezza.
3) Ricorso a misure extralegali legate alla prevenzione situazionale o comunitaria. Esempio le ronde, le recinzioni, le telecamere. Spesso senza considerarne attentaemente l’uso, la funzionalità e l’efficacia. Facendo un passo indietro e analizzando le tendenze della criminalità a partire dal Secondo Dopoguerra notiamo un forte aumento dei reati denunciati tra il ’70 ed il ’75, non paragonabile per importanza (un vero e proprio salto) a quello degli inizi degli anni Novanta. Perché allora “l’allarme sociale” è venuto 20 anni dopo?
La “paura della criminalità” entra nel dibattito pubblico italiano a metà degli anni Novanta in un periodo di “crisi drammatica e profonda”.
Provo a elencare solamente per titoli alcuni dei fenomeni che penso abbiano accompagnato l’insorgere della paura della criminalità come tema politico:
– fine del bipolarismo Est-Ovest e crisi dei partiti ‘ sfiducia nel sistema di rappresentanza
– fine del bipolarismo Est-Ovest e crisi economica ‘ sfiducia nella capacità di governo dell’economica
– immigrazione e la difficile co-abitazione con lo straniero
– “Mani pulite” e questione morale ‘ sfiducia nella politica
– Mass-media: la scoperta della vittima come risorsa comunicativa.

Interventi di Gadola, Gori, Antoniazzi, Meroni,Crapanzano:
-Un giornale ha scritto che a Milano si droga 1 su 3. Ci sarà ben un mercato vasto…
-Com’è la situazione ad Amsterdam che ha legalizzato le droghe leggere e che ha i quartieri a luci rosse ?
-Ho letto “Gomorra”. L’esercito della camorra è fatto di quindicenni…
-La sinistra è subalterna, anche nel linguaggio,pensiamo a “tolleranza zero” per esempio. Cornelli: “Tolleranza zero” fu coniato da alcune femministe canadesi in una campagna contro le violenze sessuali. Hobbes diceva che la paura è all’origine dello Stato moderno: la paura di ciascuno verso ogni altro spinge gli uomini a rinunciare alla propria libertà delegando allo Stato la funzione di protezione e di sicurezza. Oggi sembra essere un problema di equilibrio e prospettiva: in uno stato democratico dobbiamo cercare di garantire sicurezza costruendo risposte di civiltà, di convivenza, dirette alla creazione di una società aperta.
 

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MILANO CHIAMA L’ASSICURATORE

September 30, 2015 By admin

Francesco Bizzotto
Già Ufficio Studi FIBA CISL

Da alcuni anni alcune persone di diversa estrazione, ma accomunate dalla passione politica e dall’esperienza assicurativa, hanno messo a disposizione le loro competenze, dando vita all’Ulivo delle Assicurazioni.
Il riscontro purtroppo non è stato positivo: i partiti sono refrattari a recepire competenze che non possano essere strumentalizzate e quindi non hanno dato la sponda che ci si aspettava.
Quella delle competenze è la questione della società civile, nel senso che una società civile organizzata pone la questione della rappresentanza in modo alternativo rispetto a quello proposto dai partiti.
Nella professione assicurativa ci sono ampie riserve di competenza, benché poco conosciute tanto a destra che a sinistra, a causa di una scarsa considerazione in cui la politica tiene la cultura d’impresa in generale e quella del rischio in particolare.

Il settore assicurativo ha una ricca produzione di cultura aziendale, ad esempio nel CINEAS “Consorzio Universitario per l’ingegneria nelle assicurazioni”, all’interno del quale Politecnico di Milano e industria assicurativa promuovono lo studio ingenieristico del rischio (risk engineering) con la tecnica propria della gestione degli eventi dannosi (loss adjusting). Il tutto arrivando anche alla produzione di corsi formativi per attività di servizio a tutto vantaggio della collettività, quali quelli di “Hospital Risk management”.
Il mondo assicurativo sta cercando in molti suoi settori di abbandonare l’autoreferenzialità ancorata al passato nella misurazioni dei rischi, che è entrata in crisi.

Da esperienze innovative di questo genere possono venire dei suggerimenti per l’amministrazione cittadina, che sia di stimolo per un nuovo approccio comune fra compagnie e cittadini ai problemi legati alla copertura dei rischi. In questo senso molto interessante sarebbe l’idea che il comune spinga le compagnie a proporre nell’area metropolitana forme di copertura veramente ampia (cosiddetta all risk), che non si basi sul tradizionale rimpallo fra garanzie ed esclusioni, ma copra per intero una categoria di rischi. Se si prova ad applicare questo approccio alle polizze dei condomini, si ha un’idea immediata di quale ritorno possa esserci per i cittadini intermini di maggiore sicurezza. Infatti insieme amministrazione e cittadini investirebbero in una iniziativa di lungo periodo, volta all’equilibrio ed alla stabilità di un importante settore della vita cittadina, tale da favorire il controllo di una serie non trascurabile di rischi.

Oltre che per progetti particolari come questo, gli assicuratori cittadini, che sono molti ed importanti non solo all’interno della categoria, potrebbero essere chiamati dalla nuova amministrazione a partecipare ad un tavolo nel quale far convergere la ricerca di soluzioni a problemi di ordine generale della città.
Il traffico ed i suoi legami con la copertura assicurativa per antonomasia, quella di RC auto, ma anche i temi dell’autosufficienza, che possono vedere un approccio multidisciplinare fra volontariato, istituzioni e privati, limando gli sprechi dovuti alla cronica duplicazione di interventi, ed arrivando fino quasi a fornire uno sportello unico delle soluzioni a questo grave problema tipico della città che invecchia.
Il mondo assicurativo ha in sé competenze e cultura che possono permettergli di essere utilmente messo se non al servizio, quanto meno in sintonia con una nuova politica di una nuova amministrazione cittadina.

Dobbiamo capire cosa può fare l’amministrazione per ridurre veramente i rischi dei cittadini, all’interno di una politica vera dell’emergenza. Probabilmente il primo compito dell’amministrazione è quello di prevenire ed informare: cercare di prevenire le situazioni di rischio, e nel contempo dare il massimo di informazione e trasparenza su questi temi.

Nell’economia nazionale la componente assicurativa milanese ha un peso molto rilevante, che non ha un adeguato ritorno verso la città. A Milano vengono sottoscritti, a seconda delle valutazioni, fra il 20 ed il 27% dei contratti di assicurazione che annualmente si accendono in Italia. Cosa resta di questo a Milano: sempre meno in termini occupazionali, benché non sia ancora cominciata una vera delocalizzazione, ma soprattutto molto poco sul piano sociale.

C’è anche una visione meno ottimistica del mondo assicurativo, che è sempre più improntato alla logica del breve periodo ed all’assorbimento nella logica finanziaria di quella che dovrebbe essere un’industria di servizi. Esistono dubbi che effettivamente azionisti e manager vogliano e possano impegnarsi in iniziative che non rientrino nella loro visione di immediato ritorno di utilità.
 
Nota per La Fabbrichetta di Francesco Bizzotto
 
Il mercato. Premi incassati ogni anno in Italia: 100 miliardi di euro (65 Vita, 18 RCA e 17 altri rami Danni). Per il 12,5% (Vita), 11,1% (Danni) e 7,3% (RCA) in provincia di Milano.
Riserve e investimenti per 500 miliardi.
 
Tipico servizio della Società, con la sua mediazione ha reso possibile l’iniziativa individuale (che esplora la possibilità, rischia). Non si contrappone ma aggiunge valore alle Comunità.
 
Le domande. Quale servizio è in campo a Milano? Quali innovazioni sono mature, necessarie? Cosa ritorna alla città in termini di investimenti? È possibile un dialogo che apra allo sviluppo e associ l’assicuratore, soggetto di Welfare e investitore istituzionale di equilibrio (il suo 1° interesse)?
 
Sì. Su tre terreni in particolare Milano chiama l’assicuratore a crescere e innovare:
Aiutare di più le nostre IMPRESE che competono nel mondo: con polizze All Risks e con informazioni sistematiche sui rischi specifici (in Usa l’80% degli assicuratori promuove servizi di completa gestione dei rischi; in Inghilterra il 30%; in Italia il 6%).
Definire una nuova polizza SALUTE per la FAMIGLIA, che consenta di scegliere differenze di prestazioni nel pubblico (solventi): per personalizzare la cura, premiare le eccellenze mediche e far affluire risorse agli ospedali. Una polizza che preveda e incentivi percorsi di Prevenzione.
Ripensare la RCA. Il sistema di Indennizzo diretto è buona occasione per: assicurare la Patente e legare la dinamica del premio al comportamento di guida (il vero rischio) anziché al sinistro (il caso); investire in Prevenzione (Francia); Assistere nel sinistro (intervento immediato).
VIVIBILITA’. L’assicuratore ha un preciso interesse alla salute dell’uomo e dell’ambiente. È l’attore di mercato per eccellenza di questi equilibri. Come coinvolgerlo? Ascoltarlo, parlarne!

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POVERI EQUILIBRISTI -Sintesi dell’incontro con don Roberto Davanzo, Direttore della Caritas Ambrosiana, a LA FABBRICHETTA di via Pepe 38- Mercoledì 19 ottobre 2005

September 30, 2015 By admin

P.Vito Antoniazzi presenta don Davanzo. Assistente regionale dei boy-scout’s,poi parroco alla Fontana e da 10 mesi Direttore Caritas,un osservatorio “privilegiato” rispetto alle povertà, ai problemi della città…
“10 mesi sono pochi per una realtà come questa-attacca don Davanzo- sto imparando…Persino la “giornata mondiale della povertà”,inventata da un prete e fatta propria dall’ONU,mi era sconosciuta. Del resto in Italia non molti la celebrano. C’è “Terre di Mezzo” una delle realtà che lavora con gli homeless (un’altra che promuoviamo noi è “Scarp de tennis” con l’idea di tenere viva un’attenzione culturale e di dare insieme lavoro a questo popolo fragile) che l’ha onorata con “la notte dei senza fissa dimora”, una notte all’aperto in piazza S.Stefano il 17 ottobre.
Io non mi entusiasmo troppo per “gli eventi”,per gli spettacoli (nemmeno per le adunate oceaniche…). Mi sembrano episodici,quasi che poi il giorno dopo il problema non ci sia più oppure sia solo “affar nostro”, di “delegati permanenti all’emarginazione”. Non voglio essere “il cerotto” per l’occasione. Certo è però che secondo la retorica dell’amministrazione ci sarebbero più posti letto contro “l’emergenza freddo” che domande. Figuriamoci! Se vai a vedere di 1660 posti annunciati, 1500 sono quelli stabili,già occupati tutto l’anno…
Qui c’è la prima questione da porre. L’Ente locale deve assumersi responsabilità, deve avere uno sguardo complessivo. La Legge 238 del 2000 prevede che l’Ente locale apra un tavolo col Terzo Settore, con il no-profit per discutere la Programmazione dei servizi.
Solo ora, al secondo biennio di Piani,il Comune di Milano,stimolato dalla Regione, chiama a un tavolo il Terzo Settore. Ma con incertezza e poca voglia di ascoltare.
Su 1100 parrocchie della Diocesi Ambrosiana (oltre a Milano,Lecco,Varese,Treviglio) abbiamo 800 Caritas,ma soprattutto abbiamo 260 Centri di ascolto che ogni settimana sono aperti ai problemi della povera gente (di tutti i colori e di tutte le religioni). I comuni si facciano aiutare dal terzo settore non per una sorta di pancooperativismo che punti a gestire tutti i servizi,ma prima di tutto per capire la domanda.
Seconda questione : la sicurezza è diventato un tema esplosivo. Un tema spesso “emotivo”, enfatizzato, che fa paura e paralizza. Mi è capitato ultimamente di occuparmi di Rom. Assicuro che non c’è niente di poetico e letterario. Però la risposta non può essere “la cultura dello sgombero”.
Persino questore e prefetto l’hanno detto: è inefficace ed antieconomica pure. Ci vuole integrazione,ma non è facile. Bisogna lavorare sull’educazione,sui giovani e conoscere la loro tradizione.
Luca Gadola racconta dell’esperienza di “tolleranza zero” in Canton Ticino (sassi nei campi dove si accampavano..):fallimentare. Esperienze positive sono state invece dove l’amministrazione svizzera ha cercato di facilitare il recupero di tradizionali attività artigiana.
Massimo Cingolati , a conferma dell’enfasi sulla sicurezza,dice che le assicurazioni (che basano le loro tariffe sulle statistiche e le probabilità di evento) riducono ogni anno le tariffe sui furti a milano,mentre aumentano in altre località.
Davanzo ricorda l’esempio coraggioso della Amministrazione di Rho che si è assunta la responsabilità di un campo per i Rom anche in presenza di un referendum contrario leghista.
Occorre creare una rete informale di solidarietà,di prossimità. Milano ha ancora tante risorse umane in questo senso. Non è tollerabile che nell’estate scorsa a Milano ci siano stati 29 anziani trovati morti in casa loro dopo diverso tempo (mentre nello stesso periodo nell’hinterland ci sono stati solo 2 casi simili). Lo stesso carcere non riesce nella sua teorica missione di rieducazione. Persone che escono dal carcere(o potrebbero uscire se…) non hanno casa, lavoro, nessuna rete relazionale che li aiuti. Ci sono stranieri “fragili”, ci sono sofferenti psichici, ci sono disabili destinati a rimanere soli (e i parenti si pongono il problema del “dopodinoi”).
Ci sono per fortuna esempi virtuosi. Condomini solidali,comuni che si mettono in rete e assumono responsabilità,tanta gente che cerca di lasciare meno sole le persone in questa città.
 

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“STRADE NUOVE NELL’URBANISTICA MILANESE”

September 30, 2015 By admin

Incontro con il prof. Alessandro Balducci,
Direttore del Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano.
 
Se quella della Fabbrichetta è almeno in parte la scommessa generazionale sulla possibilità di ritrovare una sintesi tra competenza tecnica e passione politica che ha costituito per esempio la forza di quel “socialismo municipale” milanese di inizio secolo che così tanto ha caratterizzato le istituzioni locali, Alessandro Balducci è tra i più qualificati ad intervenire. Non solo per il suo brillante percorso professionale, ma per la lunga e coerente attività pubblica, dagli esordi con la tesi di laurea sui primi passi di Berlusconi (pubblicata dalle Acli “Dal Parco Sud al cemento armato”), alla sua esperienza come giovanissimo consigliere comunale di San Donato, alla sua presenza nei momenti di forte partecipazione alle scelte urbanistiche in diverse aree cittadine.
In effetti senza risalire toppo indietro nel tempo, alcune recenti esperienze alimentano la mia relazione:
– la redazione del Libro Bianco sulla casa per il Prefetto di Milano
– lo studio di fattibilità per il Fondo Sociale Immobiliare della Cariplo
– il Progetto per il Villaggio Urbano alla Barona
– i Contratti di Quartiere per il Comune di Milano
– il progetto Città Sane

Il problema della casa ha tali caratteri di drammaticità da rivestire un ruolo centrale nella vita cittadina, ma è praticamente scomparso dalle agende politiche. In parte per la scomparsa dei partiti stessi, ma anche per il mutamento cittadino che ha realizzato di fatto l’espulsione dalle città delle categorie che esprimevano tradizionalmente il bisogno della casa.
Per verificare questo mutamento è sufficiente confrontare una fotografia aerea di Milano oggi con quella di trent’anni fa, e verificare come dall’esistenza evidente di una città costituita da centro e periferia, si è passati a quella nebulosa di cui già ci ha parlato Stefano Boeri in un suo precedente intervento. In questo passaggio si è verificato lo spostamento non solo da Milano, ma dalla Provincia di Milano, a vantaggio di Bergamo, Lodi, Lecco, tutte Province limitrofe, che hanno aumenti di popolazione nell’ordine del 10 % negli ultimi vent’anni. Questo il motivo quantitativo per cui il problema della casa non si concretizza a Milano in una domanda politica significativa.
Ma c’è anche un aspetto qualitativo, perché la domanda si è fatta più articolata, inglobando accanto all’evoluzione delle forme tradizionali della domanda abitativa, anche forme nuove di disagio.
Anzitutto si registra un fenomeno di rischio, una vulnerabilità nuova che colpisce fasce ampie del ceto medio, che per evitare nuove forme di strozzamento economico, devono assolutamente farsi ascoltare dalla città. Ci sono poi, con una grande varietà di casistica, forme di disagio rispetto all’accesso all’alloggio e vere e proprie forme di esclusione per i casi più marcati e duri, come quelli degli immigrati, delle tossicodipendenze.
Di fatto i numeri dicono che in pochi anni a Milano si è passati dal 50% delle case in affitto a solo il 20% , che si compone di un 5% di forme di affitto dalla mano pubblica, che si trasformano per la loro durata e resistenza in forme di quasi proprietà, e di un 15% che si ricicla sul mercato, ma solo per una fascia particolare, caratterizzata dall’ampia disponibilità di spesa e dal prezzo altissimo.
A fronte di questo cambiamento epocale, la totale disattenzione della politica cittadina, che nei tre bandi dal 1997 ha ricevuto 17.000 domande nel 1997, 12.000 nel 1999, ed ancora nel 2003 di fronte a 9.000 sfratti per morosità e 2.000 per finita locazione, ha offerto 495 nuovi alloggi comunali di edilizia sociale e 1.300 assegnazioni di case popolari. Le assegnazioni finiscono per testimoniare lo stato di difficoltà, perché le poche case che si liberano finiscono per essere assegnate alle persone che sono portatrici di gravi situazioni di disagio, quali la presenza di malati lungo degenti o portatori di handicap
Il patrimonio complessivo ammonta a 42.000 alloggi ALER e 20.000 del Comune di Milano, all’interno dei quali la popolazione ha un invecchiamento anche superiore alla già alta media cittadina, cui si aggiungono i problemi dati dall’abusivismo, nell’impossibilità per l’ALER di fare controlli. I motivi stanno in una scarsa efficienza storica dell’ente, visto che altre realtà analoghe in Lombardia, per tutte Brescia, funzionano relativamente bene.
Il cambiamento della città che si accompagna non è governato con gli strumenti esistenti, quali il Piano Regionale per l’Edilizia Pubblica o il Piano di riutilizzo dei Fondi Gescal, che risale al Ministro Nesi alla fine degli anni novanta. Infatti se con questi strumenti si sono potuti attivare alcuni fenomeni virtuosi, come alcuni bandi, i contratti di quartiere, è certo che la situazione complessivamente presenta troppe lacune. Ad esempio solo il piano Lombardo prevede un fabbisogno di 60.000 case, per le quali gli unici interventi sono dei programmi di facilitazione dell’accesso al mutuo.
In definitiva la rilocalizzazione della popolazione trasferisce costi enormi, senza dare benefici corrispondenti. Infatti il differenziale fra prezzo pagato per l’abitazione fuori città finisce per essere largamente compensato dai costi evidenti (trasporto) e da costi occulti, primi fra i quali il tempo e la qualità della vita. Si è creato un modello dissipativo di risorse, difficilmente controllabile. Certo non si può dire che si tratti di un fenomeno che non abbia alcuni aspetti positivi, soprattutto in prospettiva, ma al momento prevalgono le criticità.

A fianco della trasformazione del problema della casa, sta la trasformazione del vivere la città, in particolare in relazione ai quartieri cittadini.
Secondo alcune ricerche di Ilvo Diamanti sulla sicurezza, nell’attesa di sicurezza da parte delle popolazioni del nord Italia, cresce la parte riservata alle relazioni di tipo individualistico (famiglia – lavoro) a scapito dell’attesa di risposte provenienti dalle relazioni sociali ed istituzionali.
Ne sono esempi evidenti le situazioni che si creano in molti quartieri dell’area metropolitana di Milano. Uno per tutti un quartiere urbanisticamente bello e ricco di verde pubblico come il Sant’Amborgio a Milano, che vede una forte difficoltà nella vita di tutti i giorni, fra una popolazione invecchiata e la difficoltà dei giovani e giovanissimi di vivere normalmente in situazioni di degrado sociale e di insicurezza.
Milano è stato sempre storicamente una città di quartieri, che davano un senso di identificazione molto forte, accompagnando realmente tutta la vita dei cittadini. Oggi nei quartieri si sono anzitutto svuotati quei meccanismi intergenerazionali a cui si dovevano molti fenomeni di appartenenza. Anzitutto nei quartieri la mobilità è molto bassa, sino ad assistere a fenomeni di invecchiamento collettivo di interi quartieri che si erano popolati inizialmente di famiglie estremamente omogenee. Si è quindi assistito alla trasformazione dei circoli scolastici in comprensori, alla riduzione del numero dei Consigli di Zona e delle sedi ASL, e così la ridotta capacità economica della macchina comunale ha allontanato ed in molti casi del tutto eliminato la presenza ed il supporto del settore pubblico.
La crisi del modello del quartiere è diventata quasi irreversibile per questi fenomeni di eliminazione dei servizi di prossimità, proprio mentre invece si è data grande eco ad aspetti repressivi della risposta al bisogno di sicurezza, quali il vigile di quartiere e la polizia di quartiere.
Come per la casa, anche per i quartieri è importante distinguere le aree di intervento: per la casa il rilancio dell’affitto per dare nuova sicurezza ed aspettativa di vita migliore, e riduzione del disagio sociale, per il quartiere la valorizzazione di aspetti apparentemente esteriori diventa valorizzazione della vita civile e recupero di spazi di vivibilità altrimenti non riconquistabili. E’ essenziale non continuare a ripetere gli errori del passato, come si è fatto ancora una volta al quartiere Sant’Ambrogio, dove gli spazi commerciali sono stati vandalizzati e ripristinati più volte, ma senza mai pensare un intervento che li mettesse al riparo dai vandali rendendoli vivi e funzionanti. Avrebbe sempre senso un piano di recupero ed inserimento di dimensioni poli funzionali, non come fatto a Ponte Lambro nel progetto di Renzo Piano.

Per chi osserva anche la realtà internazionale è evidente che una delle nostre particolarità sta ad esempio nell’incapacità di mettere d’accordo diverse istanze istituzionali e nella perdita da parte della politica della capacità di mediare fra interessi e bisogni. Un esempio concreto: a Madrid ad Atocha la municipalità ha realizzato un nuovo polo dei trasporti eliminando le orrende e intasate sopraelevate, ed integrando nella nuova sistemazione anche un polo di edilizia residenziale ed il Museo Reina Sofia. A Milano in questo momento, nella nuova area della Fiera a Rho, assistiamo alla realizzazione di due stazioni dell’Alta velocità e della Metropolitana, distinte e lontane fra loro oltre 1 km. La politica dovrebbe recuperare la capacità di coordinamento degli interventi, che sono sempre più monolaterali, nel senso che hanno un solo protagonista, proprio per la sopravvenuta impossibilità di trovare accordi fra diversi interessi. In questo modo si perdono gradi opportunità.

Un esempio di uso mirato delle risorse è dato dai contratti di quartiere, un istituto che per chi lo ha voluto e vissuto è rapidamente passato dalla fase iniziale delle minacce a quella del giubilo popolare per le realizzazioni, come nel caso di Cinisello Balsamo.
I contratti di quartiere a Milano si sono concretizzati in un finanziamento di 220 milioni di € sui cinque quartieri a proprietà pubblica, con il fine di evitare che una volta finanziato l’intervento, il Comune ne abbandoni il controllo in senso sociale e non strettamente contabile.
Per fare questo si sono programmati interventi articolati di:
– inserimento di attività economiche
– rifacimento di alcune tipologie di appartamenti ormai obsolete
– inserimento di progetti sociali
– riqualificazione del verde
– partecipazione dei cittadini alle scelte ed alle realizzazioni

Questa tiplogia di intervento nasce dai programmi Urban della UE, che partono dal presupposto che senza dare agli abitanti un senso di appartenenza, non si riesce a cambiare lo stato di degrado delle città. La dimensione contrattuale per il coinvolgimento degli abitanti sarebbe un requisito necessario nei bandi di concorso.
Un comitato di sorveglianza coordina gli interventi ed arriva anche a gestirne la realizzazione. Gli interventi possono essere i più diversi, ed andare dalla trasformazione di spazi pubblici inutilizzati in spazi di servizio, all’affidamento a cooperative di giovani dei servizi di trasloco interni al quartiere.
Il risultato viene raggiunto nella totale assenza della macchina comunale tradizionale, che non è minimamente coinvolta. Ad esempio a Milano benché quattro dei cinque quartieri interessati siano all’interno di una sola zona, il Consiglio di zona non solo non ha alcun ruolo nel contratto, ma non se ne è nemmeno interessato.

Se si cercasse una risposta in termini politici, c’è invece una connessione fra problemi della casa e problemi dei quartieri, perché costruendo una politica vera della casa si potrebbero affrontare anche i disagi dei quartieri. E vero che quella della casa non è una questione solo di livello cittadino, ma è anche vero che non ripetendo gli errori del passato (PRU) una migliore selezione degli interventi può consentire un utilizzo migliore delle risorse disponibili.
A dimostrazione e conclusione l’esempio del Fondo Sociale Immobiliare Cariplo, che pur restando nei limiti statutari delle proprie obbligazioni istituzionali, ha sostenuto progetti di edilizia sociale, garantendosi la possibilità di finanziare al 4% il capitale investito (al netto del costo dell’area). Posto che nel passato c’erano costruttori di nicchia capaci di ritagliarsi un ruolo ed una remunerazione proprio nella costruzione di edilizia sociale, questo dimostra che anche oggi è possibile operare in questa fascia con interventi che senza essere speculativi, siano economicamente sostenibili.

Il costo sociale della delocalizzazione in provincia potrebbe essere maggiormente evidenziato, per sottolineare i problemi ed i disagi sociali che questa comporta.

Assistiamo nel campo del valore delle aree edificabili e già edificate, ad un rafforzamento della rendita di posizione per chi possiede aree cittadine, o ne ha fatto scambi con aree semi centrali, ottenendo in cambio vantaggi urbanistici. La rendita su questo tipo di area ha assunto dimensioni oggi imponenti., che erano inimmaginabili sino a pochi anni fa.

Rispetto all’eccesso di terziario e davanti ai vecchi interventi degli anni ’80 sulle aree dimesse, sarebbe anche interessante valutare la possibilità di recuperare a fini abitativi molti immobili deserti. Questo non ostante la valutazione di Alessandro Balducci sulla sostanziale certa anti economicità di questo tipo di interventi (riconversione diretta da uffici ad abitazioni).

Anche gli investitori istituzionali privati come banche ed assicurazioni hanno abbandonato il loro patrimonio immobiliare, dimesso con forme selvagge che hanno premiato solo alcuni più fortunati. Infatti quelli fra gli inquilini che potevano rispondere ad offerte sostenibili, hanno acquistato, gli altri sono stati espulsi dalla speculazione successiva. E’ un segno della dimensione economica del problema della casa.

Permane una visione pessimistica sullo sviluppo della città, al di là delle volontà politiche che sarà possibile esprimere. Infatti il seguito del fenomeno di delocalizzazione descritto, sta nella sopravvivenza in città solo di una fascia di cittadini ricchi insieme ad una fascia di sostanziali manutentori della città stessa, al servizio delle attività economiche ed espositive e degli abitanti ricchi. Il ceto medio viene inevitabilmente espulso da una città nella quale la qualità della vita tende allo zero. La volontà politica delle amministrazioni passate si è esaurita nella politica degli annunci, e non ha capito che la qualità della vita non sta nel sistema del global service ma nel coinvolgimento dei cittadini.

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MAURIZIO AMBROSINI Professore di “Sociologia dei processi migratori” presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Statale di Milano

September 30, 2015 By admin

 
Riprende l’attività della Fabbrichetta con l’incontro con Maurizio Ambrosini, dal titolo “Da braccia a persone, il nodo della cittadinanza” . L’argomento è importante perché “in prima pagina” da alcuni anni,per il suo sviluppo quantitativo, ma anche per i provvedimenti governativi allo studio e quindi per le innumerevoli polemiche scatenate.
Il nostro taglio vuole sempre essere milanese, con la voglia di fare proposte, e quindi chiediamo ai relatori di aiutarci a fare emergere qualche idea, perché le città hanno bisogno di progetti anche al di là dello schieramento politico.
Il tema della cittadinanza è in questo senso centrale, e su di esso vorremmo coinvolgere altre associazioni ed istituzioni, con la voglia di trasformare in politica i progetti culturali, creando consenso ed aggregazione.
Cercherò di accogliere l’invito a far scaturire idee,anche se per chi fa il mio mestiere spesso è più facile fare analisi che proposte, ma sulla base di quattro considerazioni di fondo, qualche proposta potrà alla fine essere fatta.

1) Da braccia a persone
il titolo del mio intervento è significativo di una cosa che nella nostra città oggi possiamo dire di avere capito, a differenza di 15 anni fa: gli immigrati sono “utili invasori”, malvisti, ma che svolgono un’attività positiva nella nostra società. La rappresentazione che ci facciamo del clandestino è quella di un maschio, arabo, impegnato in attività losche dopo essere arrivato da noi con il barcone. I veri irregolari però sono statisticamente perlopiù donne, arrivate in aereo con un permesso di soggiorno in genere turistico e rimaste a lavorare in gran parte nelle nostre famiglie.
Qualunque cifra venga fatta sul numero di questi irregolari è falsa, ed è meglio cercare degli indicatori: agli sportelli delle poste in occasione dell’ultima sanatoria si sono presentati in 500.000, mentre a Lampedusa in un anno sono sbarcate 16.000 persone.
A fronte di questo fenomeno, lo strumento fondamentale di politica dell’immigrazione è stato rappresentato dalle sanatorie, cinque in quindici anni, più il movimento generato dal decreto flussi che costituisce un altro tipo di sanatoria.
Questi immigrati sono desiderati ma non benvenuti, perché vanno bene per alcuni lavori, ma certamente non come vicini di casa, o potenziali mariti delle nostre figlie, benché si sia piuttosto
verificato in proposito un fenomeno di matrimoni di maschi italiani con donne straniere (70% dei matrimoni misti).

2) La repressione delle irregolarità
Su sbarchi e repressione fioriscono i luoghi comuni: anzitutto non è vero che basti volerlo per rimandare indietro quelli che vengono intercettati, perché le garanzie personali proprie del nostro ordinamento liberale, rendono difficile l’espulsione immediata ed automatica. Si può essere più rigidi, come avviene a Singapore o in Nigeria, o in Kuwait, ma si tratta di paesi che lasciano a desiderare sotto il profilo della tutela dei diritti umani. Le scorciatoie in nome dell’efficienza si pagano in termini di diritti, come si è visto in occasione del coinvolgimento della Libia, il cui sdoganamento dall’etichetta di stato canaglia si è accompagnato con la disattenzione umanitaria su quello che viene fatto in quel paese ai migranti.
In secondo luogo c’è un argomento molto terra – terra: reprimere le irregolarità con le espulsioni costa moltissimo in termini di uomini e mezzi, ed in definitiva soldi. Già allo stato attuale delle cose la Corte dei Conti ha rilevato che per ogni euro speso dal governo Berlusconi per integrare l’immigrazione, se ne sono spesi due per le espulsioni. Espellere di più vorrebbe dire peggiorare ancora questo rapporto.
In realtà nessun paese civile è andato oltre la soglia del 15% di espulsione di immigrati irregolari individuati. Anche perché i paesi di origine pongono difficoltà ad accettare i rimpatri (servono appositi accordi, e neppure quelli sono a costo zero), e perché il 50% degli irregolari individuati viene rilasciato perché non è possibile fare un’identificazione certa della nazione di origine o perché manca un accordo di riammissione. I soldi poi si spendono male, e in modo casuale: pochi mesi fa a Genova si è fatta una retata espellendo a casaccio qualche decina di lavoratori irregolari ecuadoriani solo perché c’era un charter disponibile. Le autorità spesso sanno dove stanno i piccoli malavitosi, italiani e stranieri. ma preferiscono per varie ragioni non colpirli, utilizzandoli anzi per alimentare il circuito informativo.
A cosa servono le politiche repressive ? Ad assolvere ad una funzione deterrente e a una simbolica: la prima è un monito verso gli immigrati, la seconda tende a rassicurare la pubblica opinione sul fatto che i governi difendono i confini. A queste due funzioni è difficile rinunciare, così come ad esempio non si rinuncerà ai CPT.

3) Cittadinanza e diritti
Quando è esploso il caso Padova, l’allora ministro Fini ha espresso la certezza che 5 anni per arrivare alla cittadinanza sono pochi. Non a caso a Padova la giunta (ulivista) ha alzato il muro, ignorando che se ci sono spacciatori immigrati ci sono clienti cittadini.
La questione della cittadinanza nazionale muove corde emotive profonde. Michael Walzer ricorda che nell’antica Atene la cittadinanza era limitata ai maschi liberi ateniesi, escludendo le donne, gli schiavi ed i meteci: lavoratori stranieri ammessi in quanto utili, ma non riconosciuti come concittadini. Oggi nelle nostre società stiamo riproducendo questa situazione, ovvero una forma di tirannia di una parte della popolazione che vive in un certo territorio (i cittadini nazionali), prendendo le decisioni che riguardano anche un’altra parte (gli immigrati residenti stabili).
Negli anni sessanta nelle nostre città gli umori diffusi erano analoghi a quelli di oggi, ma l’oggetto erano i meridionali. Questi malumori sono rimasti però a livello di senso comune, senza arrivare ai piani alti della politica, perché quelli erano cittadini e votavano.
Il tema delle cittadinanza è importante al di là dell’effettiva propensione al voto degli immigrati, perché responsabilizza le istituzioni e ridefinisce i termini della solidarietà nazionale. La nostra identità è di tipo tribale, basata sui vincoli di sangue e sul legame familiare (si può facilmente diventare italiani per matrimonio).
La legge che ha alzato a 10 anni il periodo di residenza necessario per ottenere la cittadinanza è del 1992, approvata con voto unanime delle forze politiche. E’ una legge di chiusura etnica della cittadinanza, che aggiunge ai molti anni i tempi lunghi ed incerti di esame delle richieste, tanto più che il 50% delle richieste vengono respinte. E’ istruttivo il fatto che in tutto il mondo già scricchiola l’impianto dei 5 anni, criterio seguito in USA Francia e Inghilterra, mentre in Canada sono solo 3 ed in Australia addirittura 2.

4) Religione e identità nazionale
Si tratta di un tema molto ampio, che ha caratteristiche proprie anche al di là della questione della migrazione.
Nell’America del diciannovesimo secolo certe categorie di immigrati erano considerate non assimilabili nella società del nuovo mondo per motivi religiosi. Erano i cattolici, sospettati di obbedire ad un’autorità religiosa straniera, il Papa, ed alla gerarchia ecclesiastica, ed erano osteggiati ufficialmente e anche con violenza anche da apposite associazioni, frequentate persino da personaggi illustri come Samuel Morse, l’inventore del telegrafo. Però i cattolici, e gli ebrei dopo di loro, hanno costruito le loro chiese, poi vicino alle chiese le scuole e infine gli ospedali. Così sono diventati cittadini, elaborando un’identità americana rispettosa delle loro radici religiose.
E’ una vecchia storia che ritorna: l’identità nazionale viene messa in questione dall’identità religiosa. E’ ancora un fatto etnico: le nazioni europee sono sorte sul legame suolo –lingua- sangue – religione. Oggi è più difficile capire cosa ci tiene insieme, e allora anche la religione rischia di tornare ad assumere una funzione etnica, come collante che ci unisce contrapponendoci ad altri.

Sulla base di queste quattro considerazioni di fondo, quali sono le possibili proposte sul piano operativo ? Manca un impegno serio contro le discriminazioni etniche e religiose, impegno che dovrebbe trovare spazio anche a livello locale. Serve un’authority o un’apposita agenzia che individui e persegua le discriminazioni ai vari livelli.
Gli stranieri da noi sono quelli che fanno i lavori delle cinque P: Pesanti – Pericolosi – Poco pagati – Precari – Penalizzati socialmente.
Questo fatto entra indisturbato nella normalità della nostra vita, producendo gli stereotipi sugli stranieri, per cui per esempio i filippini sono considerati adatti ad accudire la nostra casa ed i nostri figli. C’è però un aspetto pericoloso: il passaporto finisce per determinare le attitudini. Così per esempio i sikh vengono impropriamente etichettati come abili custodi di vacche, per ragioni religiose, mentre nulla hanno a che vedere con il culto della vacca sacra.
Con o senza agenzia dedicata, un impegno istituzionale servirebbe per promuovere il riconoscimento dei titoli di studio e delle competenze acquisite dagli immigrati: per es., traducendo la documentazione, verificando i programmi di studio, aprendo negoziati con università e ordini professionali
La questione del diritto di voto è importante anche a livello amministrativo. Forse si potrebbe fare una battaglia per dare a Milano il diritto di voto agli immigrati almeno nei Consigli di Zona, che sono per di più organi a carattere consultivo. Nel programma della zona 9 c’è l’ipotesi di una consulta interculturale per avere un organismo che riconosca la presenza di quel 10% di immigrati censiti in zona.
Questo faciliterebbe il superamento dello stereotipo e l’aumento del dialogo.

La lingua è uno strumento essenziale su cui lavorare, perché è uno strumento di integrazione a basso costo, accosta all’identità locale. Che cittadino può essere quello che non parla la lingua locale ?

Quali cittadini creiamo con l’esclusione ? Come è possibile rifiutare la cittadinanza ad un bambino che è nato in Italia o che ha fatto tutte le scuole in Italia ?

Abbiamo una cultura capace di accogliere ? Il linguaggio, l’approccio tradiscono una scarsa cultura dell’altro.

Le politiche dell’immigrazione dovrebbero tendere ad evitare che si costituiscano nuovi ghetti, che sono in sé pericolosi e radicalizzano il problema.

Sul tema del diritto di voto ci sono state fughe in avanti (proposta Fini), ma del tutto sterili; il problema si sgonfia se diminuisce il tempo necessario per ottenere la cittadinanza, altrimenti il diritto di voto può diventare un passaggio intermedio, prima di accedere alla piena cittadinanza

La questione della lingua è essenziale, e facilmente affrontabile: si potrebbe pensare a un test per i candidati all’ingresso, preferibile ai corsi di formazione professionale all’estero, che hanno un sapore vagamente coloniale (presuppongono che nel resto del mondo non ci siano scuole e università in grado di preparare le persone) Dovrebbe anche includere l’educazione civica, la stessa che si dovrebbe studiare nelle nostre scuole, Diverso, e orrendo, sarebbe un test volto a sondare i valori: quali sono i valori che possono essere definiti come nazionali ? La polemica sarebbe lunghissima.

Circa la questione della cultura dell’accoglienza dell’altro, è vero che assistiamo a pratiche quotidiane di esclusione, anche a livello istituzionale, ma dall’altra parte ci sono mille iniziative che servono ad aggirare le difficoltà dell’integrazione.
Una di esse si è vista proprio sulla questione dell’accoglimento dei figli di irregolari nelle scuole: dapprima qualche preside, poi qualche provveditore, infine una legge dello stato.
Le seconde generazioni dovrebbero avere maggiori diritti e invece anche nella Francia della cittadinanza “di suolo” sono stati fatti passi indietro, ma si è anche visto in occasione dei disordini nelle “banlieues” che la cittadinanza non è una bacchetta magica. Infatti i fermati erano quasi tutti cittadini francesi
A Milano un bambino su quattro nasce con almeno un genitore “straniero”, questo impone la ricerca di percorsi di contaminazione interculturale.
Circa la questione dei ghetti, l’esperienza francese ed americana dimostra che i ghetti si creano per la fuga dei cittadini bianchi di fronte all’insediamento dei neri o degli immigrati. Le politiche giuste devono essere volte a creare quartieri che abbiano diverse componenti. Oltre al ghetto spaziale, c’è quello occupazionale: se ci saranno immigrati medici, giornalisti, insegnanti,ecc. e non solo manovali, domestici,portinai,… i loro figli saranno più accettati come compagni di scuola dei nostri figli a pieno titolo.

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C’E’ QUALCOSA DI NUOVO NELL’ARIA L’inquinamento a Milano

September 30, 2015 By admin

Ennio Rota
Vice Presidente Legambiente Lombardia

La Fabbrichetta ha cercato nei suoi percorsi di analisi della realtà milanese, di evitare i luoghi comuni e gli argomenti troppo evidenti e dibattuti. Ma non è possibile esimersi da una valutazione dell’inquinamento dell’aria che respiriamo. Lo facciamo con un osservatore privilegiato, Ennio Rota, medico, dirigente della Regione Lombardia e vice presidente di Legambiente.
Partiamo dall’oggi: perché un’aria così brutta e perché in gennaio ? E’ ovvia l’osservazione che con il freddo tipico di questa stagione aumenta il ricorso al riscaldamento, e persino le auto sono meno efficienti, come chiunque può constatare controllando i propri consumi, e quindi consumano di più. La situazione meteorologica ha fattori anche più sottili: fa più freddo al livello del mare, mentre in quota la temperatura è più alta. Basta una differenza di 1° sopra le nostre teste per rendere difficile il ricambio dell’aria, e quando la quota di inversione termica è più bassa l’aria fredda resta schiacciata anche dall’aumento della pressione dell’aria, gli inquinanti sono più stabili e l’inquinamento la fa da padrone. I venti dell’est arrivano meno in questa stagione, e anche le perturbazioni sono limitate così niente libera l’aria.
La rete di monitoraggio esistente permette di dire che tutti gli inquinanti controllati sono statisticamente in discesa, eccetto l’ozono, che rappresenta un problema prettamente estivo, in quanto scatenato dal sole.
I dati lombardi sono analoghi a quelli del resto della pianura padana, dove in termini di media mensile dei dati rilevati in gennaio storicamente, la concentrazione dell’ossido di carbonio si è ridotta così come si è ridotta, anche se in modo meno sensibile, quella dell’ossido di azoto. Il biossido di zolfo (prodotto da gasolio e carbone) dalla seconda metà degli anni ’50, quando ancora era prevalente l’uso del carbone per il riscaldamento domestico, è diminuito del 1.100%, e tuttavia è ancora una componente dell’inquinamento attuale.
Le polveri sono diminuite in generale, ma va considerato che il PM10 è monitorato solo dal 1997, e sappiamo che questo rappresenta 80% delle polveri totali. E’ in calo il benzene che dal 1994 ad oggi si è ridotto di quasi il 400%.
La ragione di questa situazioni non ha una spiegazione unica, ma deriva da diversi fattori: la metanizzazione ha ridotto drasticamente l’uso di carbone, esattamente come a Londra si eliminò lo “smog” all’inizio degli anni ’50 dopo la proibizione dell’uso del carbone.
In termini statistici è ormai assodato che ad un picco di inquinamento corrisponde un picco di ricoveri ospedalieri ed un correlato aumento del tasso di mortalità.
C’è una corrispondenza sicura fra il traffico, specialmente pesante, e picchi di IPA (Idrocarburi Policiclici Aromatici) . I veicoli diesel sembrano i maggiori responsabili dell’inquinamento da traffico, ma in realtà il PM10 trova origine da diverse fonti. Le emissioni primarie di PM10 sono quelle più evidenti, ma visto che primarie sono quelle prodotte direttamente dalla combustione e che possono essere bloccate dai filtri, mentre hanno importanza anche quelle secondarie, ovvero date dai gas di scarico. Ora più è alta la concentrazione di PM10, più è importante la quota di emissioni secondarie. Per questo il blocco temporaneo del traffico colpisce direttamente il primario che in un giorno si riduce anche del 30%, ma influisce solo in tempi più lungi sulle emissioni secondarie. In questo senso il blocco non ha ovviamente un effetto risolutivo, ma costituisce un contributo rilevante alla riduzione degli effetti dell’inquinamento. Le fonti di PM10 primario per importanza di quota vengono stimate dalle Agenzie Regionali per l’ambiente secondo INEMAR, la speciale struttura che in base al bollettino petrolifero che rileva con certezza i consumi di benzina, consente di calcolare con modelli matematici i fattori di emissione:
a) primario: diesel 32%; legna 32%; altre fonti 20%
b) secondario: 50% traffico
Non deve stupire il dato relativo alla legna, che se quasi scomparsa dalle grandi aree urbane come combustibile da riscaldamento, ha trovato nuovamente largo uso nelle zone montane e pre alpine grazie alla diffusione delle stufe ad alto rendimento.
Il traffico resta un elemento decisivo, su cui molto si sta facendo con il miglioramento delle tecnologie, basti pensare alla progressiva del fattore di emissione per km percorso, che per un’auto “euro 4” è ridotta a 0,8 per km, mentre per un motore diesel tradizionale arriva a 30 per km, in termini di PM10 ma anche di biossido di azoto.
Purtroppo l’incremento delle immatricolazioni di vetture diesel ha compensato in negativo i miglioramenti raggiunti sui motori a benzina. Di qui la polemica sulla richiesta di introduzione del filtro anti particolato, sul quale è in corso un vero braccio di ferro fra costruttori e governo, con i primi che sono disposti all’introduzione, ma a patto di significativi contributi governativi per l’adeguamento degli impianti produttivi. Si tratta peraltro di un elemento importante ma non conclusivo, se si considera che i filtri abbattono il PM10 ma non IPA e tutti gli altri inquinanti.
Va detto che la riduzione di polveri da traffico non è possibile al 100%, ma va ridotta tendenzialmente, considerando che se è vero che l’indice di produzione di polveri per tipo di veicolo è quella che segue (in mg per km percorso):
– euro 0 sotto 3,5 ton 198
– euro 0 gasolio sopra 3,5 ton 571
– auto euro 4 benzina 0,8
– mezzo ATM con retro fit 150
– motociclo 4 tempi euro 1 15
il puro attrito produce 0,8 mg per km di polveri, e in qualche misura questo è ineliminabile, visto che avviene anche per una bicicletta.
Preoccupa poi la considerazione che una quota del PM10 secondario sia composta da ammoniaca, il che si spiega probabilmente con la presenza di tale elemento in agricoltura nei fertilizzanti usati nelle campagne. Si tratta quindi di un fattore sul quale risulta particolarmente difficile impegnativo intervenire, vista la lunghezza della catena che lo produce. La conseguenza è che solo in Lombardia, rispetto a Milano ed al suo traffico che hanno 116 come indice di PM10, Lodi ha indice 133, e Cremona 113.
La Lombardia presenta quindi una situazione complessa e sfavorevole, con condizioni meteo sfavorevoli, al pari delle regioni più colpite d’Euorpa come la Ruhr in Germania, per motivi simili ai nostri. Esistono però anche situazioni come quella del Belgio, la cui alta concentrazione di PM10 viene attribuita con certezza per la presenza di un alto livello di cadmio, a polveri portate dai venti dell’est, in particolare dalla Polonia. Altrettanto dicasi per la concentrazione registrata in Spagna di polveri provenienti dal Sahara. Purtroppo il PM10 delle nostre regioni è tutto nostro, e per questo in sede comunitaria saremo sanzionati, con circa 500 milioni annui di mancati trasferimenti da UE, per il supermento permanente dei livelli ammessi di concentrazione di PM10.
Ci sono strumenti per fare interventi strategici, che però possono essere solo il frutto di scelte politiche coraggiose: la decisione di questi giorni a livello di governo nazionale di bruciare olio combustibile per compensare il molto reclamizzato mancato apporto del gas russo, ci riporta indietro di vent’anni. Questa decisione non è giustificata dalla situazione attuale, alla fine di un pur rigido inverno, ma è direttamente funzionale alla difesa di interessi petroliferi ed automobilistici.
Altrettanto strategica e frutto di mancanza di coraggio politico, è la scelta di continuare a puntare sulle autostrade per lo sviluppo della mobilità, invece di progettare nuove e più efficienti linee ferroviarie, come è il caso dei due progetti lombardi di cui si parla da anni.
Concludendo:
– c’è un trend positivo nel lungo periodo, ma con singoli picchi negativi stagionali
– la colpa è del sistema nel suo complesso, con responsabilità diffuse ad ogni livello istituzionale e decisionale
– serve una maggiore organicità degli interventi perchè c’è un livello di complessità ed interdipendenza tale che ogni azione va coordinata e graduata con attenzione
– serve una svolta nella produzione di energia: turbogas, eolico, solare, fotovoltaico, sono tutte realtà che permettono importanti risparmi, ma ad oggi sotto utilizzate, anche perché pur in presenza di importanti risparmi di sistema, gli incentivi (ad esempio 300 megawatt di credito nel conto energico per l’uso di queste formule) sono ancora più limitati delle risorse naturali disponibili; l’ultimo esempio è dato dalla Finanziaria che ha eliminato la possibilità di dare contributi a privati in materia di risparmio energetico, tagliando tutto lo sviluppo possibile all’utilizzo di energie alternative in ambito privato

Si deve insistere nell’adozione di piccoli ma costanti e precisi interventi tesi ad ottenere risultati a lunga scadenza, anche se si deve dare per scontato che gli effetti non saranno lineari, perché ad ogni azione spesso corrisponde una reazione inattesa, non ostante il perfezionamento dei metodi matematici utilizzati.

Il saldo di chiusura dei centri urbani al traffico è solo parzialmente positivo, perché pur con qualche risultato al centro, la congestione nelle aree periferiche compensa in negativo. L’effetto più importante anche se minimo e di lunghissimo periodo, sta nella scoperta dell’uso dei mezzi pubblici o comunque di mezzi alternativi all’auto, il cui uso si riduce a lungo termine.

L’uso del bio diesel ha un senso limitato e non un impatto di sistema , visto il suo impatto ridotto per la possibilità di produzione limitata per legge, e perché il ciclo industriale di tale combustibile ha un costo analogo a quello del diesel tradizionale, ma risulta favorito dagli sgravi fiscali. L’adozione da parte dei mezzi dell’Azienda Tranviaria si è accompagnata all’adozione dei filtri anti particolato sui mezzi, ma purtroppo l’esempio non è stato seguito dalle altre amministrazioni pubbliche che incidono sul nostro territorio.

Il problema dell’inquinamento da traffico sta anche nei fattori esterni, per i quali esistono molti tentativi di analisi.
A livello di sistema la fine del modello della fabbrica fordista, e l’adozione del sistema Toyota del “just in time”, ha fatto sì che nell’odierno sistema produttivo l’industria non produca più per il magazzino, ma per la consegna immediata. Grazie al contemporaneo sviluppo dei sistemi di gestione dell’informazione, che hanno fatto nascere la logistica come sistema di gestione e controllo del movimento merci, questo si è tradotto in un enorme aumento di traffico di piccoli veicoli commerciali, spesso diesel, per le consegne rapide.

A livello strettamente politico, leggendo il primo documento del candidato sindaco del centro – destra, non può non risaltare il fatto che i primi 10 “progetti” siano di tema, ambito e persino linguaggio ambientalista. Forse c’è un pericolo di confusione delle identità su questi temi, ma è certo che senza una politica di scelte radicali e coraggiose, la sinistra non sarà più riconoscibile come tale neanche sulle tematiche ambientaliste, sulle quali riesce a sembrare più radicale ed innovatrice l’amministrazione Formigoni.

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