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La Fabbrichetta

laboratorio politico aperto

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LA “BANCA DEL VERDE” Una proposta presentata da Massimo Ferlini, Presidente di Compagnia delle Opere Milano, a La Fabbrichetta il 15 novembre 2006.

September 30, 2015 By admin

La “banca del verde” è innanzitutto un’idea, nata al tavolo di consultazione comune che Lega cooperative e Cdo hanno a Milano e da cui sono scaturite in passato iniziative come “OBIETTIVO LAVORO” (Agenzia per il lavoro interinale) e, più recentemente, il Consorzio per sviluppare il “cohousing sociale”.
Nella esperienza di Cdo ci sono i precedenti del “Banco Alimentare” e del “Banco farmaceutico” che raccolgono e ridistribuiscono sul territorio dove c’è il bisogno e dove ci sono reti di solidarietà di tipo vario.
L’idea è stata certamente stimolata dall’occasione del Bando progettuale della Provincia “Città di città” al quale concorriamo e di cui tra un mese sapremo l’esito.
Al confronto con altre metropoli Milano ha scarsità di verde. Gli ultimi grandi Parchi sono stati il Nord e il Forlanini. C’è la questione Parco Agricolo Sud che non sempre è in buone condizioni di vivibilità.
L’idea di Boeri e della Provincia di un “Metrobosco”,quella dell’Assessore Comunale Masseroli di una “cintura verde” (la cui fattibilità ha fatto studiare a Kippar), tutte vanno nel senso di collegare, di estendere il verde. Ma dove si trovano le risorse? Come si sviluppa la partecipazione?
Mi sembrano queste le due domande centrali a cui si vuole rispondere con la “Banca del Verde”. Da un lato vorremmo costituire una Fondazione,che sia “la cassaforte” del verde, quella a cui vengono conferiti (in donazione, in comodato) aree verdi per la loro piantumazione e manutenzione.
La Fondazione potrebbe raccogliere risorse,sia territoriali che economiche, da privati e da enti pubblici. Gli enti locali potrebbero trovare un patner che valorizza e mantiene aree pervenute a scomputo d’oneri per esempio. I privati potrebbero essere interessati sia ad un “risarcimento ambientale” (soprattutto per chi ha un’attività che consuma ossigeno o produce CO2,come chi usa carta,produce energia,vetro,combustibili,..) sia ad un’azione da inserire nel loro bilancio di responsabilità sociale.
L’attuazione dell’accordo di Kioto procede a rilento in Italia, ma la borsa del CO2 è attiva e i “Certificati verdi” (quelli connessi alle energie rinnovabili e che non consumano fossili) sono già in funzione. Mancano ancora i “Certificati Bianchi” quelli riferiti alla forestazione di aree.
L’altro nodo è quello della “partecipazione”. Dove si è “osato” i riscontri sono stati positivi. Per esempio nella gestione degli orti regolamentati. Per esempio in alcuni campi bocce dati ad anziani. Diversa è stata l’esperienza “Verde in Comune” a Milano, più una sponsorizzazione centralizzata, che un coinvolgimento del territorio. Ambientalisti, agricoltori, cittadini potrebbero essere coinvolti in un processo anche gestionale del verde che diviene vivibile, esperienza di responsabilità e vita sociale.
Cooperative sociali potrebbero lavorare alla manutenzione inserendo al lavoro persone svantaggiate. A partire da una scelta volontaria e di compensazione,può svilupparsi un grande progetto di responsabilità sociale ed ambientale i cui aspetti di comunicazione sono particolarmente significativi. Siamo al lavoro.
Puntiamo sull’area metropolitana, ma qualche progetto urbano non è escluso.
L’obiettivo è presentare a gennaio la Fondazione con le prime aree acquisite e con una struttura operativa. Tra un anno possiamo vederci a fare un primo bilancio.
 

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“QUALE SINDACO PER MILANIA ?”

September 30, 2015 By admin

Incontro con Piero Bassetti
alla Fabbrichetta, 1 marzo 2006

Piero Bassetti è stato protagonista di varie stagioni milanesi. Esponente di punta della corrente della “Base” DC (quella di Mattei, Marcora, Granelli…), è stato pluriassessore per sette anni con il sindaco Cassinis. Grande sostenitore del regionalismo è stato negli anni ‘70 il primo Presidente della Regione Lombardia. Presidente della Camera di Commercio negli anni 90 ha seguito le trasformazioni di questa città. A lui, a cui piace usare il termine “Milania” per indicare la nuova globalcity, La Fabbrichetta chiede di parlare di come Milano è cambiata.

“Mi piace parlare con gente che si fa domande,che cerca di capire e che crede ancora nella politica.
In fondo certi giornali come “il Foglio” o “il Riformista” sono un residuato di questa cultura:ma chi li legge ? Oggi i giornali vivono di pubblicità, in funzione degli inserzionisti. E la “telecrazia” non è il presente…è il futuro!!!
Sbaglia chi crede che siamo di fronte ad una “crisi” congiunturale.La “crisi” è mondiale, epocale. E quando cambia il mondo non puoi cercare i tuoi riferimenti nel passato, non puoi essere “retroverso”. Lo schema destra/sinistra non funziona più.. Invece se uno pensa a quale sindaco ci vuole, riparte da lì..ma è sbagliato.
E’ il punto centrale per la sinistra. Se si pensa di essere a sinistra rievocando i valori e le lotte del passato si sbaglia. Erano belle le lotte operaie…ma quegli operai non ci sono più, quelle fabbriche non ci sono più.
Può essere il Comune,l’istituzione l’elemento aggregante? Ma anche quel comune (quello in cui sono stato a lungo assessore) non c’è più. Ci vorrebbe una rivoluzione piuttosto che un amministrazione (altro che condominio!). Le cose vanno cambiate non “aggiustate”. La sinistra è più in difficoltà anche perché è fuori dal governo locale da parecchio tempo. Non conosce quello che si sta impastando,quello che sta lievitando,cosa si muove in città.
E’ cambiata la città e anche l’idea di città. Una volta la città era dove abitavano i cittadini,diversi dagli abitanti dei dintorni e della campagna. Una volta la città aveva un solo centro. Oggi la mobilità ha cambiato il rapporto funzione/territorio. Le elite non sono più sempre in centro… Questo movimento è in più direzioni. Non è vera l’immagine che Milano ogni giorno sia soltanto invasa da migliaia di “esterni” che la usano, le persone che escono dalla città in auto sono più di quelle che entrano ogni mattina!
Il successo delle Multisale fuori città è un esempio del cambiamento: una volta si andava al cinema in Vittorio Emmanuele, nessuno avrebbe pensato di andare a divertirsi a Melzo o Vimercate o Pioltello!
E così non si può fare il conto su 10.000 residenti in meno. La città si riorganizza,si distribuisce sul territorio. Se giovani coppie hanno trovato casa a Novate o a Peschiera o a Brugherio, sono per questo meno milanesi ?
Dobbiamo porci la domanda: cos’è Milano oggi, a cosa serve Milano oggi ?
Capitale morale ?di che ? E’ l’Italia il nostro riferimento ? E’ la regione ? E’ la Padania? E’ l’Europa?
Certo non si può pensare alla cinta daziaria.
Milano, anzi Milania , è una delle 10 più importanti città globali, ovvero un “nodo delle reti globali”,secondo una ricerca, fatta da noi e pubblicata da Bruno Mondatori. Non perché abbia il primato in alcune reti/settori, ma perché è eccellente in molti (nelle università, nella moda, nelle professioni,ecc.).
Certo il bacino va da Torino a Trieste. Torino Olimpica è anche un nodo di questa rete. Le appartenenze oggi sono più per comunità di pratica che per territorio. Persino i cattolici scelgono la parrocchia che preferiscono e non quella sotto casa…I figli (se escono di casa..ma questo è un altro problema) cambiano città, scelgono base al lavoro,all’opportunità,non in base all’appartenenza locale. Persino il tifo calcistico non è più localistico (la Juve ha,sempre più, tifosi anche a Milano…)
Le istituzioni sono per natura rigide, prendono atto (di solito in ritardo) dei cambiamenti,raramente li precedono. Non possiamo aspettarci troppo….”

“Eppure-interloquisce Pier Vito Antoniazzi-ci sono stati sindaci come Caldara che hanno anticipato,che hanno dialogato con la cultura scientifica, che hanno rappresentato una unità ed una identità solidaristica anche in momenti difficili come i tempi di guerra. Il Sindaco è sempre stato amato dai milanesi. Ha sempre goduto di una sorta di luna di miele. Tranne in questo ultimo decennio in cui la sensazione è stata quella di un autocrate,in dialogo solo con i poteri forti e piuttosto punitivo (vedi politica delle multe) nei confronti dei cittadini. Non possiamo tornare a sperare in un sindaco “amico dei cittadini” ?”
Le città hanno sempre bisogno di un simbolo,di una spinta emotiva. Ma non possiamo aspettarci una mamma di ieri che ci risolve tutti i problemi di oggi. Ci vuole un sindaco che interpreti la trasformazione nel senso sociale e popolare della sinistra. Non una persona organica ai poteri forti ma piuttosto qualcuno che cerchi ti trasformare l’assetto istituzionale. Da questo punto di vista un ex prefetto può avere le competenze giuste… Come si fa a ritrovare la fiducia ? Basterebbe che un sindaco riconoscesse le domande dei cittadini. Sarebbe la prima e più importante delle cose. Guardate Veltroni. I romani stanno facendo grandi cose. Non è il leader politico a realizzare grandi cose, ma è il catalizzatore, colui che comunica suggestioni. La più importante delle quali è la sensazione di avere un amministratore che capisce, che considera, che valorizza. Allora ci facciamo in quattro,perché questa è la volta buona…Certo il leader può essere anche negativo, proporti di non pagare le tasse (tanto fa i condoni). Una sorta di “bagulun del luster” ,letteralmente “il ballista del lustro da scarpe” come i milanesi chiamavano i venditori di fole,riprendendo l’immagine dai venditori ambulanti del lucido “BRILL”….
“Quale ruolo può avere l’Università milanese in questo cambiamento che è anche culturale?” chiede la professoressa Irene Buzzi Donato.
“Se guardiamo le classifiche Milano è una delle prime cinque in Europa per ricerca (soprattutto applicata ma anche teorica..). Abbiamo poli di ricerca avanzata,per esempio nella medicina.
-riprende il ragionamento Bassetti- Ma se devo chiedermi “questa sapienza è in grado di animare una politica culturale che nuovamente attragga verso Milano ?”, allora devo ammettere di essere dubbioso. C’è un eccesso “umanistico” nella cultura milanese, c’è,soprattutto a sinistra, un pregiudizio “antiscientista”. Ci aspetta una società del sapere… Milano deve mediare,connettere, il sapere. Milano è stata la prima nel mondo ad inventarsi l’ospedale. Questa idea di “Milano=grande famiglia”, Milano che accoglie, Milano che cura…va rinnovato altrimenti lo perdiamo”.
“Come sifa a ritrovare la fiducia smarrita ?” chiede l’architetto Francesco Florulli.
“E’ una sfida epocale!-ritorna sul tema d’apertura Bassetti- La risposta non è a Milano ma a Milania. Una “global city”, un nodo della rete globale. Non una ma tante reti. La moda certo ,dove noi abbiamo superato Parigi,aggirando l’haute couture con il nostro prait a portèr, la convention del design nel 2008,che oggi ci siamo fatti soffiare da Torino (anche se, forse, sempre Mlania è).
La Lirica per esempio,una rete importante,che non può vivere per i soli palchettisti.
Era bella quella Scala e quell’epoca,ma non possiamo restare agli amori di gioventù…
Bisogna amare Milano,recuperandone il passato e la vocazione ma cambiandolo per salvarlo.
E’ una vecchia consuetudine milanese, nulla si spreca, nulla si rompe. Si va cercando il bello, il diverso, il migliore senza buttare niente…”
 

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QUALE RUOLO PER I RAPPRESENTANTI DEGLI UTENTI NELLE AZIENDE DI SERVIZI DI PUBBLICA UTILITA’? IL CASO ATM.

September 30, 2015 By admin

Sintesi dell’incontro dell’8 novembre 2006 a La Fabbrichetta con Massimo Ferrari ,Presidente dell’Associazione Utenti Trasporto Pubblico e consigliere ATM Hanno preso la parola: Pier Vito Antoniazzi, Luca Beltrami Gadola, Giorgio Tacconi, Gian Luca Bozzia, Giorgio Poidomani, Bianca Bottero, Pier Paolo Artoni.
 
Introduce Pier Vito Antoniazzi.
 
Si è parlato e si continua a parlare di “privatizzazione” delle ex aziende municipalizzate. In realtà si tratta di situazioni diverse, dal trasporto pubblico che non potrà mai produrre profitti, all’energia, ai rifiuti,ecc. In generale però gli enti locali “non hanno mollato la presa”. Anzi, sembra quasi che “scommettano” su queste “piccole IRI” per contare di più sui “tavoli forti”. Il rischio è che questo dibattito perda di vista gli interessi dei cittadini. Che nessuno discuta la qualità dei servizi, il loro indirizzo. Ecco allora che proporre una “centralità” dei consumatori e utenti,magari con organi di controllo che possano incidere sull’amministrazione, potrebbe essere una rivoluzione copernicana.
Abbiamo invitato Massimo Ferrari perché è un esempio raro di rappresentante delle associazioni degli utenti che è dal 1993 nel Consiglio di Amministrazione dell’ATM. Come ci sei arrivato? Chi ti ha messo? Com’è la tua esperienza ? Massimo Ferrari: Fu proprio Pier Vito Antoniazzi, insieme a Paolo Hutter a propormi nel 1987 come consigliere ATM (la prima azienda pubblica milanese per occupati). Allora il Consiglio veniva votato dal Consiglio Comunale. Era la prima volta che invece dei 7 da eleggere,”concordati” tra i partiti (Presidente fu quel Prada poi inquisito), c’era un nome in più. Ci vollero più votazioni perché un consigliere non aveva il quorum,ma ovviamente non passai. Poi nel 90 Pillitteri approvò un regolamento che prevedeva un 25% di nomine indicate dalla società civile. Ma ci fu un errore di forma (la data) e le nomine vennero annullate. Nel 1993, indicato dall’associazione Utenti, fui nominato da Formentoni,insieme ad un altro “civile” indicato dall’Università. A sorpresa mi confermò Alberini nel 97 e nel 2001. Nel frattempo ATM ha cambiato pelle più volte: da municipalizzata ad azienda speciale prima e ad SPA poi. ATM è difficile da privatizzare perché non farà mai utili…L’indirizzo del Presidente Soresina (liberal-liberista) è soprattutto quello della razionalizzazione e del risparmio (soprattutto sul personale). Non siamo in disavanzo (come in passato) rispetto al budget fissato dai finanziamenti pubblici (che sono sempre in calo). Il 40% del bilancio coperto dalle tariffe,non è male. Siamo sul livello di bilancio di Parigi e meglio di Amsterdam e Bruxelles. Il Consiglio è un organo di indirizzo,non di gestione. Il Presidente è anche amministratore delegato. Io in questi anni mi sono battuto per la difesa del servizio pubblico. In particolare ho insistito sulla difesa del “sistema elettrico” (metro+tram+filobus). La diminuzione del costo degli abbonamenti (una sorta di “fidelizzazione” al trasporto pubblico). Abbiamo aumentato gli utenti,abbiamo difeso il traffico serale ed istituito nuovi servizi come il Radiobus(che abbiamo potuto realizzare solo con contratti diversificati,a termine).Le novità giuridiche (la Spa) ci consentono di partecipare ad altre società o concorrere in gare per la gestione di servizi e impianti. ATM gestisce oggi la funicolare di Como-Brunate per esempio. Certo si potrebbe fare ancora più nell’informazione…
 
Ci sono altre esperienze di rappresentanti degli utenti nei Cda ?
C’è un’esperienza a Genova ed in qualche altro centro. Ma più per cooptazione che per spinta di lotte e sensibilità civili. Non c’è nulla di paragonabile al peso che nelle Ferrovie Francesi ha la FNAUT (Federazione Nazionale degli Utenti del Trasporto).Come dicevo a Milano c’è un membro indicato dall’Università Politecnico.
Chi ha deciso le Metrotranvie Nord e Sud ?
Sono stato tra chi le ha sostenute. Perché il tram va sostenuto e rinnovato. 500 tram acquistati da ATM nel 1930 hanno reso tantissimo. Molti sono ancora in uso!!
Si, ma sembrano un mortorio: perché nessuno ha fatto il restyling? Perché non mettere più luce,anche nelle pensiline? Milano “cade” nella cura delle piccole cose….
Su manutenzione e pulizie si è risparmiato in questi anni effettivamente. Non era facile trovare risorse.
Io amo ATM. Il mio rapporto con il tram è “sentimentale”. Riconosco anche i progressi di ATM. Ma la battaglia culturale dov’è? Dove è che l’amministrazione spinge sul trasporto pubblico? I “manager” non vanno in tram…
Più che nelle altre città italiane (escluso Venezia).
Ma il nostro confronto è l’Europa!
Dobbiamo costruire un’azione di lobbing (come facemmo con il referendum sul traffico dell’85) che abbia come centro l’area metropolitana, un’agenzia metropolitana dei trasporti. Forse il dibattito sul “ticket” della Moratti può essere un’occasione. Forse questa “tassa di scopo” che i milanesi pagheranno,gli farà chiedere qual è lo scopo,qual è il programma.
Bisognerebbe fare una “cura del ferro”, potenziare il trasporto pubblico della regione (oggi fatiscente). Ma ATM ha studiato il suo contributo all’eventuale ticket ?
Secondo la perimetrazione proposta noi avremmo 705.000 residenti dentro la cerchia (che è un po’ esterna alla 90-91). Ci sarebbero un centinaio di accessi (non semplici da monitorare,a differenza di Londra). 209.000 sarebbero le entrate esterne giornaliere in questa cinta. ATM conta di aumentare del 5% gli utenti “subito”, del 10% nel 2008 e di arrivare al 25% di aumento nel 2009. Bisognerebbe studiare un abbinamento tra “ticket” e “abbonamento ATM”, così avremmo una vera fidelizzazione ad ATM. L’abbonamento è un incentivo all’uso.
Bisogna vedere le tariffe…
Moratti si è impegnata a non aumentare…

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Antonio Monzeglio ARCI Ragazzi

September 30, 2015 By admin

Dal 1999 il 20 novembre è la giornata scelta dall’ONU quale “giornata dei bambini e dei ragazzi” sino a 18 anni, con un preciso riferimento ad una convenzione internazionale che è stata ratificata ad oggi da 184 nazioni (fra le eccezioni USA e Somalia).

A proposito di testi di legge, in Italia la legge 216 ha delimitato l’ambito della sicurezza dei bambini, sino alla legge 295 del 1997, legge Turco, che nasce anche dalla sollecitazione di Carlo Paglierini dell’ARCI Ragazzi, e sotto il titolo “Promozione dei diritti e delle opportunità”, stabilisce soprattutto una nuova metodologia, secondo la quale alle cautele protettive proprie della normativa sui minori, aggiunge anche funzioni attive di:
– protezione
– promozione della competenza
– partecipazione

In questo quadro diverse associazioni che si occupano di ragazzi hanno provato a guardare con gli occhi dei bambini la nostra città.
La prospettiva dei bambini, ad esempio sul traffico, è molto diversa da quella degli adulti, anzitutto per ovvi motivi di statura, per cui per loro le automobili sono effettivamente degli ostacoli incombenti. Va anche considerato che i bambini hanno una forma tutta particolare di trasversalità, ad esempio nell’essere mediatori culturali per le loro famiglie. Ci sono messaggi diretti ai genitori che vengono più agevolmente veicolati e con più efficacia, se fatti passare attraverso la mediazione dei ragazzi. E questo avviene in modo straordinario verso i genitori extra comunitari i cui ragazzi frequentano le scuole milanesi (35% del totale degli alunni) fornendo un veicolo privilegiato per la mediazione culturale verso le loro famiglie, nell’assenza di politiche integrative istituzionali.
Nell’ambito del rapporto fra bambini e traffico i progetti minimi risultano enormemente ambiziosi: basti pensare ai percorsi casa-scuola, un piccolo progetto che incontra ostacoli apparentemente insormontabili da parte delle autorità scolastiche e municipali. Tutto questo in una città che ogni giorno perde un pezzo dell’identità culturale più facile per i bambini: pensiamo al Lido che diventa “Infostrada Village”
A fronte di questa situazione le istituzioni sono ferme, ancorate ad una duplice mancanza di attivismo:
– i funzionari colpevoli ma non responsabili
– la politica responsabile ma non colpevole
e questo si traduce solo a Milano in 14 milioni di euro fermi in assenza di capacità progettuale e di spesa.

Con tutto il rispetto per gli anziani, attraverso una politica dei ragazzi si può costruire un modo di fare politica nuovo, che costruisca la città futura.

Proprio nell’ambito dell’imminente giornata dei bambini, il Comune di Milano fornirà uno spazio per un “question time” su traffico, piste ciclabili ed altro, all’insegna del motto “la serietà lasciamola ai bambini”.

Nella nuova amministrazione Provinciale di Milano la delega conservata in argomento dal Presidente Penati è un segnale di attenzione ed importanza, anche se in altre città importanti (Roma – Torino) ci sono dipartimenti specifici da tempo in funzione. Così come in Francia la legge ha da tempo istituito i consigli comunali dei ragazzi. Non si tratta di indurre i ragazzi a scimmiottare gli adulti ed i loro riti, ma di esperienze qualificanti che educhino alla democrazia partecipativa le giovani generazioni. A Milano dopo lo svolgimento di alcuni focus group, ci sarà una kermesse alla scuola del circo (Bastioni di Porta Volta).

In definitiva, così come avviene in questi giorni, la politica cerca di mettere il proprio cappello su iniziative che le sfuggono completamente. Si avverte in tutta la sua valenza lo slogan “una città che non c’è”, perché in assenza di riferimenti tradizionali (scuola – famiglia) niente e nessuno si fa avanti. Il tutto a fronte di un’offerta consumistica allettante anche quando respinge, come nel caso degli spettacoli televisivi con “bollino rosso”. Il consumismo è spesso l’unica offerta su piazza, con lo shopping in centro o nei centri commerciali delle periferie satellite. Così nelle proposte che ricevono i ragazzi non trovano indicazioni sulle buone pratiche possibili nella vita cittadina.

Le buone pratiche esistono e meritano di essere studiate e valorizzate. Esiste l’esempio di “mini Munchen”, un programma educativo che riproduce nei mesi estivi la vita cittadina , con le istituzioni formato baby ed un sindaco ragazzo; l’intero programma costa 180.000 € all’amministrazione comunale di Monaco di Baviera.
Questo tipo di iniziative sono già state replicate in molti piccoli centri, anche in Italia in Emilia Romagna, laddove la maggiore facilità di contatto fra amministratori e cittadini facilita la partecipazione.
La prospettiva è quella di creare una cultura che si basi sui ragazzi, per smuovere le scuole e le istituzioni. E’ il caso dei progetti di accompagnamento casa-scuola dei bambini in area metropolitana: a Milano esiste il caso della scuola Bottega – San Mamete, dove è stato creato un sistema di accompagnamento basato sul tutoraggio.

Purtroppo le attività relative ai bambini sono completamente ferme da parte delle nostre amministrazioni locali, tanto che anche l’istituzione del Difensore Civico Regionale dei bambini, è rimasto un annuncio cui non è stato dato un seguito.

A proposito della prospettiva dei bambini, se si fa con una telecamera una ripresa all’altezza di 70 cm, il risultato è triste: la fascia peggiore delle edicole, macchine che consistono di paraurti e tubi di scappamento, ma soprattutto tutto lo sporco della città che è molto più vicino ai bambini che agli adulti.

Questo brutto mondo cittadino è percepito dai bambini come normale, benché loro siano naturalmente portati al bello della campagna, della montagna, del mare. Però i bambini percepiscono una situazione di disagio verso questo loro mondo, ma senza avere gli strumenti per dissiparlo.

Un elemento che si può recuperare dalle esperienze del passato è quello della sanità, che in passato vedeva la scuola in prima fila nel campo della prevenzione, mentre oggi la redistribuzione delle competenze alla regione, via ASL e ospedali, ha scombinato le cose senza dare nuovi servizi. L’esempio macroscopico è quello dell’intervento psicologico, che è considerato argomento di medicina specialistica ed in quanto tale riservato agli ospedali, che sono del tutto assenti dal mondo della scuola. Il Comune deve tornare ad essere reale coordinatore delle politiche di prevenzione, perché il rapporto costo-risultato delle campagne di prevenzione veicolate dalla scuola è incomparabile con qualunque altro canale.
Il sostegno alla genitorialità è poi un campo di intervento molto ampio: non esistendo una scuola per diventare genitori, c’è un forte bisogno di supporto, cui mancano risposte istituzionali. La Regione Lombardia ha fatto una legge in favore della associazioni di genitori, che arriva anche a dare finanziamenti, ma non si tratta di interventi innovativi.

Tramite i bambini si può strumentalmente far risaltare alcuni problemi, in moda tale da farli emergere davanti agli occhi dei genitori: fare cento di metri di strada per i bambini, con aree di accesso alla scuola con sosta riservata negli orari di entrata ed uscita, coordinate da “mobility manager” all’interno delle scuole. Ecco una serie di servizi diretti ai bambini, ma che di fatto indicano ai grandi qualcosa che li riguarda direttamente: che una città senza auto è possibile. Si tratta di passare un tratto di evidenziatore sulla realtà.

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GIANCARLO PAGLIARINI

September 30, 2015 By admin

Introduzione
Piervito Antoniazzi
A sinistra storicamente c’è una posizione di chiusura verso la Lega, e verso molte delle sue posizioni, ma l’invito a Giancarlo Paglierini, uno dei padri del fenomeno leghista, avviene ancora una volta nella logica della Fabbrichetta, che è quella di mettere mano alla scatola degli attrezzi della politica. Infatti molte delle posizioni assunte nel tempo da Paglierini, politiche e di contenuto, ultima quella recentissima sulla governance delle aziende municipalizzate, hanno il segno di una politica che si interessa ai servizi resi ai cittadini, non dal punto di vista del detentore del monopolio, ma da quello del fruitore del servizio. Gli interessi pubblici e quelli degli utenti sono sempre meno tutelati. Forse i consigli di sorveglianza possono creare istanze di controllo da parte degli utenti, ancorché il nostro movimento comsumerista sia ancora complessivamente debole. Da un punto di vista più propriamente politico, l’uscita di Giancarlo Paglierini dalla Lega, fa sorgere spontaneo l’interrogativo sul destino del percorso che la Lega sta compiendo da vent’anni in qua.
 
GIANCARLO PAGLIARINI
Consigliere Comunale a Milano Revisore dei Conti
Raccolgo la domanda e la sfida, riproponendo la domanda e la sfida a questo proposito, che era e resta quella di quindici o venti anni fa: come si fa a non votare Lega ? E questo a prescindere dai toni recentemente assunti da troppe manifestazioni della Lega, o dall’appiattimento sulle posizioni di Forza Italia e del suo leader. Il punto è che le motivazioni sulle quali la Lega è nata sono ancora là, intatte e oggettivamente descritte dai numeri del nostro stato e della nostra economia. Infatti l’eccesso del fenomeno che viene riassunto con il termine “assistenzialismo” impedisce una normale dinamica economica alle imprese, in particolare limitando gli investimenti in ricerca e sviluppo da parte delle nostre imprese, indirizzando risorse dove non sono produttive di reddito. tre tabelle di dati ISTAT – anzitutto la pressione fiscale, che al 50,57 % reale toglie respiro ma soprattutto competitività alle imprese: le imprese irlandesi con una pressione al 32% o quelle inglesi al 37,8% sono evidentemente avvantaggiate;
 
PIL Pressione Ufficiale % “nero” meno 20% reale PIL 1.417.241 100,0% 20% 1.133.793 100,00% Tasse 390.911 27,6% 390.911 34,48% Contributi sociali 182.416 12,9% 182.416 16,09% 573.327 40,45% 573.327 50,57% è da notare che il dato ufficiale comprende anche il lavoro “nero”, che è parte integrante del nostro PIL (pochi oggi ricordano che fu una decisione del governo Craxi di integrarlo, mai cancellata dai successivi governi) – il secondo dato riguarda il costo della pubblica amministrazione che nel suo insieme è insopportabile, perché nel suo insieme costa più delle entrate dello stato Biancio consolidato di tutte le PA. 2005 Miliardi % di euro incassi Tutte le tasse (390.911) e tutti gli altri incassi 446,7 100,% Costo del lavoro dei dipendenti delle PA (155,5) (34,8%) Tutte le altre spese (225,5) (50,5%)
 
Soldi che crescono ma non sono sufficienti per “toppare” i due buchi 65,7 14,7% Contributi sociali 182,4 40,8% Costo della previdenza e dell’assistenza (241,7) (54,1%) “Buco” previdenziale (59,3) (13,3%) Piccolo surplus primario 6,4 1,4% Interessi passivi (64,5) (14,4%) Deficit del 2005 (58,1) (13,%) Detto in breve, da questa tabella appare chiaramente che le aziende non hanno soldi da investire perché con i proventi delle tasse viene pagato il buco previdenziale. – infine le nostre 100 e passa tasse, delle quali le prime 10 rappresentano il 90% del gettito fiscale complessivo, il che indica che il problema non sta nelle troppe tasse, ma nel sistema in sé 1 IRPEF 140.759 36,0% 2 IVA 83.152 21,3% 3 IRAP 34.587 8,8% 4 IRPEG 29.965 7,7% 5 Imposta sugli oli minerali e derivati 23.809 6,1% 6 ICI 11.600 3,0%
 
7 Tabacchi 8.971 2,3% 8 Ritenute sugli interessi e su altri redditi da capitale 6.903 1,8% 9 Lotto e lotterie 5.536 1,4% 10 Imposta di registro 4.957 1,3% 350.239 89,6% Tutte le altre tasse 40.672 10,4% Totale tasse 390.911 100,0% Altri soldi incassati dalle Pubbliche Amministrazioni 55.791 Totale 446.702 E sia chiaro, tanto per smentire un luogo comune sulle posizioni economiche leghiste e federaliste, che in tutto questo l’arrivo dell’euro è stato molto positivo per noi, come dimostra l’andamento del debito pubblico e degli interessi passivi che ne derivano, prima e dopo l’avvento dell’euro: 1990: debito pubblico e costo degli interessi passivi 663 100% 72,0 2005: debito pubblico e costo degli interessi passivi 1.508 227% 64,5 Il vero nodo quindi sta nell’intreccio fra una pressione fiscale alta ma che redistribuisce in termini di assistenzialismo, ed un buco previdenziale, che da un lato corre veloce, ma soprattutto corre in modo ineguale fra diverse Regioni, anche per diverse situazioni rispetto all’evasione (false pensioni, lavoro nero etc), come dimostrato dalla tabella che segue,
 
Contributi sociali, previdenza e assistenza Versati dai datori di lavoro 128850 Versati dai lavoratori 52976 Altri 590 Soldi che entrano 182416 Pensioni 222369 Assistenza 19323 Soldi che escono 241692 “Buco” finanziato con le tasse (59.276) Lombardia 2.625 Veneto 453 Tutte le altre Regioni (62.354) (59.276) Oltre alla necessità di chiudere questo buco, c’è anche la necessità di avviare un vero federalismo, che non è una minaccia razzista, ma solo la necessità economica che le regioni che spendono più di quello che hanno (Sicilia, Calabria, Puglia, Campania, Lazio, Piemonte), non facciano ricorso alla cassa “comune” dello Stato, ma intraprendano una strada, che magari durerà altri venti anni, ma che alla fine le riporti ad un equilibrio fra entrate e spesa.
 
Siamo arrivati al centro della questione, il federalismo, ma a proposito di spesa previdenziale è necessaria una parentesi: non si tratta solo di chiudere un buco enorme esistente, ma di evitare che diventi una voragine tale da affossare del tutto la nostra economia: infatti il nostro sistema previdenziale, concepito negli anni cinquanta e nato vecchio, non regge al progresso demografico ed all’invecchiamento della nostra popolazione, dato dalle migliorate condizioni di vita. Il dato fornito da Wim Kok, sindacalista ed ex premier olandese, nel suo “Rapporto sullo stato di avanzamento della strategia di Lisbona”, non lascia spazio a discussioni: “Old age dependency ratio” Oggi 2050 Italia 29% 61% U.K. 24% 42% E.U. 26% 49% Il nostro sistema previdenziale così com’era, fondato sull’accantonamento da parte di chi lavora per pagare chi è in pensione, è destinato a saltare, perché non può essere finanziato da una minoranza di persone attive rispetto ad una larga maggioranza di pensionati. A causa di queste situazioni stiamo perdendo posizioni ogni anno nelle classifiche che riguardano la competitività e le libertà economiche. Dall’estero gli investimenti in Italia sono quasi azzerati, e siamo sempre più poveri, con un PIL pro capite a 27.700 dollari l’anno, economia sommersa inclusa, che ci fa scendere al 30° posto nel mondo, mentre solo pochi anni fa eravamo fra i primi 10. Il federalismo quindi è una necessità assoluta, perché è l’unico sistema che può permettere:
 
 
– redistribuzione corretta del gestito fiscale – riduzione vera dell’evasione – maggior controllo della spesa pubblica – inversione del flusso: non più “cittadini > centro > periferia”, ma “cittadini > periferia > centro” Certo il federalismo per essere tale deve poggiare su presupposti molto forti, anche dal punto di vista politico, che consentano di avere regole di autonomia sostanziali: senza voler prendere a modello i nostri vicini della Confederazione Svizzera, il paragone può essere fatto con la Spagna e con il livello di autonomia della “Generalitat de Cataluna”. Il modello catalano si basa su alcuni principi che lo rendono interessante: – Competenze esclusive e competenze concorrenti, esistono così come nella nostra Costituzione aggiornata, ma in Catalogna le competenze esclusive sono tantissime, altro che la nostra “devolution” e le competenze concorrenti funzionano veramente. Per limitarci ad alcuni esempi, oltre a materie tipiche della competenza locale come agricoltura, trasporto e sicurezza pubblica, ci sono anche competenze delicate e decisive, come quelle sulle casse di risparmio, la borsa, i brevetti, il sistema giuridico locale che incidono in modo profondo sulla vita delle imprese e dei cittadini. Ed anche materie importanti per le sensibilità locali, come l’immigrazione, l’organizzazione e le responsabilità delle pubbliche amministrazioni o l’amministrazione penitenziaria. – Rapporti chiari con la Stato centrale: esiste una Commissione mista Stato-Generalitat per gli affari economici e fiscali. E’ un organo bilaterale con presidenza attribuita a rotazione, decide la percentuale dei tributi statali che vengono ceduti parzialmente dallo Stato alla Catalogna ed i contributi propri della Catalogna. ai meccanismi di solidarietà e perequazione. Inoltre calcola il costo dei servizi che lo Stato dà alla regione autonoma. – Autonomia delle entrate: la Generalitat dispone di finanze autonome per far fronte ai compiti del suo autogoverno. In questo modo le entrate tributarie proprie, si sommano a quelle cedute dalle Stato interamente o parzialmente (compartecipazioni) dallo Stato. – Meccanismo di solidarietà: per gli interventi statali di solidarietà per istruzione, sanità e altri servizi sociali essenziali la Catalogna partecipa “siempre y cuando lleven a cabo un esfuerzo fiscal tambien similar”
 
Trasparenza! E’ quello che serve qui da noi. Art 206 comma 4: ” i meccanismi di perequazione e solidarietà si realizzano nel rispetto del principio della trasparenza”. In Italia, con poche eccezioni, di trasparenza non parla mai nessuno. In Spagna i cittadini hanno capito che la trasparenza è la chiave per l’efficienza e per togliere potere ai tanti che ne fanno un pessimo uso. In Italia si può fare qualcosa, senza pretendere di fare tutto e subito; si può pensare ad alcune fasi successive: 1. passare dal federalismo fiscale al federalismo fiscale e contributivo 2. eliminare le Province, fonti di spreco e di ulteriore sovrapposizione delle competenze 3. Lavorare sull’Articolo 117 della Costituzione: lo Stato deve fissare i principi fondamentali relativi al lungo elenco di “sovranità concorrenti”. “Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato” Identificare i compiti di Regioni e Comuni. Valorizzarli pro-capite con costi standard. Il risultato (numero dei residenti moltiplicato per i vari costi standard) viene finanziato, in ogni singola Regione, con la compartecipazione ad un tributo erariale. Partendo da questi contenuti e con questi obbiettivi la riforma federale dello stato si può fare.
 
INTERVENTI DELLA FABBRICHETTA
Interventi di Piervito Antoniazzi. Luca Beltrami Gadola Agostino Fornaroli Francesco Florulli.
A proposito del problema previdenziale – demografico, come affrontare la questione dell’espulsione dei cinquantenni dal mondo del lavoro, che contraddice il meccanismo descritto ?
R – “Il fenomeno è complesso e riguarda prima di tutto le aziende, ma dobbiamo anche chiederci di fronte al turn over per età perché questo fenomeno avviene in Italia e non in Germania o in Inghilterra. Ci sono probabilmente anche fattori strutturali.
D – Cosa pensa delle diverse risultanze del poco di federalismo che abbiamo, in Valle d’Aosta o nelle Province autonome di Trento e Bolzano ?
R – Effettivamente i risultati sono contraddittori, ma dipende dalle situazioni locali integrate in un sistema che non funziona.
D – Una domanda politica: quale futuro per la Lega?
R – “Il mio metro di valutazione è quello della utilità concreta per il sistema paese, e devo dire che purtroppo oggi come oggi non vedo nessun futuro. Oggi la Lega è, come dire, “un’altra cosa”. Per le elezioni politiche di Aprile 06 ha accettato il programma elettorale della CDL nel quale
1) nella sezione “Fisco” non c’era nessun riferimento al federalismo fiscale.
2) nella sezione intitolata “SUD Piano decennale straordinario per il superamento della questione meridionale” si prevedeva un “Federalismo fiscale solidale e misure di fiscalità di sviluppo (compensativa) a favore delle aree svantaggiate”.
Questo vuol dire che se la CDL avesse vinto le elezioni avremmo dovuto trasferire ancora più quattrini dalle nostre Regioni a quelle del Mezzogiorno e vi ho già detto che questo significa minori investimenti in ricerca, sviluppo, nuove tecnologie e nuovi prodotti. In sintesi meno competitività, meno investimenti, meno lavoro e più povertà. Se la gente fa fatica ad arrivare alla fine del mese la colpa non è certo dell’Euro ma dell’enorme assistenzialismo che ci rende ogni giorno meno competitivi.
Infine 3) nella sezione intitolata “Finanza pubblica” il programma della CDL prevedeva di ridurre il debito dello Stato tramite la vendita di patrimonio pubblico, che per la maggior parte non è di proprietà dello Stato ma è proprietà delle nostre Regioni e dei nostri Comuni. Quando ho letto quel testo non potevo credere ai miei occhi.
Così come faccio ancora oggi molta fatica a credere a certe dichiarazioni di Gianpiero Fiorani es. amministratore della Banca Popolare di Lodi, dalle quali sembra che la Lega abbia “venduto” il suo voto a favore di Fazio durante la discussione della legge sul risparmio. Ho chiesto spiegazioni, ho aspettato con pazienza i congressi ma di fronte al silenzio non ho potuto fare altro che andarmene. Senza sbattere la porta perché per Bossi sento ancora affetto, ma è certo che per la Lega di oggi non riesco a vedere un futuro. Naturalmente spero che torni ad essere quella di una volta: liberista e seriamente impegnata per una riforma federale di cui il paese ha sempre più bisogno ogni giorno che passa.”
 

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CARCERE: UN GHETTO IN CITTA’ ?

September 30, 2015 By admin

Valerio Onida
Professore di Diritto Costituzionale
Presidente Emerito della Corte Costituzionale

Fra le proposte di discussione concreta sulla Milano che viviamo e che vorremmo far cambiare, la Fabbrichetta ha colto l’occasione di interrogare il professo Valerio Onida, Presidente emerito della Corte Costituzionale, non dei molti temi propri della sua esperienza accademica e professionale, ma della sua sfera privata, poiché Valerio Onida si occupa come volontario della condizione carceraria. Uno dei molti argomenti sui quali il Comune di Milano potrebbe avere voce in capitolo.
Il tema è interessante, perché se solo passasse concretamente questa idea, ci sarebbe un enorme passo avanti nella considerazione dei temi carcerari, perché la realtà odierna è che di carcere non si occupa compiutamente neanche chi dovrebbe prendersi cura dell’istituzione carceraria nel suo complesso.
E’ considerazione evidente che la città si occupa dei propri luoghi, nei quali vivono i nostri concittadini. Tale è anche il carcere, e tali sono, anche se spesso lo si dimentica, i carcerati.
Non molti sanno che molti carcerati chiedono la residenza nel comune di reclusione, per poter risolvere in modo più pratico i loro problemi amministrativi. Ad esempio a San Vittore si reca periodicamente un impiegato comunale per gestire lo sportello . Analogamente l’amministrazione municipale si occupa di facilitare l’accesso ai luoghi di reclusione periferici con linee regolari di mezzi pubblici.
Milano ha quattro istituti carcerari maggiori, San Vittore, Opera, Bollate e il Beccaria per i minori. Il più vecchio e centrale, San Vittore, assolve ormai la funzione di custodia di detenuti in attesa di giudizio, che non scontano una pena definitiva, ma sono in regime di custodia cautelare. Per questo a San Vittore non si applicano tutti gli istituti del regime penitenziario, e quindi ad esempio il lavoro e la cultura non sono dei diritti. Giuridicamente si tratta di una situazione corretta a norma di legge, ciò non toglie che si pongano dei seri problemi pratici.
Opera e Bollate sono strutture relativamente recenti, anche se invecchiate in fretta ed in modo diverso fra loro, mentre al minorile Cesare Beccaria i giovani detenuti restano sino al 21° anno, prima di affrontare il salto, spesso drammatico, verso il carcere ordinario.
Questo mondo appartiene alla città, e qualcuno dice che le carceri contribuiscono a valutare il grado di civiltà di una nazione.
Questo principalmente perché il carcere ha un valore rieducativo, anche se oggi è un dato di fatto acquisito che tale non sia per chi ci arrivi da situazioni marginali per motivi sociali, economici o familiari. Il carcere dovrebbe essere un momento privilegiato per occuparsi di queste persone marginali, altrimenti così difficili da controllare e persino abbordare per l’istituzione. Purtroppo anche questa occasione non viene colta, non ostante, come spesso accade in Italia, l’esistenza di una buona legge, che però viene spesso male applicata. C’è una distanza siderale fra le belle esposizioni ed aspettative delle leggi, e la realtà carceraria.
Ad esempio l’art 20 della legge sull’ordinamento carcerario dice che il lavoro è obbligatorio, ma poi nelle carceri italiane solo il 20% dei detenuti ha un lavoro interno o esterno. Bollate arriva al 50%, e questo ne indica la situazione privilegiata. Il motivo delle differenze sta nelle strutture e nelle risorse: il sovra affollamento delle strutture è un fatto noto, e laddove manca la struttura minimale non è possibile pensare a spazi per il lavoro.
Ma le risorse sono anzi tutto gli uomini: la polizia penitenziaria non copre mai interamente gli organici né ha rapporti numerici adeguati agli standard internazionali. Si assiste invece ad un fenomeno di cattiva distribuzione geografica delle risorse umane, tema ricorrente nella nostra amministrazione pubblica così sbilanciata in termini di personale verso il mezzogiorno.
Tuttavia il rapporto fra polizia penitenziaria e detenuti è generalmente buono, non mancano le opportunità di formazione.
Del tutto carente è invece il livello delle risorse nelle aree del personale non di custodia: educatori, psicologi ed altre categorie sono rarissimi, al punto che si stima siano poco più di 200 in tutta Italia.
Ci sono poi limitazioni fortissime per tutto quanto costa, dall’acqua calda alla carta per scrivere, sino al capitolo delicatissimo della sanità. Il detenuto ha per legge, tutti i diritti del cittadino in materia di salute, e se prima esistevano strutture sanitarie all’interno del carcere, nel regime del Servizio Sanitario Nazionale è l’Azienda Sanitaria Locale a dover assicurare le prestazioni a tutti i carcerati, cittadini e non. Ovviamente le particolarità della condizione carceraria si riflettono sulle prestazioni sanitarie, perché il carcerato non è libero di spostarsi autonomamente né in modo programmato solo in funzione dei suoi bisogni sanitari, il che pone un serio problema organizzativo.
A Milano presso l’Ospedale San Paolo c’è un reparto di degenza riservato ai detenuti, ma ovviamente è poco per le quattro strutture di reclusione milanesi.
Stante questa situazione il problema è cosa fare.
Alcuni enti locali nominano un garante dei diritti dei detenuti, fra essi tanto il Comune di Roma che la Provincia di Milano. La cosa in sé potrebbe anche avere un valore, purtroppo questi enti non hanno né poteri reali né strutture su cui appoggiarsi, e quindi si finisce per essere condizionati dalla personalità del garante.
Che poi esiste già per legge, ed è il magistrato di sorveglianza, ovvero colui che ha, fra gli altri, il compito di sorvegliare la corretta gestione della struttura carceraria. Nella realtà gli altri numerosi compiti del magistrato di sorveglianza (in particolare amministrativi in relazione al calcolo ed alle modalità della pena per ciascun detenuto) finiscono per essere prevalenti, e quindi la figura determinante diviene quella del Direttore del carcere, come ad esempio a Bollate.
Ben vengano queste figure se propositive, ma spetterebbe alla amministrazione penitenziaria nel suo insieme l’azione concreta, e non le sole iniziative di bandiera molto visibili ma poco reali.

L’ente locale ha funzioni che interagiscono in modo sostanziale col mondo carcerario, prima fra tutte la competenza sui servizi sociali , che si occupano di raccordare i detenuti che stanno anche parzialmente fuori dalla struttura, in regime di semi libertà. Ha poi competenza sull’edilizia, il che non è secondario perché se come vuole la teoria la pena dovesse essere scontata principalmente fuori dal carcere allora una politica edilizia per il carcere avrebbe un impatto serio. Potrebbe infatti incidere sulla detenzione domiciliare, che spesso risulta impossibile per la pratica mancanza del domicilio specificamente per i detenuti extra comunitari, ma anche per molti cittadini. E’ il caso delle detenute madri, che se hanno figli minori di 10 anni, e in assenza del rischio che possano commettere reati gravi, dopo avere scontato 1/3 della pena possono accedere alla carcerazione domiciliare.
Inoltre il Comune si occupa di lavoro interviene in prima persona sul mercato del lavoro, e questo è un tema centrale per il detenuto, che se non ha lavoro oggi in carcere, ben difficilmente potrà trovarlo domani quando dal carcere uscirà. La legge Smuraglia aveva dato 6 mesi di sgravi fiscali a chi assumeva un detenuto all’uscita dal carcere, ma dovrebbe fare seguito un’assunzione a tempo indeterminato, e questo avviene raramente, per motivi legati alla congiuntura economica.
Ancora, il Comune ha competenza sulla cultura, ma interviene oggi solo con la limitata fornitura alle biblioteche del carcere, laddove potrebbe intervenire con risorse aggiuntive. C’è un esempio della Regione Lombardia che paga personale integrativo che ha funzione di supplenza rispetto alla citata carenza di organici.
Peraltro è evidente che per fare ci vogliono risorse, anche solo per creare le condizioni materiali del pratico utilizzo delle risorse stesse. Si può parlare di una miriade di micro progetti che potrebbero essere supportati con un minimo impegno da parte dell’ente locale.
(Viene citato il caso della costruzione di un bagno nuovo per l’asilo nido di San Vittore, finanziato da privati e realizzato nella sostanziale indifferenza dell’istituzione e nella competitività fra organizzazioni volontariato).
Spesso il problema si limita all’assenza di coordinamento: nella stessa amministrazione penitenziaria c’è grande lentezza per arrivare all’applicazione della pena, figuriamoci della lentezza con la quale i detenuti possono fruire dei benefici di legge. Il solo collegamento informatico reale svecchierebbe l’amministrazione dando maggiore efficacia al suo lavoro.
Esiste un esempio evidente della carenza di coordinamento: la legge di riforma dell’ordinamento carcerario, prevedeva l’istituzione di “Consigli di aiuto sociale” in ogni distretto di Corte d’appello. Questi enti, presieduti dal Presidente del Tribunale avrebbero dovuto avere ampie competenze su tutti gli aspetti della vita carceraria, ed essere finanziati con la cassa ammende dei tribunali. Non ne è entrato in funzione neanche uno, e le loro funzioni di coordinamento non sono svolte da nessun altro organo.

C’è poi il lungo e complesso capitolo degli stranieri: certamente non tutti gli stranieri che arrivano sono tutti delinquenti. Oggi gli stranieri rappresentano il 30% della popolazione carceraria a livello nazionale, mentre se ne stima una quota intorno al 10% della popolazione nazionale. Questa quota supplementare è dovuta all’assenza di quella rete esterna di supporti che conduce in condizioni normali ad evitare il carcere, e quando ciò non è possibile, ad affrontarlo con la disponibilità dell’appoggio familiare all’esterno. Così il carcere è pieno di detenuti che scontano pene brevi, sino a tre anni, alle quali quasi tutti gli italiani sfuggono.
Se il comune collaborasse in maniera attiva nella gestione del processo di rilascio dei permessi di soggiorno, oggi svolto dalla Polizia di Stato con spirito di sacrificio, ma nessun mezzo supplementare, si avrebbero famiglie più rapidamente e compitamente integrate. E questo finirebbe per evitare marginalità, e nel caso, di dare un supporto ai detenuti, per non fare del carcere una condizione irreversibile e prolungata nel tempo.

Su tutto questo il Comune potrebbe intervenire, ma con fantasia e buona volontà molto si potrebbe fare. Si tratta in primo luogo di intervenire in modo coordinato con altri enti pubblici aventi competenza sul carcere, dalla magistratura alla stessa amministrazione penitenziaria, alla sanità pubblica, e con gli enti privati quali il settore del volontariato. Questo complesso di enti funziona meglio e con maggiore efficacia se c’è un coordinamento ed un supporto, innanzi tutto tecnico, non necessariamente finanziario.

Il Comune di Milano non è decisivo ma neanche del tutto assente: c’è un Osservatorio Comune/Carcere, coordinato dal Dirigente dell’Assessorato ai servizi sociali, che si occupa di coordinare gli interventi delle associazioni di volontariato. Ci sono iniziative minime, come 3 appartamenti messi a disposizione ad Opera per i permessi e la semi libertà, su fondi Cariplo, peraltro non permanenti. Si tratta di rendere continuativa e coerente questa politica.

Il volontariato e l’intervento sostitutivo dell’ente locale non possono essere anche letti come l’abdicazione dello stato dai suoi compiti in materia di rieducazione ? E la gestione del rapporto con il volontariato, non è legata a politiche di breve respiro ed a strutture che poi sono di potere o sotto potere economico ? Nell’esaminare le responsabilità politiche dell’ente locale in materia carceraria questi dubbi non sono eludibili. Anche perché che la responsabilità sia politica, giudiziaria, istituzionale, quello che è certo è l’impatto dell’universo carcerario sulla realtà sociale.

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“E’ ancora possibile limitare il traffico a Milano?”

September 30, 2015 By admin

Prof Marco Ponti
Docente di Economia dei trasporti
Politecnico di Milano
Introduzione di Pier Vito Antoniazzi

Corriamo volentieri il rischio di ripeterci ricordando che la Fabbrichetta è nata per rinnovare la scatola degli attrezzi necessaria per ragionare su Milano, anche con un occhio alle idee ed alle cose concrete da trasmettere al candidato sindaco della sinistra. Il tema del traffico è di portata tale da fare tremare le vene nei polsi, ma la sinistra ha saputo in passato affrontarlo in modo innovativo, a partire dai ragionamenti. Così tra il 1985 ed il 1990, quando in Consiglio Comunale la discussione a proposito del secondo referendum sul traffico (che voleva estendere ai bastioni il limite) venne drammaticamente cancellata e rinviata sine die a causa della morte durante l’ultima seduta consiliare di legislatura del socialdemocratico Cucchi. Così nel 1989, quando il primo allarme anti inquinamento venne lanciato a seguito dei lavori di una commissione coordinata da Bruno Ferrante, all’epoca capo di gabinetto del Prefetto Caruso. Per la prima volta un’amministrazione ammetteva l’esistenza del problema inquinamento, per di più in una città come Milano che “per antonomasia” non si può fermare. Dopo quella stagione innovativa il comune sull’argomento si è limitato a fare da comparsa, lasciando la scena in parte alla regione.
Chiediamo oggi a Marco Ponti, che studia da tempo i problemi del traffico, di darci il suo contributo per ragionare sui problemi del traffico a Milano, e su cosa aspetta la prossima amministrazione comunale.
Il problema traffico ha soluzioni, ma non ricette magiche: non c’è una misura unica che risolve tutto, ma una serie di misure parziali, anche pesanti per come possono incidere sulla vita dei cittadini, che vadano in una direzione unica, quella della riduzione complessiva del traffico cittadino.
Questo innanzi tutto perché Milano, come molte altre metropoli, soffre dell’effetto detto dei vasi comunicanti: se si ferma totalmente il traffico in centro, immediatamente si rende caotico il traffico in periferia, ed analogamente per l’inquinamento che ne consegue.
E’ anche vero che basta poco per ottenere dei risultati, magari piccoli, che pero devo essere stabilmente acquisiti per avere un effetto concreto e per evitare i vasi comunicanti. La stabilità degli effetti è il nocciolo del problema di qualunque misura di regolazione del traffico.
Ci sono anche aspetti sociali che inducono a non pensare a misure uniche e drastiche: non si può demonizzare il traffico generato da quanti arrivano ogni giorno in macchina dagli insediamenti urbani più o meno lontani dal centro cittadino, perché queste persone sono nella quasi totalità cittadini che, privi di alternative sostenibili, sono sfuggiti agli alti costi della città.
Una delle proposte comunque sul tappeto è quella del “road pricing”, e su questa la prossima amministrazione dovrà non solo lavorare, ma produrre risultati. In proposito si possono fare alcune asserzioni anche provocatorie: se seguissimo l’esempio di Londra a Milano i cittadini che usano il mezzo di trasporto pubblico potrebbero essere pagati invece di pagare il biglietto, e se ci limitassimo a quello francese, quei cittadini potrebbero semplicemente non pagare nulla. Questo perché i costi di esercizio delle aziende di Londra o Parigi sono enormemente inferiori a quelli nella nostra azienda municipalizzata, ed è doloroso a dirsi, principalmente per la componente di costo del personale. Non che i guidatori ATM abbiano stipendi principeschi, ma da un lato c’è una scarsa produttività dovuta alla scarsa efficienza del sistema del trasporto pubblico, e dall’altro sono stati innescati meccanismi corporativi tali che oggi in ATM guadagna di più chi lavora di meno. Ci sono incredibili residui di passato che si mischiano a nuove intolleranze, come il divieto di assumere nelle società di trasporti personale non di nazionalità italiana, ciò che preclude l’accesso a fasce di lavoratori a più basso reddito.
Per iniziare una spirale virtuosa, fatta di piccoli passi, con effetti stabili, potremmo spostarci rapidamente da una situazione vicina a quella del Cairo (con tutto il rispetto per la capitale egiziana) ad una più prossima a Stoccolma: basterebbe cambiare la politica delle sanzioni. Sui comportamenti scorretti, l’Economist ha recentemente definito Milano la capitale mondiale della sosta in doppia fila, ed un fondo di verità c’è. Il fatto certo è che per qual comportamento, la sosta in doppia fila, altrove, a partire dagli Stati Uniti, c’è certezza di sanzione. Da noi certezza di impunità, ma peggio di tenere un comportamento accettabile, ed economicamente vantaggioso: col basso numero di multe ricevute, parcheggia quotidianamente in seconda fila non costa più di un caffé al giorno. Se invece la sanzione fosse certa e il comportamento ci sarebbe un effetto di civiltà e di educazione, aggiustando inoltre il prezzo complessivo, perché aumenterebbe, in termini di multe o di spesa per parcheggio, la spesa complessiva di chi in città può o deve permettersi di entrare, a vantaggio di tutta la collettività. C’è il problema più vasto della sosta delle auto dei residenti, per il quale si calcola che ¼ delle auto siano parcheggiate in permanenza in divieto di sosta.
Il sindaco uscente ha ottenuto la nomina a Commissario straordinario per il traffico, sperando di affrancarsi dagli interessi di partito, ma poi non ha saputo resistere alle pressioni di Alleanza Nazionale che ha cavalcato la tigre del rifiuto della rigidità delle norme. Esempio lampante quello della restrizioni degli orari per le consegne ai commercianti, che sono state sì limitate ad uno specifico orario, ma con una riserva, con la quale sono fatte salve “le esigenze produttive o commerciali”, ovvero tutto. Ed infatti non ci sono più limitazioni.
Una delle cose più banali da fare sarebbe provvedere a ridisegnare l’arredo urbano, ad esempio facendo marciapiedi più alti, per evitare che le macchine ci salgano, e con corsie bene disegnate, rendendo evidente dove non è ammessa la sosta.
Misura altrettanto banale, ma di forte impatto, vietare completamente la sosta nelle aree ad almeno 30 metri dai semafori, perché l’efficienza complessiva del sistema dipende dal numero di auto che passano ad ogni tempo di verde.

Uno degli effetti combinati di tutte queste misure sarebbe quello di liberare il trasporto pubblico, che presenta tutta una serie di aspetti specifici su cui intervenire. Quello delle corsie riservate al mezzo pubblico è un argomento caldo: si potrebbe renderle fruibili per auto con almeno 3 persone a bordo, auto a basso impatto ambientale (elettriche) o semplicemente che paghino un ticket elevato, perché queste sono le leve del “road pricing”: il ricco paga per gli altri, e le tariffe contengono elementi di equità più forti dei divieti.
Parlando di mezzo pubblico, fra tram ed autobus ecologici la scelta se orientata solo economicamente non può che essere per l’autobus, perché il tram essendo anelastico ha bisogno di un sistema di protezione e supporto dei binari costoso. L’autobus ha rispetto al tram un costo infrastrutturale di circa ¼, ma senza essere legato ai binari serve più gente ed evita la cosiddetta “rottura di carico”, ovvero il cambio di mezzo, tipica del tram.
C’è il mito del ferro, inteso principalmente come treno, sul quale è bene non farsi illusioni: solo una piccola percentuale di utenti può essere realisticamente spostata dalla gomma al ferro, anche per i costi enormi delle infrastrutture necessarie, che rendono il nostro trasporto su ferro il più caro d’Europa.
Ed a questi altissimi costi corrispondono miglioramenti reali limitati, anche a fronte di potenzialità smisurate: la linea Milano – Torino sulla quale viaggiano oggi 28 treni semivuoti al giorno, avrà a linea completata una potenzialità di 350 treni al giorno. Che non sembra potrà essere sfruttata adeguatamente, rendendo l’enorme investimento davvero poco razionale.
Il mezzo pubblico e la politica dei trasporti sono in stretta relazione con quello della densità urbana e della rendita degli investimenti immobiliari: tornando alla fascia di popolazione che ha lasciato la città, per insediamenti urbani a prezzi più accessibili, l’arrivo di una linea metropolitana ha un effetto dirompente, creando nuove tensioni economiche e sociali in quegli insediamenti. Questo perché c’è una relazione problematica fra trasporti pubblici e densità:le alte densità facilitano l’efficienza dei mezzi pubblici, limitando la dispersione del trasporto, ma innescano processi di tensione sulla rendita immobiliare. In questo senso i vincoli facilitano la rendita, mentre il liberismo sfrenato in materia di trasporti, all’estremo farebbe crollare i prezzi.
Anche le metropolitane sono un ottimo modo di viaggiare in città, ma hanno un costo altissimo e investimenti di questo tipo non possono essere affrontati soltanto capitalizzando alcune proprietà comunali per fare cassa: è necessario un consenso sul livello di investimenti e sui progetti, che vanno comunicati alla popolazione, il cui consenso è necessario.

Il problema sta nel modello di vita che va in un’altra direzione, e non si tratta di fatto milanese: in Veneto è stato fatto un piano di trasporti ferroviari che avrebbero dovuto portare molti pendolari ad abbandonare l’auto, ma è stato il piano ad essere abbandonato dopo due anni, perché i treni continuavano a viaggiare vuoti negli orari di morta e ad essere insufficienti in quelli di punta. Non si deve poi dimenticare che il sistema ferroviario è fatto di monopoli (pubblici, semi pubblici e privati) non contendibili, che aggiungono alle aspettative dei loro azionisti quelle dei loro dipendenti, generando possibili tensioni sociali non secondarie.
Un nemico forte della politica dei piccoli passi stabili è proprio l’insieme delle corporazioni, che hanno una capacità di alzare la voce e di farsi ascoltare dalle istituzioni e dalla collettività, evidenziando i loro problemi a scapito di quelli di tutti. Oltre ai dipendenti dei monopoli, basti pensare ai commercianti.
Certamente sono da contare fra le misure da perseguire all’interno dei piccoli passi, le piste ciclabili, sulle quali anche io ho avuto dubbi in passato, ma l’esempio delle grandi città del nord è positivo, e quindi che siano piste vere e proprie, marciapiedi allargati o percorsi verdi, ben vengano.

Un’alternativa al “road pricing”, argomento trasversale in diverse misure possibili, è quello del “park pricing”, in particolare a Milano. Infatti Milano non è Londra, ha una conformazione urbana tale per cui il ticket avrebbe un forte impatto sociale. Fare invece pagare a tutti il parcheggio è economicamente più facile, anche se le controversie sugli aspetti giuridici ed il timore di reazioni sociali forti, non hanno fino ad oggi fatto fare passi significativi su questa strada.
Il parcheggio sotterraneo è un utile supporto alla politica della sosta regolamentata, anche se ci sono le resistenze degli urbanisti e se le esperienze non sono tutte positive.
Tutte queste misure si possono definire discriminazioni dei comportamenti: possono essere proposte a proposito delle emissioni, favorendo quindi la circolazione dei veicoli a basso impatto ambientale (euro 4 ecc.). Anche queste politiche hanno un impatto sociale, perché non si possono obbligare le categorie a basso reddito a cambiare auto, ma il risultato da conseguire è troppo importante a livello complessivo per farsi fermare da queste considerazioni.
Anche le dimensioni dei veicoli devono diventare una discriminante: lo spazio pubblico è un bene cui va dato il giusto valore, ed un SUV deve pagare più di una Smart, indipendentemente dal fatto che questa possa essere una quarta macchina.

All’interno di una politica di questo tipo anche la realizzazione di viabilità sotterranea con tunnel riservati alla circolazione delle auto, potrebbe essere parte del progetto, perché libera le strade, promuove una circolazione fluida e quindi meno inquinante in quanto libera dall’effetto “stop and go”. Inoltre la tecnologia relativa alla realizzazione e ventilazione dei tunnel ha fatto grandi passi avanti negli ultimi anni.
Un altro ausilio tecnologico importante può venire dal “transponder”, noto per la sua applicazione “telepass”, che ormai è un circuito integrato applicabile su di un foglio di carta, e se incollato sui vetri delle auto permette una serie di soluzioni attive (controllo degli accessi) e repressive (multe a tappeto), che potrebbe liberare risorse per costruire una contropartita fatta di servizi ai cittadini (parcheggi – corsie preferenziali – piste ciclabili).

Se il risultato delle misure combinate che l’amministrazione può mettere in campo sarà positivo, avremo nelle strade un numero ragionevole di veicoli, creando meno inquinamento, e allora si potrà orientare la politica alla fluidità, badando di evitare l’effetto dei vasi comunicanti, ovvero non liberare le strade per attirare nuove auto.

La continuità della giunta Albertini con i progetti conosciuti della candidata Moratti stanno proprio nel subire questa percentuale del 60% dei cittadini che scelgono l’auto, rispetto alla minoranza che sceglie il mezzo pubblico. Avendo chiaro l’obbiettivo di migliorare il trasporto pubblico di superficie, moderare il traffico e incentivare l’uso del treno, con i provvedimenti citati ed altri ancora si può riuscire nell’impresa di migliorare le condizioni del traffico.

Ci sono alcune parole d’ordine che si possono evocare, e che per gli urbanisti rappresentano contributi concreti alle politiche di modernizzazione del traffico urbano:
– intermodalità, nel senso di favorire gli scambi di mezzo al fine di rendere più fluido il sistema nel suo complesso
– informazione on line, per contrastare l’effetto vasi comunicanti dovuto ad ogni piccolo incidente ed inconveniente nella vita di ogni giorno, consentendo di non creare i tappi nella circolazione
– arrivare a porre un fine alla crescita esponenziale delle vetture in città, con il controllo da parte del comune che ad ogni nuova immatricolazione corrisponda un posto auto
– gestione attiva della politica dei taxi, dal taxi sharing come discriminante positiva accanto a quelle già evocate, e l’aumento del numero delle licenze con metodi che proteggano il valore delle licenze attualmente in essere

Nella politica di informazione un capitolo a parte va lasciato all’effetto annuncio: cambiamenti anche importanti e controversi non hanno possibilità di essere recepiti se non sono opportunamente e tempestivamente comunicati e spiegati ai cittadini.

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MILANO CHIAMA L’ASSICURATORE

September 30, 2015 By admin

Francesco Bizzotto
Già Ufficio Studi FIBA CISL

Da alcuni anni alcune persone di diversa estrazione, ma accomunate dalla passione politica e dall’esperienza assicurativa, hanno messo a disposizione le loro competenze, dando vita all’Ulivo delle Assicurazioni.
Il riscontro purtroppo non è stato positivo: i partiti sono refrattari a recepire competenze che non possano essere strumentalizzate e quindi non hanno dato la sponda che ci si aspettava.
Quella delle competenze è la questione della società civile, nel senso che una società civile organizzata pone la questione della rappresentanza in modo alternativo rispetto a quello proposto dai partiti.
Nella professione assicurativa ci sono ampie riserve di competenza, benché poco conosciute tanto a destra che a sinistra, a causa di una scarsa considerazione in cui la politica tiene la cultura d’impresa in generale e quella del rischio in particolare.

Il settore assicurativo ha una ricca produzione di cultura aziendale, ad esempio nel CINEAS “Consorzio Universitario per l’ingegneria nelle assicurazioni”, all’interno del quale Politecnico di Milano e industria assicurativa promuovono lo studio ingenieristico del rischio (risk engineering) con la tecnica propria della gestione degli eventi dannosi (loss adjusting). Il tutto arrivando anche alla produzione di corsi formativi per attività di servizio a tutto vantaggio della collettività, quali quelli di “Hospital Risk management”.
Il mondo assicurativo sta cercando in molti suoi settori di abbandonare l’autoreferenzialità ancorata al passato nella misurazioni dei rischi, che è entrata in crisi.

Da esperienze innovative di questo genere possono venire dei suggerimenti per l’amministrazione cittadina, che sia di stimolo per un nuovo approccio comune fra compagnie e cittadini ai problemi legati alla copertura dei rischi. In questo senso molto interessante sarebbe l’idea che il comune spinga le compagnie a proporre nell’area metropolitana forme di copertura veramente ampia (cosiddetta all risk), che non si basi sul tradizionale rimpallo fra garanzie ed esclusioni, ma copra per intero una categoria di rischi. Se si prova ad applicare questo approccio alle polizze dei condomini, si ha un’idea immediata di quale ritorno possa esserci per i cittadini intermini di maggiore sicurezza. Infatti insieme amministrazione e cittadini investirebbero in una iniziativa di lungo periodo, volta all’equilibrio ed alla stabilità di un importante settore della vita cittadina, tale da favorire il controllo di una serie non trascurabile di rischi.

Oltre che per progetti particolari come questo, gli assicuratori cittadini, che sono molti ed importanti non solo all’interno della categoria, potrebbero essere chiamati dalla nuova amministrazione a partecipare ad un tavolo nel quale far convergere la ricerca di soluzioni a problemi di ordine generale della città.
Il traffico ed i suoi legami con la copertura assicurativa per antonomasia, quella di RC auto, ma anche i temi dell’autosufficienza, che possono vedere un approccio multidisciplinare fra volontariato, istituzioni e privati, limando gli sprechi dovuti alla cronica duplicazione di interventi, ed arrivando fino quasi a fornire uno sportello unico delle soluzioni a questo grave problema tipico della città che invecchia.
Il mondo assicurativo ha in sé competenze e cultura che possono permettergli di essere utilmente messo se non al servizio, quanto meno in sintonia con una nuova politica di una nuova amministrazione cittadina.

Dobbiamo capire cosa può fare l’amministrazione per ridurre veramente i rischi dei cittadini, all’interno di una politica vera dell’emergenza. Probabilmente il primo compito dell’amministrazione è quello di prevenire ed informare: cercare di prevenire le situazioni di rischio, e nel contempo dare il massimo di informazione e trasparenza su questi temi.

Nell’economia nazionale la componente assicurativa milanese ha un peso molto rilevante, che non ha un adeguato ritorno verso la città. A Milano vengono sottoscritti, a seconda delle valutazioni, fra il 20 ed il 27% dei contratti di assicurazione che annualmente si accendono in Italia. Cosa resta di questo a Milano: sempre meno in termini occupazionali, benché non sia ancora cominciata una vera delocalizzazione, ma soprattutto molto poco sul piano sociale.

C’è anche una visione meno ottimistica del mondo assicurativo, che è sempre più improntato alla logica del breve periodo ed all’assorbimento nella logica finanziaria di quella che dovrebbe essere un’industria di servizi. Esistono dubbi che effettivamente azionisti e manager vogliano e possano impegnarsi in iniziative che non rientrino nella loro visione di immediato ritorno di utilità.
 
Nota per La Fabbrichetta di Francesco Bizzotto
 
Il mercato. Premi incassati ogni anno in Italia: 100 miliardi di euro (65 Vita, 18 RCA e 17 altri rami Danni). Per il 12,5% (Vita), 11,1% (Danni) e 7,3% (RCA) in provincia di Milano.
Riserve e investimenti per 500 miliardi.
 
Tipico servizio della Società, con la sua mediazione ha reso possibile l’iniziativa individuale (che esplora la possibilità, rischia). Non si contrappone ma aggiunge valore alle Comunità.
 
Le domande. Quale servizio è in campo a Milano? Quali innovazioni sono mature, necessarie? Cosa ritorna alla città in termini di investimenti? È possibile un dialogo che apra allo sviluppo e associ l’assicuratore, soggetto di Welfare e investitore istituzionale di equilibrio (il suo 1° interesse)?
 
Sì. Su tre terreni in particolare Milano chiama l’assicuratore a crescere e innovare:
Aiutare di più le nostre IMPRESE che competono nel mondo: con polizze All Risks e con informazioni sistematiche sui rischi specifici (in Usa l’80% degli assicuratori promuove servizi di completa gestione dei rischi; in Inghilterra il 30%; in Italia il 6%).
Definire una nuova polizza SALUTE per la FAMIGLIA, che consenta di scegliere differenze di prestazioni nel pubblico (solventi): per personalizzare la cura, premiare le eccellenze mediche e far affluire risorse agli ospedali. Una polizza che preveda e incentivi percorsi di Prevenzione.
Ripensare la RCA. Il sistema di Indennizzo diretto è buona occasione per: assicurare la Patente e legare la dinamica del premio al comportamento di guida (il vero rischio) anziché al sinistro (il caso); investire in Prevenzione (Francia); Assistere nel sinistro (intervento immediato).
VIVIBILITA’. L’assicuratore ha un preciso interesse alla salute dell’uomo e dell’ambiente. È l’attore di mercato per eccellenza di questi equilibri. Come coinvolgerlo? Ascoltarlo, parlarne!

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Per la cultura cittadina c’è davvero il “crollo delle aspettative” recentemente evocato ? MILANO CITTA’ MUSEALE ?

September 30, 2015 By admin

Prof. Paolo Biscottini
Direttore del Museo Diocesano di Milano

Nella sala in cui si svolge questa riunione c’è su di una parete la foto di un elefante in ginocchio, che rende perfettamente l’idea della situazione della cultura milanese: una grande potenzialità, un enorme patrimonio , un incredibile ricchezza di idee e soprattutto una grande storia di civiltà e di pensiero. Questa è Milano, un gigante piegato su di sé, sul il crollo delle sue aspettative, parafrasando un’affermazione di Luca Doninelli.
San Carlo, dopo la peste, nel suo famoso memoriale invocava il risveglio di Milano: alzati Milano cieco!
Così noi oggi vorremmo riassaporare il risveglio culturale di Milano e vedere la nostra città recuperare il suo ruolo morale e culturale, in Italia, in Europa, nel mondo.
L’amministrazione comunale uscente non ha colto la gravità della crisi esistente e l’ha ridotta ad un problema finanziario, come se la carenza dei fondi ne fosse responsabile. Il problema è più profondo. Le risorse finanziarie sono certamente fondamentali, ma da un lato è necessario ripensare e rivedere i costi (non è giunto il tempo di istituire nell’ambito comunale il cosiddetto bilancio di settore?), abbassandoli drasticamente, con una politica oculata e meno faraonica (penso soprattutto alle mostre), mentre dall’altro bisogna formulare progetti capaci di attrarre l’attenzione del privato, che sempre di più vuole capire la serietà delle proposte che gli vengono presentate, disposto anche a non discutere soltanto il suo ritorno d’immagine. Il problema è questo. Il progetto. E’ questo è il problema di cui dovrà farsi carico il nuovo sindaco, quello di un progetto culturale che, tenendo conto delle grandi risorse culturali di Milano, le orienti verso un nuovo sviluppo, capace di suscitare l’interesse anche del mondo finanziario.
Manca, è mancato un progetto inteso come “modifica del presente” e quindi come proiezione nel futuro dell’identità culturale della città.
Si è parlato della grande potenzialità museale cittadina, del suo incredibile patrimonio artistico (quale altra città vanta la presenza così importante di opere di Leonardo, Raffaello, Michelangelo, Caravaggio, Boccioni ecc., solo per citare i giganti?). Perché il Sindaco di Milano non si fa interprete di un progetto che prescindendo dalle diverse proprietà delle opere (lo Stato, il Comune, la Chiesa, i privati ecc.), le consideri nella loro appartenenza a Milano?
I beni culturali di Milano sono o non sono innanzi tutto beni dei milanesi, della città? E perché il Sindaco pensa di doversi occupare e preoccupare solo di quelli di proprietà civica? Non è forse giunto il momento di aprire un tavolo di concertazione fra i vari musei cittadini e definire con loro il progetto culturale di Milano? Con loro, con le Università, con i Centri di ricerca, con la Scuola, con i grandi quotidiani e via dicendo, è necessario aprire un confronto dal quale il Sindaco possa trarre elementi per la sua proposta. Non la proposta dell’Assessore alla Cultura, quella del Sindaco. E’ forse infatti giunto il momento in cui il Sindaco assuma su di sé la responsabilità della Cultura, perché è la responsabilità più alta, quella in cui l’identità ambrosiana incrocia il presente e prospetta il futuro. Così possono nascere i nuovi musei, così i vecchi rimescolano le loro carte e le giocano in una prospettiva coerente e solidale. Così la cultura esce dai suoi recinti ed entra in circolo. Penso alle periferie, ma anche al centro, con la sua straordinaria capacità propositiva. Penso che un progetto culturale vero potrebbe contemplare la fondazione (anche architettonica) di nuovi musei e la rigenerazione di quelli esistenti. Immagino che la programmazione culturale tenga conto della scuola, entri in essa e da essa riesca nella forza creativa dei giovani. Il problema delle periferie e più in generale del degrado non è anche, e forse soprattutto, un problema di valori e quindi di una cultura che non c’è, appiattita sul gusto, sulle mode e nel complesso priva di un centro?
Il Museo in un simile contesto può fare molto, ma bisogna tornare a credere in esso e a puntare sulla sua capacità di proposta.
Si parla, si è parlato talora, dell’anima di Milano. E non si sa bene che cosa voglia dire tutto ciò. Ma se alla parola anima sostituiamo la parola identità, allora diventa più semplice e non astratto lavorare intorno ad un progetto che tenda a recuperare l’identità ambrosiana in una prospettiva ampia, con iniziative non effimere.
Il problema non è certo solo cittadino, ma nazionale: mettere la cultura al centro della strategia politica non è un’operazione elitaria, ma la costruzione del nostro futuro sulla base di un patrimonio che attraverso la cultura e l’arte trasmette un’eredità fatta di valori morali. Questo è reso più difficile dalla scomparsa in Italia della grande committenza, e dalla nascita della cultura dell’evento, che celebrando l’effimero svilisce la nostra storia, il nostro patrimonio artistico, i nostri stessi artisti, ignorati da tutti.
Che ne è dell’arte del secondo Novecento lombardo? Chi ha provveduto ad essa? Quale Museo si interessa di questi artisti, oggi magari settantenni, o di quelli più giovani?
Milano è stata storicamente grande nell’arte di tutti i tempi ed anche in quella recente ha espresso e continua ad esprimersi a livelli altissimi. Ma chi, al di fuori degli addetti ai lavori, lo sa? Nei grandi Musei del mondo vediamo opere di Lucio Fontana (che può essere detto milanese), di Piero Manzoni (milanese), di Castellani ecc. , ma gli altri? E perché Milano non ha un Museo dedicato a Fontana? Oppure ai futuristi (quanto si battè per questo il compianto Tadini!) ?
Abbiamo tanto da fare perché l’elefante in ginocchio si alzi e riconosca con orgoglio la sua identità.

Durante il periodo dell’egemonia culturale social-comunista e del potere culturale craxiano, gli artisti se non erano organici a queste realtà non avevano chances. Oggi, o si piegano al mercato ed alla sua violenza, oppure non esistono.
A differenza poi di quanto avviene ad esempio negli Stati Uniti d’America, il mercato non lavora in collaborazione con le istituzioni culturali, e queste ultime sono affette da un moralismo snobistico, che pretende la separazione totale di mercato e cultura. Questo ha portato da un lato all’isolamento della cultura accademica, mentre il mercato si è definitivamente separato da premesse culturali. Alcuni galleristi hanno fatto grandi investimenti su artisti che poi non hanno avuto occasione di emergere, principalmente a causa della latitanza dell’istituzione che, sola, può legittimare operazioni di promozione culturale.

C’è una metafora della situazione data da un recente evento teatrale: in questo periodo il Piccolo Teatro propone nel doppio cinquantenario “Madre coraggio ed i suoi figli” di Brecht, rappresentato, in modo per altro bellissimo, con un’attenzione alle coreografie tale da mettere in secondo piano la forza del testo, cosa che se è accettabile in uno spettacolo operistico (la specializzazione del regista Carsen), lo è molto meno nel teatro di prosa. Infatti si perde lo spessore del testo, la profondità dell’autore, per di più su di un argomento di assoluta attualità quale la guerra.
Così nella politica culturale cittadina, resta un’impressione di eleganza e raffinatezza senza alcuna profondità di pensiero.

E’ necessario un rinnovamento culturale vero e non di facciata.
Avere una carica di speranza, in questa situazione è possibile solo sperando nel nuovo sindaco, e nel fatto che le sue scelte non vengano condizionate dai vari salotti milanesi.
Dal nuovo sindaco si può sperare un gesto simbolico forte: l’abolizione dell’assessorato alla cultura, e l’avocazione alla competenza del sindaco stesso del ruolo e dell’impegno per una strategia di costruzione di un progetto culturale per il futuro.
In questo modo il sindaco potrebbe avvalersi delle competenze di altri specialisti, coinvolgendo ogni assessore nella responsabilità di una politica culturale visibile in assoluto.
Da una strategia culturale di questo tipo, può discendere un orgoglio municipale che si deve concretizzare anche in cose minime, quali le modalità di conservazione della città, il cui scempio è stato perfezionato con la distruzione della sky-line
neoclassico della Scala.
In questo sta il grande ruolo del sindaco, ripartire dalle radici lombarde della nostra cultura, nella visione dell’innesto di queste radici nella cultura globale.

Questo evidenzia la mancanza di un ruolo di guida e consiglio nelle scelte culturali dei cittadini: non serve il minimalismo funambolico della cultura televisiva, ma il progetto di un sindaco e della sua amministrazione.
Il progetto presuppone una modifica del presente, questo il senso da dare ad un lavoro culturale concreto ed attento.
La speranza c’è, va concentrata sulle persone. Va concentrata sul sindaco. Che possa pensare la cultura a 360 gradi, nei musei ma anche portandola nelle carceri, quindi ovunque. Bisogna ricollocare la cultura al centro per uscire da una rete di mistificazioni che ha finito col far perdere a tutti il senso critico.

E’ necessario riflettere sui motivi per cui Milano non è stata sino ad oggi in grado di organizzare un’offerta culturale che abbia un minimo di struttura logistica, come hanno fatto ad esempio in modo molto concreto Napoli e la Campania.
(P. Biscottini) Questa mancanza è un esempio di mancata coordinazione fra gli attori del sistema, ma prima ancora una dimostrazione di scarso interesse per la cultura in sè.
Gli allestimenti faraonici degli eventi più visibili rappresentano uno spreco, per la spesa concentrata sulle strutture temporanee, senza nessuna ricaduta sulle strutture permanenti.
(P.Biscottini) esiste la possibilità per l’amministrazione di governare questi eventi, orientando e coordinando le attività museali; va anche stimolata la responsabilità dei funzionari e dei direttori di museo nel controllo della spesa.
L’organizzazione dei flussi di visitatori agli eventi culturali risente certamente dell’assenza di una politica globale, perché altrimenti non si spiegherebbe perché un patrimonio come quello dell’Ambrosiana sia così trascurato.
(P. Biscottini) certamente ci vogliono politiche nuove anche sulla biglietteria. Ad esempio si potrebbe pensare al sistema anglosassone dell’offerta libera, che spesso finisce per essere vantaggiosa per l’ente museale.
Esiste una sottovalutazione della cultura scientifica, onda lunga della cultura crociana, che porta a limitare l’importanza di musei come scienza e tecnica o scienza naturale.
(P. Biscottini) pur nel successo di pubblico costante, l’offerta dei musei scientifici cittadini non solo non è aumentata negli ultimi cinquanta anni, ma ha visto un progressivo deterioramento delle strutture di quei musei.

La devolution rischia di avere nel campo museale lo stesso effetto dirompente della questioni dei diritti televisivi nel mondo del calcio: l’offerta nazionale deve essere globale e non si possono concentrare le risorse nelle città d’arte di punta, ma diffonderle ad ogni livello. Analogamente a livello cittadino fra le varie istituzioni museali.
(P. Biscottini) a livello regionale in Lombardia esisteva una commissione musei, oggi abolita, che aveva il compito di coordinare per fare in modo che all’interno di un progetto collettivo ciascuno avesse un ruolo, e l’insieme si valorizzasse. Oggi questo ruolo, anche nel rispetto delle norme sui beni culturali, può essere utilmente ricoperto dal sindaco, sotto la cui responsabilità si faccia il gioco di squadra fra le istituzioni culturali. Questo può avvenire se il sindaco si mette al servizio della città, partendo dall’ascolto degli altri.
 

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Ferrari

September 30, 2015 By admin

Senza venire meno alla sua vocazione cittadina, La Fabbrichetta si presenta all’appuntamento elettorale europeo cercando di cogliere l’occasione per portare alla luce e fare esprimere non solo le realtà di bandiera, ma le persone, perché la regola proporzionale con le tre preferenze porterà l’elettorato ad esprimersi sui candidati all’interno degli schieramenti.
Da parte di chi vota c’è poca conoscenza dei parlamentari europei; in generale c’è una percezione della politica europea, come una complessa realtà burocratica, e anche per chi segue con attenzione la politica, è difficile avere una visione complessiva della politica europea. Di qui la prima domanda che ci sentiamo di porre a Francesco Ferrari, deputato europeo uscente del PD dopo una vita passata nella Coldiretti e nel Parlamento italiano, è: il singolo parlamentare in Europa può fare qualcosa oppure anche lì è difficile contare qualcosa ?
E subito dopo la seconda domanda, inevitabile visto il precedente ruolo nazionale rivestito dal nostro ospite: in Europa è ancora centrale la questione dell’agricoltura ?

L’organizzazione dell’Europa politica ha tre livelli: il consiglio, la commissione ed il parlamento. I ruoli e l’importanza di questi livelli cambia radicalmente con l’attuazione dell’accordo di Lisbona, per cui si dice normalmente che siamo nella fase del passaggio dall’Europa delle Nazioni all’Europa dei cittadini. Certo visto dall’Italia ed in particolare guardando all’azione del nostro governo e del Ministro per l’Europa Ronchi, siamo lontanissimi da questa trasformazione, di cui vengono respinti i 10 punti fondamentali. Un fatto è certo, parlando di questi tre livelli: la commissione, l’esecutivo europeo, produce moltissimo, poi tocca al parlamento decidere, prima con il lavoro in commissione sui progetti di direttiva e di regolamento, poi in aula. In commissione il lavoro del singolo deputato è determinante, anzi tutto per il meccanismo dei relatori: in commissione ogni gruppo ha un relatore “ombra”, che interagisce con il relatore principale di ogni disegno di legge. Questo dà un’opportunità straordinaria di incidere sul processo legislativo, anche più di quanto accada nel parlamento nazionale, almeno in Italia. Rispetto all’esperienza nazionale completamente diverso è il ruolo delle lobby, che agiscono alla luce del sole in difesa degli interessi delle categorie produttive e professionali, entrando in modo costruttivo nel processo decisionale. La trasparenza diventa determinante perché il loro lavoro sia un contributo positivo e non puro corporativismo. Per fare un esempio pratico, derivante dalla mia esperienza personale, nell’iter legislativo del progetto di legge sulla protezione dei pedoni e dei ciclisti, le case automobilistiche si sono mosse tutte, anche se con diverse posizioni: le case tedesche, che hanno standard di mercato meno rigidi e quindi meno protettivi per i consumatori, hanno cercato di porre freni, mentre costruttori italiani e francesi che hanno già standard di progetto e di prodotto che recepiscono le norme più avanzate per la protezione dei pedoni, hanno collaborato con la commissione parlamentare nel definire le norme europee. Poi alla fine c’è stato un compromesso politico, che si è concretizzato nell’allungare i tempi per l’entrata in vigore definitivo dei disciplinari normativi di produzione, il che consente a italiani e francesi di manetener eil loro vantaggio competitivo, senza mettere fuori mercato i tedeschi. Il vero vantaggio di tutto questo sarà però per i cittadini, perché è stato calcolato da uno studio neutrale universitario, che le nuove norme porteranno ad una diminuzione del 35% della mortalità negli incidenti stradali che coinvolgono pedoni e ciclisti.
Perché tutto questo si realizzi condizione necessaria è però la presenza costante dei deputati alle sedute della commissione e dell’aula, per poter opportunamente valutare i pareri delle varie lobby, e poi per realizzare quei compromessi che sono l’essenza di ogni sintesi politica. Con l’entrata in vigore delgi accordi di Lisbona poi, la commissione europea dovrà coinvolgere in maniera crescente il parlamento. Sarà necessaria coesione a livello di politica estera ed economia per realizzare concretamente la libertà di movimento dei cittadini entro norme comuni in tutta Europa.
Per quanto riguarda l’agricoltura, storicamente si tratta di uno dei settori chiave dell’integrazione comunitaria, anche se oggi la percentuale più importante dei finanziamenti comunitari effettivamente erogati all’Italia si è spostata verso altri settori, come quello di trasporti e comunicazioni. Questo deriva non solo dalla crescente importanza di questi altri settori, ma anche dalla presenza più costante dei deputati italiani nelle commissioni: in Commissione trasporti Paolo Costa ed il sottoscritto hanno lavorato di conserva con tutti i governi per la realizzazione dei corridoi di comunicazione, mentre nello stesso periodo i finanziamenti al’agricoltura italiana sono calati dal 60 al 38% del finanziato complessivo. Con questo si è comunque arrivati, grazie ad una positiva interazione con le Regioni, a destinare direttamente importanti contributi alle politiche infrastrutturali, alle politiche agricole ed al sostegno all’occupazione, e solo per fare un esempio solo per la Lombardia sono stati recentemente stanziati per queste voci 600 milioni di euro da qui al 2013.
Questi risultati sono diretta conseguenza anche di quanto si diceva a proposito dell’importanza del lavoro del singolo deputato, in quanto ogni membro del parlamento europeo partecipa ai lavori di due commissioni, in una come titolare, nell’altra come supplente. In questo modo un deputato che sia sempre presente in ambedue le funzioni, ha una capacità di condizionamento importante, perché può riuscire a fare mediazioni con le altre forze politiche giocando su più tavoli.
Lavorando in questo modo è stato possibile ottenere il risultato di cui si diceva per la normativa sulla protezione dei pedoni, ed a sostenere i finanziamenti all’agricoltura italiana, che poi non avrà tutto il risultato ottenuto a causa della scelta del Ministro Zaia di utilizzare ad esempio in un’unica soluzione il finanziamento triennale per le quote latte, per ottenere risultati immediati, che però saranno deludenti nel medio termine.
Parlando poi di agricoltura la grande opportunità che l’Europa offre alla produzione italiana è la difesa dei prodotti di qualità: su produzioni come quella del parmigiano, il sostegno dei prezzi a livello europeo è determinante per supportare la politica di difesa della qualità della produzione nazionale contro i surrogati. Per realizzare questa protezione è però necessaria una presenza costante che eviti i colpi di mano dei sostenitori delle produzioni di massa a scarsa qualità, esattamente come abbiamo fatto nel 2008, quando con un colpo di mano a fine legislatura, con la commissione del senato concentrata sulla campagna elettorale, siamo riusciti a ottenere la proroga del decreto del 2001 su qualità, prodotti tipici ed etichettatura.
In definitiva il parlamentare europeo deve con una presenza costante, riuscire a fare conciliare gli interessi del consumatore europeo con quelli della produzione nazionale.
DOMANDE E RISPOSTE

1) Come interagiscono norme europee e norme nazionali ?

A livello italiano la produzione normativa è ormai quasi per 80% attuativa di normativa europea. Se si prende ad esempio un settore come la zootecnia in Italia la normativa è di competenza regionale: quando a livello comunitario è stata fatta una normativa sull’uso dei nitrati negli allevamenti, in Italia ci sono state 20 diverse applicazioni a livello regionale della normativa comunitaria. Questo ha finito con l’aumentare il distacco delle regioni avanzate in questo settore, come la Lombardia che è una delle quattro regioni chiave, un vero motore a livello europeo, rispetto ad altre regioni italiane. Questo avviene anche in altri paesi , basti pensare alla Spagna dove la Catalogna ha la stessa funzione della Lombardia, ma per l’Italia poi pesa anche una certa divisione della rappresentanza parlamentare, che a livello europeo resta fortemente divisa.

2) Posto che la reputazione europea dell’Italia è vicina allo zero, ci sono vere prospettive di sviluppo dell’unione europea, oppure tutto resterà delimitato entro schemi che finiscono per penalizzare la specifica situazione italiana ?

Personalmente sono fiducioso, ma è necessario fare un lavoro di sintesi. Torniamo agli esempi concreti: quando nel passato abbiamo permesso ai francesi di zuccherare il vino, abbiamo rinunciato a difendere i nostri interessi, visto che da noi quelle operazioni non erano necessarie. Sarebbe bastato imporre l’indicazione del tipo di utilizzo degli zuccheri sulle etichette dei prodotti, per difendere la nostra produzione di qualità che avrebbe potuto confrontarsi con la produzione di qualità francese, eche invece deve difendersi dalla concorrenza di bassa qualità. In generale ci siamo accontentati di contropartite sul breve periodo, perdendo però tutte le battaglie strategiche. Altrettanto per le politiche sulle carni suine e sui frantoi.
E poi abbiamo del tutto rinunciato alle politiche di controllo dei prezzi: sui mercati esteri la nostra produzione di qualità viene strapagata a tutto vantaggio degli importatori. Basta controllare il livello dei prezzi del parmigiano nelle nostre città e nelle principali capitali europee.
Il nostro governo è stato assente in tutte queste battaglie, confermando il detto bresciano secondo cui “a andà se lecca, e a stà se secca”.

3) Da tutto questo esce anche un quadro desolante dell’informazione sulla politica europea: di tutto questo in Italia non si parla.

Giornali e TV parlano poco di Europa. I nostri ministri, Ronchi in testa, sono isolazionisti e in generale euro-scettici, e quindi abbiamo poi politiche italiane come quella di boicottare i 10 punti di Lisbona, l’uso parziale dei finanziamenti, i supporti privi di controllo al sistema bancario e finanziario a scapito del sistema produttivo. Al venir meno della protezione statale non corrisponde una maggiore protezione europea.

4) Come si vede da Strasburgo la questione dell’adesione della Turchia alla UE ?

Secondo me l’Europa arriverà a 40: quando riusciranno a dare adeguate garanzie su diritti umani, libertà civili e regole di reciprocità, anche Russia e Turchia entreranno. Certo sarà un processo lungo, ma la direzione è quella, anche perché a livello strategico, dopo che è venuto meno il bipolarismo militare fra USA e Russia, l’Europa ha un ruolo solo se unita.
Oltre che lungo non può che essere un processo progressivo: il completo recepimento degli accordi di Lisbona sarà determinante, e poi conterà la flessibilità con i nuovi membri. Un esempio c’è stato recentemente con le misure anti crisi a favore delle nazioni più deboli dell’Est europeo. Che ci devono fare ricordare che anche l’Italia in tempi non così lontani ha tirato la cinghia per rispettare i criteri comunitari.

5) Come si concilia la responsabilità planetaria dell’Europa unita, con il rapporto demografico sbilanciato rispetto al terzo mondo ?

Anche questa questione va inquadrata in una prospettiva storica di lungo periodo, guardando al passato per capire il presente ed orientare il futuro. L’Europa come la conosciamo oggi, nasce dalla Comunità del carbone e dell’acciaio. Dove sono oggi il carbone e l’acciaio: esiste un monopolio, ma con un sistema di regole che sono la conseguenza diretta dell’esperienza comunitaria. L’esistenza delle strutture comunitarie ha permesso di controllare l’evoluzione di un settore una volta determinante, oggi solo importante, evitando che diventasse un sistema a scapito dei cittadini.
Altrettanto dobbiamo fare per guardare in prospettiva futura. Pensiamo ad esempio alla cruciale questione degli organismo geneticamente modificati: la scienza non dà certezze oggi, forse le darà fra vent’anni sulle conseguenze dell’uso di questi prodotti in agricoltura. Il ruolo dell’Europa è di governare questa evoluzione con regole che garantiscano risultati vantaggiosi per i cittadini ed un quadro di mercato controllato, senza distorsioni.
In questo modo l’Europa può proporsi anche riferimento a livello planetario.

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