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La Fabbrichetta

laboratorio politico aperto

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CARCERE: UN GHETTO IN CITTA’ ?

September 30, 2015 By admin

Valerio Onida
Professore di Diritto Costituzionale
Presidente Emerito della Corte Costituzionale

Fra le proposte di discussione concreta sulla Milano che viviamo e che vorremmo far cambiare, la Fabbrichetta ha colto l’occasione di interrogare il professo Valerio Onida, Presidente emerito della Corte Costituzionale, non dei molti temi propri della sua esperienza accademica e professionale, ma della sua sfera privata, poiché Valerio Onida si occupa come volontario della condizione carceraria. Uno dei molti argomenti sui quali il Comune di Milano potrebbe avere voce in capitolo.
Il tema è interessante, perché se solo passasse concretamente questa idea, ci sarebbe un enorme passo avanti nella considerazione dei temi carcerari, perché la realtà odierna è che di carcere non si occupa compiutamente neanche chi dovrebbe prendersi cura dell’istituzione carceraria nel suo complesso.
E’ considerazione evidente che la città si occupa dei propri luoghi, nei quali vivono i nostri concittadini. Tale è anche il carcere, e tali sono, anche se spesso lo si dimentica, i carcerati.
Non molti sanno che molti carcerati chiedono la residenza nel comune di reclusione, per poter risolvere in modo più pratico i loro problemi amministrativi. Ad esempio a San Vittore si reca periodicamente un impiegato comunale per gestire lo sportello . Analogamente l’amministrazione municipale si occupa di facilitare l’accesso ai luoghi di reclusione periferici con linee regolari di mezzi pubblici.
Milano ha quattro istituti carcerari maggiori, San Vittore, Opera, Bollate e il Beccaria per i minori. Il più vecchio e centrale, San Vittore, assolve ormai la funzione di custodia di detenuti in attesa di giudizio, che non scontano una pena definitiva, ma sono in regime di custodia cautelare. Per questo a San Vittore non si applicano tutti gli istituti del regime penitenziario, e quindi ad esempio il lavoro e la cultura non sono dei diritti. Giuridicamente si tratta di una situazione corretta a norma di legge, ciò non toglie che si pongano dei seri problemi pratici.
Opera e Bollate sono strutture relativamente recenti, anche se invecchiate in fretta ed in modo diverso fra loro, mentre al minorile Cesare Beccaria i giovani detenuti restano sino al 21° anno, prima di affrontare il salto, spesso drammatico, verso il carcere ordinario.
Questo mondo appartiene alla città, e qualcuno dice che le carceri contribuiscono a valutare il grado di civiltà di una nazione.
Questo principalmente perché il carcere ha un valore rieducativo, anche se oggi è un dato di fatto acquisito che tale non sia per chi ci arrivi da situazioni marginali per motivi sociali, economici o familiari. Il carcere dovrebbe essere un momento privilegiato per occuparsi di queste persone marginali, altrimenti così difficili da controllare e persino abbordare per l’istituzione. Purtroppo anche questa occasione non viene colta, non ostante, come spesso accade in Italia, l’esistenza di una buona legge, che però viene spesso male applicata. C’è una distanza siderale fra le belle esposizioni ed aspettative delle leggi, e la realtà carceraria.
Ad esempio l’art 20 della legge sull’ordinamento carcerario dice che il lavoro è obbligatorio, ma poi nelle carceri italiane solo il 20% dei detenuti ha un lavoro interno o esterno. Bollate arriva al 50%, e questo ne indica la situazione privilegiata. Il motivo delle differenze sta nelle strutture e nelle risorse: il sovra affollamento delle strutture è un fatto noto, e laddove manca la struttura minimale non è possibile pensare a spazi per il lavoro.
Ma le risorse sono anzi tutto gli uomini: la polizia penitenziaria non copre mai interamente gli organici né ha rapporti numerici adeguati agli standard internazionali. Si assiste invece ad un fenomeno di cattiva distribuzione geografica delle risorse umane, tema ricorrente nella nostra amministrazione pubblica così sbilanciata in termini di personale verso il mezzogiorno.
Tuttavia il rapporto fra polizia penitenziaria e detenuti è generalmente buono, non mancano le opportunità di formazione.
Del tutto carente è invece il livello delle risorse nelle aree del personale non di custodia: educatori, psicologi ed altre categorie sono rarissimi, al punto che si stima siano poco più di 200 in tutta Italia.
Ci sono poi limitazioni fortissime per tutto quanto costa, dall’acqua calda alla carta per scrivere, sino al capitolo delicatissimo della sanità. Il detenuto ha per legge, tutti i diritti del cittadino in materia di salute, e se prima esistevano strutture sanitarie all’interno del carcere, nel regime del Servizio Sanitario Nazionale è l’Azienda Sanitaria Locale a dover assicurare le prestazioni a tutti i carcerati, cittadini e non. Ovviamente le particolarità della condizione carceraria si riflettono sulle prestazioni sanitarie, perché il carcerato non è libero di spostarsi autonomamente né in modo programmato solo in funzione dei suoi bisogni sanitari, il che pone un serio problema organizzativo.
A Milano presso l’Ospedale San Paolo c’è un reparto di degenza riservato ai detenuti, ma ovviamente è poco per le quattro strutture di reclusione milanesi.
Stante questa situazione il problema è cosa fare.
Alcuni enti locali nominano un garante dei diritti dei detenuti, fra essi tanto il Comune di Roma che la Provincia di Milano. La cosa in sé potrebbe anche avere un valore, purtroppo questi enti non hanno né poteri reali né strutture su cui appoggiarsi, e quindi si finisce per essere condizionati dalla personalità del garante.
Che poi esiste già per legge, ed è il magistrato di sorveglianza, ovvero colui che ha, fra gli altri, il compito di sorvegliare la corretta gestione della struttura carceraria. Nella realtà gli altri numerosi compiti del magistrato di sorveglianza (in particolare amministrativi in relazione al calcolo ed alle modalità della pena per ciascun detenuto) finiscono per essere prevalenti, e quindi la figura determinante diviene quella del Direttore del carcere, come ad esempio a Bollate.
Ben vengano queste figure se propositive, ma spetterebbe alla amministrazione penitenziaria nel suo insieme l’azione concreta, e non le sole iniziative di bandiera molto visibili ma poco reali.

L’ente locale ha funzioni che interagiscono in modo sostanziale col mondo carcerario, prima fra tutte la competenza sui servizi sociali , che si occupano di raccordare i detenuti che stanno anche parzialmente fuori dalla struttura, in regime di semi libertà. Ha poi competenza sull’edilizia, il che non è secondario perché se come vuole la teoria la pena dovesse essere scontata principalmente fuori dal carcere allora una politica edilizia per il carcere avrebbe un impatto serio. Potrebbe infatti incidere sulla detenzione domiciliare, che spesso risulta impossibile per la pratica mancanza del domicilio specificamente per i detenuti extra comunitari, ma anche per molti cittadini. E’ il caso delle detenute madri, che se hanno figli minori di 10 anni, e in assenza del rischio che possano commettere reati gravi, dopo avere scontato 1/3 della pena possono accedere alla carcerazione domiciliare.
Inoltre il Comune si occupa di lavoro interviene in prima persona sul mercato del lavoro, e questo è un tema centrale per il detenuto, che se non ha lavoro oggi in carcere, ben difficilmente potrà trovarlo domani quando dal carcere uscirà. La legge Smuraglia aveva dato 6 mesi di sgravi fiscali a chi assumeva un detenuto all’uscita dal carcere, ma dovrebbe fare seguito un’assunzione a tempo indeterminato, e questo avviene raramente, per motivi legati alla congiuntura economica.
Ancora, il Comune ha competenza sulla cultura, ma interviene oggi solo con la limitata fornitura alle biblioteche del carcere, laddove potrebbe intervenire con risorse aggiuntive. C’è un esempio della Regione Lombardia che paga personale integrativo che ha funzione di supplenza rispetto alla citata carenza di organici.
Peraltro è evidente che per fare ci vogliono risorse, anche solo per creare le condizioni materiali del pratico utilizzo delle risorse stesse. Si può parlare di una miriade di micro progetti che potrebbero essere supportati con un minimo impegno da parte dell’ente locale.
(Viene citato il caso della costruzione di un bagno nuovo per l’asilo nido di San Vittore, finanziato da privati e realizzato nella sostanziale indifferenza dell’istituzione e nella competitività fra organizzazioni volontariato).
Spesso il problema si limita all’assenza di coordinamento: nella stessa amministrazione penitenziaria c’è grande lentezza per arrivare all’applicazione della pena, figuriamoci della lentezza con la quale i detenuti possono fruire dei benefici di legge. Il solo collegamento informatico reale svecchierebbe l’amministrazione dando maggiore efficacia al suo lavoro.
Esiste un esempio evidente della carenza di coordinamento: la legge di riforma dell’ordinamento carcerario, prevedeva l’istituzione di “Consigli di aiuto sociale” in ogni distretto di Corte d’appello. Questi enti, presieduti dal Presidente del Tribunale avrebbero dovuto avere ampie competenze su tutti gli aspetti della vita carceraria, ed essere finanziati con la cassa ammende dei tribunali. Non ne è entrato in funzione neanche uno, e le loro funzioni di coordinamento non sono svolte da nessun altro organo.

C’è poi il lungo e complesso capitolo degli stranieri: certamente non tutti gli stranieri che arrivano sono tutti delinquenti. Oggi gli stranieri rappresentano il 30% della popolazione carceraria a livello nazionale, mentre se ne stima una quota intorno al 10% della popolazione nazionale. Questa quota supplementare è dovuta all’assenza di quella rete esterna di supporti che conduce in condizioni normali ad evitare il carcere, e quando ciò non è possibile, ad affrontarlo con la disponibilità dell’appoggio familiare all’esterno. Così il carcere è pieno di detenuti che scontano pene brevi, sino a tre anni, alle quali quasi tutti gli italiani sfuggono.
Se il comune collaborasse in maniera attiva nella gestione del processo di rilascio dei permessi di soggiorno, oggi svolto dalla Polizia di Stato con spirito di sacrificio, ma nessun mezzo supplementare, si avrebbero famiglie più rapidamente e compitamente integrate. E questo finirebbe per evitare marginalità, e nel caso, di dare un supporto ai detenuti, per non fare del carcere una condizione irreversibile e prolungata nel tempo.

Su tutto questo il Comune potrebbe intervenire, ma con fantasia e buona volontà molto si potrebbe fare. Si tratta in primo luogo di intervenire in modo coordinato con altri enti pubblici aventi competenza sul carcere, dalla magistratura alla stessa amministrazione penitenziaria, alla sanità pubblica, e con gli enti privati quali il settore del volontariato. Questo complesso di enti funziona meglio e con maggiore efficacia se c’è un coordinamento ed un supporto, innanzi tutto tecnico, non necessariamente finanziario.

Il Comune di Milano non è decisivo ma neanche del tutto assente: c’è un Osservatorio Comune/Carcere, coordinato dal Dirigente dell’Assessorato ai servizi sociali, che si occupa di coordinare gli interventi delle associazioni di volontariato. Ci sono iniziative minime, come 3 appartamenti messi a disposizione ad Opera per i permessi e la semi libertà, su fondi Cariplo, peraltro non permanenti. Si tratta di rendere continuativa e coerente questa politica.

Il volontariato e l’intervento sostitutivo dell’ente locale non possono essere anche letti come l’abdicazione dello stato dai suoi compiti in materia di rieducazione ? E la gestione del rapporto con il volontariato, non è legata a politiche di breve respiro ed a strutture che poi sono di potere o sotto potere economico ? Nell’esaminare le responsabilità politiche dell’ente locale in materia carceraria questi dubbi non sono eludibili. Anche perché che la responsabilità sia politica, giudiziaria, istituzionale, quello che è certo è l’impatto dell’universo carcerario sulla realtà sociale.

Filed Under: archivio, incontri Tagged With: la fabbrichetta, milano, politica

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